Nuove regole per un lavoro di qualità

Superare il Jobs Act e la Legge Fornero guardando a un moderno sistema di tutele universali; favorire l’ingresso delle nuove generazioni e costruire un nuovo welfare; promuovere attraverso la formazione un nuovo modello di sviluppo. Sono alcune delle proposte di Cesare Damiano per far ripartire il lavoro.

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Cesare Damiano, ex Ministro del Lavoro e Presidente di Lavoro&Welfare
Cesare Damiano, ex Ministro del Lavoro e Presidente di Lavoro&Welfare

Ministro del lavoro e della previdenza sociale dal 2006 al 2008 nel secondo Governo Prodi, una lunga carriera in ambito sindacale alle spalle, per anni responsabile del lavoro del Partito Democratico, autore di diverse riforme in ambito pensionistico, Cesare Damiano, piemontese, amante dei gatti e della pittura, è da sempre molto attento alle questioni sociali. In qualità di ex ministro del lavoro non potevamo non iniziare chiedendogli un commento al tanto chiacchierato “Decreto Dignità”.

Cosa c’è di giusto e cosa di sbagliato nella nuova legge sul lavoro? Qual è il suo punto di vista sul lavoro in somministrazione? La lotta al precariato obiettivo del “Decreto Dignità” poteva a suo avviso assumere altre forme e modalità?

Io non disprezzo la diminuzione della durata del contratto a termine, passata da 36 a 24 mesi (faccio presente che nella passata legislatura la stessa richiesta era stata fatta dal Pd). Così come non disprezzo il fatto che si siano innalzate le mensilità di risarcimento in caso di licenziamento illegittimo (perché quello era un mio emendamento non accettato all’epoca del mio governo). Il punto non è tanto quello di vivisezionare un decreto identificando la singola norma positiva o negativa, quanto di esaminare la filosofia complessiva di un provvedimento. In questo caso la buona intenzione di combattere la precarietà, che io ho sempre perseguito, non si è sposata con una norma razionale. Per quanto riguarda poi la somministrazione faccio presente che gli interventi iniziali sul lavoro interinale erano inaccettabili e che fortunatamente alcune correzioni sono state apportate. Non si può confondere questo strumento regolare e trasparente, che garantisce i diritti dei lavoratori, che prevede anche forme di indeterminato, e che ha anche un costo superiore a quello del contratto indeterminato, con il lavoro precario. E soprattutto non si può accettare la definizione data dal vice premier Di Maio di “caporalato”. Verificheremo comunque l’impatto di queste norme solo tra qualche mese, quando potremo capire se ci sono stati episodi di contrazione nell’utilizzo del contratto a termine e in somministrazione. Per il momento i primi segnali ricevuti non sono certo positivi, come dimostrano alcuni casi di aziende che in diversi settori non hanno rinnovato i contratti. La via maestra per combattere il lavoro precario, iperflessibile, saltuario, temporaneo, a termine, è quella di agire in modo strutturale e importante sul costo del lavoro. Non credo ci siano altre strade; il lavoro stabile a tempo indeterminato deve costare meno di quello flessibile.

ll lavoro nel nostro Paese sta cambiando: quali sono le principali criticità di questo cambiamento? Ci stiamo avviando verso una società di “lavoratori poveri”?

Il fenomeno descritto dai sociologi come “working poor” non è di oggi; è un processo che dura da decenni e che deriva dal passaggio dal vecchio capitalismo industriale al nuovo capitalismo finanziario, come lo definì Marchionne un “capitalismo avido”. Quello industriale non era certo tenero, ma aveva alla base l’idea di rendere conveniente avere lavoratori ben pagati e professionali, che diventavano a loro volta ceto medio e quindi consumatori di quei prodotti da loro stessi realizzati. Negli ultimi 40 anni la distribuzione della ricchezza è invece andata al rovescio. Se esaminiamo i dati forniti dalle istituzioni internazionali, notiamo che dal 1980 al 2014 negli Usa la ricchezza dell’1% più abbiente è migliorata del 170%, mentre quella del ceto medio solo dell’11% e che la produttività del lavoro è triplicata, mentre le risorse distribuite a vantaggio dei lavoratori sono diminuite del 9%. C’è stato quindi un generale processo di impoverimento dei lavoratori, a cui si è unito il blocco dell’ascensore sociale. Se i nati fino al 1975 potevano immaginare nel corso di una vita di lavoro di salire di grado nella scala sociale, i nati dopo tale data devono sottostare alla dura legge del “pavimento colloso”; se nasci povero resti povero, se nasci ricco resti ricco. È evidente quindi che questi fenomeni hanno reso più debole e più povero il ceto medio e quindi i lavoratori. Il tema della rivalutazione del potere di acquisto diventa pertanto fondamentale, anche ai fini di una possibile ripresa economica. In un’indagine del 2002 di Lavoro&Welfare si evidenziava come il 40% dei salari stesse sotto alla soglia dei 1000 euro mensili, scoprendo una tendenza alla bassa remunerazione a livello di massa. Nell’ultima rilevazione del 2018 il fenomeno ha evidenziato un ulteriore peggioramento; il 5% della popolazione lavorativa sta infatti sotto la soglia dei 400 euro di reddito mensile. Non quindi solo lavoratori poveri, ma anche poverissimi. La necessità è pertanto quella di mettere nuove regole. Deve finire l’epoca della deregolamentazione, della flessibilità, della privatizzazione, della liberalizzazione a senso unico. Questo capitalismo spregiudicato va regolato per favorire il capitalismo stesso, altrimenti vengono messe fuori gioco dalla concorrenza sleale le imprese che rispettano leggi e regolamenti.

