di Laura Reggiani |
Con un’esperienza più che trentennale negli studi dei sistemi pensionistici pubblici, Elsa Fornero assumeva il ruolo di Ministro del Lavoro del governo “tecnico” presieduto da Mario Monti – insediatosi nel novembre del 2011 – il cui compito era quello di scongiurare una gravissima crisi finanziaria. Nell’ambito del decreto “Salva Italia”, il 4 dicembre di quell’anno presentava al Consiglio dei Ministri una riforma del sistema previdenziale tanto attesa ma redatta in poco più di due settimane.
La riforma prevedeva, tra altre misure minori, l’estensione per tutti del metodo contributivo a partire dal primo gennaio 2012, forti restrizioni al pensionamento anticipato, l’aumento dell’età per la pensione di vecchiaia, il graduale allineamento dell’età di pensionamento di uomini e donne; l’attivazione del meccanismo di indicizzazione dell’età di pensionamento all’aspettativa di vista, un contributo di solidarietà sulle pensioni più elevate e il congelamento dell’aggancio ai prezzi di quelle superiori a tre volte il minimo.
Il suo nome rimane indissolubilmente legato a quella riforma, che rappresentò un passo fondamentale sia per portare l’Italia fuori dall’emergenza-debito, sia per riaffermare principi di equità tra le generazionali. La riforma è tuttora in piedi, soltanto temporaneamente sospesa per un triennio da Quota 100.
Professoressa, come vive la responsabilità di quella norma? Oggi, cambierebbe qualcosa?
Credo che un’associazione così stretta al mio nome della riforma delle pensioni – condivisa da tutto il governo e votata a larghissima maggioranza dal Parlamento – sia un caso abbastanza unico di personalizzazione estrema di una legge.
Detto questo bisogna ricordare che la riforma del sistema pensionistico venne introdotta per far fronte a un momento drammatico di crisi economica e finanziaria, circostanze eccezionali in cui era necessario fare interventi drastici, anche se dolorosi. È certo che con il senno di poi si sarebbe potuto fare di meglio; si sarebbe potuto rendere più graduale l’incremento degli anni necessari per il pensionamento e si sarebbero potuti controllare meglio i numeri delle persone che avevano fatto accordi di uscita anticipata. Si sarebbe dovuto monitorare la riforma e correggerne gli errori. Invece la politica preferì avere quella legge imperfetta per poi additare i tecnici come capri espiatori, invece di migliorarla.
Parliamo dell’abolizione della Legge Fornero attraverso “Quota 100”. Ci sono degli aspetti positivi della nuova riforma? Quali sono invece i rischi?
Le parole in campagna elettorale erano inequivocabili e non facevamo pensare a interventi limitati e circoscritti nel tempo. Quella che invece è entrata nella Legge di Bilancio è una misura sperimentale di Quota 100, che lascia, peraltro, la riforma inalterata dopo la sperimentazione. Non si tratta quindi di un’abolizione, ma di una temporanea sospensione, per un periodo di tre anni.
Un’altra osservazione riguarda i finanziamenti che sono stati previsti per tre anni; intanto occorre dire che sono finanziati a debito e questo vuol dire che il costo viene in buona misura scaricato sulle generazioni future. E poi, basteranno? Fonti ufficiali parlano di 20 miliardi nei tre anni. Era davvero prioritario spendere così tante risorse per mandare in pensione le persone a un’età più giovane? Non sarebbe stato meglio intervenire in modo più selettivo, cominciando dai lavoratori in situazione di maggiore disagio?
Resta in ogni caso da capire quante persone ne approfitteranno: ci sono infatti elementi negativi per l’aspirante pensionato anticipato, a cominciare dal livello più basso della pensione rispetto a quella conseguibile in età “normale”, fino al divieto di cumulo, e quindi di lavoro, per chi andrà in pensione. Ci sono, insomma, i presupposti perché in futuro si possa creare una fascia di pensionati relativamente giovani ma sempre più poveri nel tempo.
