La digitalizzazione del lavoro non è di per sé né buona né cattiva, ma porta con sé molteplici possibili futuri che per concretizzarsi richiedono consapevolezza rispetto alla trasformazione digitale in corso. In quest’ottica, la Fondazione Marco Biagi ha realizzato uno studio che indaga i sistemi di “performance management” in uso nelle imprese italiane, presentato alla comunità dei manager delle risorse umane lo scorso 15 maggio a Modena. La ricerca è stata condotta nell’inverno 2017/2018, mediante la somministrazione di due questionari on-line, a un campione di imprese e di lavoratori, e ha voluto indagare le principali tendenze in atto nella valutazione della prestazione lavorativa in Italia, proprio alla luce dei profondi cambiamenti nell’organizzazione e nella regolazione del lavoro derivanti dalla “digital transformation”. Come ha spiegato Tommaso Fabbri, coordinatore scientifico del progetto, il mondo del lavoro sta vivendo un momento di riflessione sui sistemi di performance management, iniziato nel 2015, quando Accenture ha annunciato di volersi sbarazzare della valutazione annuale delle prestazioni dei suoi dipendenti, influenzando molte delle grandi imprese internazionali a fare altrettanto, e proseguito un anno dopo quando gli HR di Facebook sono intervenuti sull’Harvard Business Review con un articolo in cui sostenevano che smantellare il sistema di valutazione della performance non significa che la prestazione non venga più valutata, ma piuttosto che questa debba essere effettuata con diverse modalità. Il campo dei sistemi di performance management è dunque attraversato da una nuova tensione, che non riguarda il concetto in sé di valutazione, quanto come debba essere concepita e realizzata. In ogni caso è fuori discussione che gli Spm (Sistemi di performance management) sono un campo privilegiato per comprendere le tendenze in atto nelle organizzazioni. Nei sistemi di performance management in uso nelle imprese italiane e nel modo in cui le imprese valutano la prestazione lavorativa dei loro collaboratori è infatti possibile intravedere le caratteristiche del nuovo modo di lavorare e soprattutto del nuovo modo di organizzare e dirigere il lavoro. Così come nelle criticità degli Spm in uso e nelle intenzioni di miglioramento espresse dalle imprese è possibile osservare in che misura le tecnologie digitali stanno accompagnando la trasformazione dell’azienda verso modelli meno gerarchici, più agili e autorganizzati o se invece stanno accompagnando il consolidamento di logiche già esistenti improntate al controllo.
I risultati dell’indagine
Perché le aziende scelgono di avere un Spm? A che tipologia di lavoratori lo applicano? Con quali modalità? Quali cambiamenti ritengono necessari? Sono queste le questioni affrontate nella parte della ricerca rivolta ai datori di lavoro. Ciò che è emerso è che le aziende lo ritengono ancora uno strumento efficace per la gestione della performance e per migliorare il rapporto tra capi e collaboratori, anche se spesso lo adottano in quanto funzionale a esigenze esterne come la certificazione del sistema di gestione della qualità. Per quanto riguarda i soggetti a cui si applicano gli Spm si tratta in prevalenza di dirigenti e quadri, mentre solo due aziende su tre lo applicano a tutti gli impiegati e meno di un terzo delle aziende lo estende anche agli operai. Un dato interessante è quello relativo ai lavoratori somministrati. Dall’indagine emerge infatti che l’81% delle aziende con un Spm non lo applica ai lavoratori in somministrazione a causa della natura temporanea della prestazione; questo suscita interrogativi sulla reale integrazione di questo tipo di lavoratori nelle organizzazioni.
Quali sono i criteri di valutazione delle prestazioni? In che modo viene definita la performance e come di conseguenza viene incentivata? Stando ai questionari il primo criterio di valutazione e reward per le aziende è il “pay per performance”, ovvero risultati raggiunti verso obiettivi dati, seguito da “pay per competence”, cioè competenze espresse verso teoriche, “pay for task”, basato sull’esecuzione della mansione richiesta e infine “pay for time”, basato sulla presenza e sull’intensità della prestazione. Sembra quindi che il concetto di prestazione prevalente sia quello non legato a fattori di execution e di intensità del lavoro quanto piuttosto a criteri di natura più qualitativa: raggiungere gli obiettivi prefissati e detenere o sviluppare specifiche competenze professionali.
Ma come si assegnano gli obiettivi e come si valutano i risultati? Quali parametri sono usati? A che livello sono coinvolti i lavoratori? Sono utilizzati per generare motivazione intrinseca e partecipazione o solo come strumenti di controllo e conformismo all’azienda? Dalle interviste è emerso che l’impostazione dell’Spm è imperniata su rapporti gerarchici con una prevalenza di parametri quantitativi su quelli qualitativi. Un approccio alla performance, quindi, non adattivo né flessibile. Da segnalare tra gli altri dati significativi come le aziende utilizzino il Spm su base annuale, non permettendo quindi di orientare successivamente in base ai risultati le prestazioni, e di come si tratti per lo più di un’attività ancora analogica, ovvero cartacea, e non informatizzata né tantomeno integrata nei sistemi aziendali Erp.
Quali sono i criteri con cui i lavoratori vengono valutati? Ritengono che le valutazioni siano oggettive e veritiere? E soprattutto sono utili? Anche da parte dei lavoratori viene confermato che i principali criteri di valutazione utilizzati sono i risultati raggiunti in base agli obiettivi e le competenze possedute, mentre gli elementi legati al tempo e all’intensità del lavoro sono identificati come meno importanti. Risultati e competenze sono anche i criteri in base ai quali i dipendenti reputano soddisfacente la propria attività. Solo una minima parte dei lavoratori ritiene di lavorare bene se le relazioni con i capi sono positive e anche la collaborazione non è per i lavoratori uno dei parametri principali di autovalutazione. Per i lavoratori, tutto sommato, gli Spm sembrano essere degli strumenti abbastanza equi a livello sostanziale, nonostante i metodi con cui vengono implementati. L’utilità degli Spm è confermata dai lavoratori che lo reputano uno strumento che stimola il raggiungimento dei risultati e che aiuta nello sviluppo delle competenze, pur al prezzo di un certo stress correlato. Il livello di partecipazione dei lavoratori nella definizione degli obiettivi risulta invece basso; solo poco più della metà dei lavoratori viene chiamato in causa.
Uno strumento valido ma da migliorare
L’impatto degli Spm in termini di efficacia viene valutato positivamente sia dai lavoratori che dalle aziende, nonostante la metà degli HR intervistati ritenga di dovere introdurre in futuro dei cambiamenti al sistema di valutazione, andando a migliorare la gestione del feedback e la formazione dei valutatori, modificando i criteri di misurazione delle prestazioni e migliorando la connessione tra Spm e sistema di incentivazione. Il punto di vista dei lavoratori è invece che meritocrazia e trasparenza spesso siano solo sulla carta, che sia necessaria l’implementazione di un piano di sviluppo dopo la valutazione e che spesso gli obiettivi non siano chiaramente e oggettivamente definibili. L’ultima e interessante considerazione emersa è che i lavoratori che non sono soggetti a una valutazione delle prestazioni vorrebbero invece che la loro azienda la introducesse.