Centri per l’Impiego e Agenzie per il Lavoro sono le realtà che si occupano di servizi al lavoro. Ha senso il rafforzamento proposto dal Governo per i Cpi? Ci sono altre misure che a suo avviso potrebbero favorire lo sviluppo occupazionale?

Credo di essere stato l’ultimo ministro a finanziare e a non disprezzare i Centri per l’Impiego, da sempre messi sotto accusa, in parte a ragione, in parte a torto. Ho viaggiato negli anni 2000 tra i Cpi di tutta Italia e posso dire che nel nostro Paese, purtroppo, il modello è a macchia di leopardo; ci sono alcuni centri di eccellenza al Centro Nord e altri in condizioni disastrose al Sud. Oggi non si può che constatare che il numero degli addetti dei Cpi è inferiore alle 8000 unità e che parte di questi sono lavoratori a loro volta precari, senza le adeguate competenze, che lavorano con dotazioni infrastrutturali e informatiche non al passo con i tempi. È possibile rianimarli? Mi sembra un’impresa difficile, vista anche l’incongruenza contenuta nella legge di bilancio, che prevede una dotazione di un miliardo di euro solo per il 2019/20120 che confligge con l’ipotesi di nuove assunzioni di personale a tempo indeterminato. La mossa del governo è a mio avviso insufficiente e inefficace, soprattutto se, come pare, questi Centri, già in grave difficoltà dovessero accollarsi anche la gestione del reddito di cittadinanza. Promettere è bello, mantenere è difficile; ci vogliono proposte più realistiche e soprattutto bisogna badare alla loro traduzione pratica e non fermarsi solo alla dichiarazione di principio. Da parte mia ho sempre teorizzato l’alleanza tra i Cpi, le Agenzie per il Lavoro, le Università e le imprese, per uno scambio concreto di informazioni per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

Stiamo assistendo a nuove forme di lavoro atipico create dalla “Gig Economy”. Qual è il suo parere in merito a una possibile regolamentazione di questa modalità lavorativa?

Le nuove modalità produttive, decentrate, flessibili e just in time, hanno modificato il profilo del vecchio lavoratore fordista, portando alla discontinuità dell’attività lavorativa. Dando questo per scontato ci sono diverse strade da intraprendere. Si può scegliere di tornare alla valorizzazione della stabilità del lavoro (che non va confusa con il posto fisso per la vita), pensando a tutele universali di base che valgano per qualsiasi tipi di lavoro e che diano sicurezza alle nuove generazioni; si può decidere di favorire la continuità del lavoro garantendo i contributi anche nel momento della disoccupazione; si deve di archiviare il Jobs Act legando il risarcimento in caso di licenziamento illegittimo alla gravità del fatto avvenuto. Credo in ogni caso che sia necessario un pavimento di tutele universali, che partano da una paga definita dalla libera contrattazione tra le parti sociali nel lavoro dipendente. Per quanto riguarda invece i lavoratori senza contratto di riferimento, come nel caso dei rider, penso che debba intervenire la legge stabilendo un compenso minimo, così come nel caso del lavoro autonomo combatto da sempre la battaglia a favore dell’equo compenso e delle tariffe minime per i professionisti. Sono in generale contro il dumping salariale e la corsa al massimo ribasso delle condizioni in ogni settore del lavoro, che porta solo a conseguenze disastrose. Infine, se vogliamo davvero incentivare il lavoro continuativo non possiamo che dare incentivi fiscali importanti alle imprese che investono nelle assunzioni a tempo indeterminato diminuendo il cuneo fiscale.

In un’ottica digitalizzazione e di Impresa 4.0, la formazione rappresenta un mezzo per creare le professionalità del futuro. Cosa si può fare di più e di meglio per sviluppare questo strumento?

Penso che di fronte a un’evoluzione così repentina delle tecnologie e dei modelli organizzativi e produttivi, si comprenda come la formazione permanente debba essere un elemento regolatore. La formazione serve alle imprese e ai lavoratori? Dipende da come viene fatta. È certo che svolge un ruolo fondamentale per promuovere un nuovo modello di sviluppo produttivo e che rappresenta una chiave per la crescita nell’ambito della quarta rivoluzione industriale. Formazione e innovazione sono essenziali in un contesto sociale ed economico come l’attuale. Quello che sconcerta è però l’incomunicabilità tra il momento della formazione scolastica e quello dell’ingresso nel mondo del lavoro. Oggi non si è ancora in grado di dare una risposta a questo problema. In passato ho fatto approvare un emendamento per consentire ai giovani degli istituti professionali di essere assunti con un regolare contratto di apprendistato e favorito una sperimentazione in questo senso, ma ancora oggi si trova resistenza da parte di chi pensa che ci sia il rischio di fornire alle imprese manodopera sottocosto. Credo invece si debba iniziare a conoscere il mondo del lavoro fin da quando si studia, e che si debba continuare a studiare anche quando si lavora, con momenti di formazione finalizzati allo sviluppo delle proprie competenze.

La disoccupazione giovanile in Italia è a livelli allarmanti. Cosa ci manca rispetto ad altri Paesi? Garanzia Giovani è uno strumento adeguato?

Garanzia Giovani è stata una sorta di grande censimento di massa della disoccupazione giovanile; non mi sembra abbia però fornito delle risposte adeguate al problema. Credo che agli anziani vada data la pensione e ai giovani il lavoro. È evidente che l’allungamento dell’età pensionabile ha portato un paradosso nel mercato del lavoro, aumentando l’occupazione degli over 55 anni e diminuendo invece quella degli under 35. Così come il blocco delle assunzioni nella Pubblica Amministrazione non ha certo favorito il ricambio generazionale. Bisogna dare il via a un processo virtuoso di flessibilità del sistema previdenziale, accompagnando fuori dal lavoro le categorie più deboli. La mia generazione deve rendersi conto che lavorare in eterno per sostenere la famiglia impedisce ai figli di vivere con il proprio lavoro e che il lavoro prolungato degli anziani non può diventare il bancomat dei giovani.

Quota 100. Parliamo di pensioni, argomento di cui lei è tra i massimi conoscitori. Cosa si può fare per trovare un equilibrio tra le coperture mancanti e la necessità di liberare posti di lavoro?

Ricordo che la prima “quota” l’ho inventata io, ed era 95, ovvero 60 anni di età e 35 di contributi; una quota ideale che poteva oscillare gradualmente. La legge Fornero ha invece cancellato questo principio commettendo un errore fondamentale. Nella passata legislatura avevo portato una proposta che prevedeva l’anticipo di 4 anni del momento della pensione, attualmente a 67 anni, prevedendo che i contributi di base fossero 35 anni e che per ogni anno di anticipo ci fosse un taglio del 2%, consentendo contemporaneamente a chi totalizzava 41 anni di contributi di andare in pensione a qualsiasi età anagrafica. L’Inps fece i conti e stimò una quota complessiva per questi provvedimenti non accettandola. Oggi con 6,7 miliardi previsti nella legge di bilancio il governo vorrebbe fare la sua quota 100, ma altre promesse come quota 41, opzione donna e nona salvaguardia non hanno risorse a disposizione.

È un dato di fatto che lo Stato sarà sempre meno in grado di garantire previdenza e assistenza. Il welfare aziendale può essere la risposta?

Alcuni contratti, a partire da quello dei metalmeccanici, stanno già andando in questa direzione. La legislazione ha infatti favorito questa tendenza al welfare aziendale con una detassazione completa che incentiva il datore di lavoro; l’imprenditore risparmia e il lavoratore ci guadagna. Non credo che si debba favorire una sorta di sostituzione del welfare privato a quella che è l’architettura pubblica, sia nel campo previdenziale che sanitario, ambiti in cui lo stato deve mantenere il suo ruolo. Si può però pensare di intervenire con una regolamentazione che metta ordine tra le diverse forme di sanità integrativa, come è stato fatto per le pensioni, e bisogna anche cambiare l’idea di complementarietà. Non siamo più negli anni 90 in cui dopo una carriera lavorativa continuativa si arrivava a una pensione dignitosa; oggi si tratta di arrivare a una pensione dignitosa aggiungendo la pensione complementare. Pensione complementare che dovrebbe diventare, se non obbligatoria, sicuramente fortemente incentivata da una legislazione fiscale a sostegno.

Lei è presidente dell’associazione Lavoro&Welfare; qual è lo scopo di questa iniziativa?

L’associazione Lavoro&Welfare, di cui sono presidente, compie proprio in questi giorni dieci anni. In questi anni siamo diventati un laboratorio di studio, analisi e proposta per dare risalto all’innovazione, al ruolo e al pensiero del lavoro e del welfare. Abbiamo realizzato oltre 150 iniziative su questi temi; organizzato eventi, scuole di formazione, campus, corsi ad hoc, coinvolgendo personalità del mondo della cultura, dello spettacolo, della politica e delle parti sociali. Sempre con l’obiettivo di favorire la cultura del lavoro, del welfare e della crescita economica, scandagliando tematiche che spaziano dalla Gig Economy alla Industria 4.0, anche attraverso pubblicazioni e indagini.

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