L’idea secondo cui i prepensionamenti sono un modo per creare occasioni di lavoro per i giovani è molto discussa. Qual è la sua opinione ?
Si tratta di un grande equivoco. Non ci sono prove scientifiche ma sappiamo che in tutti i paesi in cui il mercato del lavoro funziona, là dove è più alto il tasso di occupazione degli anziani è più alto anche quello dei giovani. Vuol dire che non c’è sostituzione ma un mercato del lavoro che funziona e che è in grado l’includere tutte le persone in età lavorativa.
L’idea della sostituzione l’abbiamo sperimentata per decenni e non ha mai contribuito ad aumentare il tasso di occupazione dei giovani. Non si può pensare che basti il pensionamento anticipato per far trovare lavoro alle generazioni giovani. Tra l’altro, giovani e anziani hanno competenze spesso assai diverse.
Restano indimenticabili le sue lacrime quando annunciò agli italiani che avrebbero dovuto fare dei sacrifici. Quali sono i sacrifici che a suo avviso dovrebbero essere fatti oggi?
Gli italiani, in particolare durante il periodo della crisi, hanno effettivamente fatto sacrifici importanti; soprattutto i più anziani a cui ho chiesto un contributo di solidarietà, lavorando più a lungo. Purtroppo è vero che non è bastata la riforma delle pensioni per rimettere in careggiata il Paese, e d’altronde sarebbe stato ingenuo pensarlo.
Il Paese avrebbe dovuto proseguire sulla strada delle riforme, puntando a far crescere l’economia e la produttività del lavoro, il cui basso livello è uno degli elementi strutturali che ci condanna ai sacrifici. Oggi invece queste misure, che tendono solo a far aumentare il disavanzo e a far crescere il debito, potrebbero portare i cittadini a dover fare nei prossimi anni nuovi sacrifici, con il rischio di vanificare quelli fatti in passato.
Cosa c’è di giusto e di sbagliato nel Decreto Dignità? La lotta al precariato poteva a suo avviso assumere altre forme?
Quello che c’è di buono è l’aspirazione a una occupazione di maggiore qualità. Aspirazione che peraltro è stata di molti, se non di tutti, i ministri. Io stessa introdussi diverse misure per limitare la precarietà – penso ai provvedimenti per ridurre le false partite Iva o alle misure restrittive ai contratti atipici – che mi attirarono molte critiche da parte del mondo imprenditoriale, nonché l’accusa di restringere la flessibilità del lavoro.
L’aspirazione, quindi, è giusta, ma sappiamo per esperienza che non basta un decreto per far funzionare il mercato del lavoro. Il Decreto Dignità inverte una tendenza, quella a trovare un equilibrio tra flessibilità, elemento apprezzato dalle imprese per ridurre il costo del lavoro, e precarietà, elemento negativo per i lavoratori e le famiglie, riportandoci indietro nel tempo. Il rischio, confermato anche dai dati, è che i posti di lavoro si riducano anche se magari vanno nella direzione della stabilizzazione, senza considerare che qualche volta, purtroppo, anche un lavoro che non ha garanzie di stabilità e continuità è meglio di nessun lavoro. Purché naturalmente sia per un periodo limitato e non protratto per tutta la vita.
Ha senso il rafforzamento proposto dal Governo per i Centri per l’Impiego?
I Centri per l’Impiego funzionano bene solo in poche regioni e province. E questo perché troppo spesso manca da parte di chi vi opera una conoscenza approfondita del mercato del lavoro, mancano le professionalità e le competenze necessarie.
Bisogna cambiare mentalità, portare all’interno dei Cpi tante risorse, competenze e professionalità, persone che sappiano “leggere” correttamente dati e tendenze dell’offerta di lavoro delle imprese, che abbiano capacità psicologiche per comprendere e incentivare capacità, aspirazioni ed esigenze dei lavoratori. Non dobbiamo illuderci che le persone troveranno facilmente lavoro solo grazie a qualche “navigator” improvvisato.
In un’ottica di digitalizzazione, la formazione rappresenta un mezzo fondamentale per creare le professionalità del futuro.
La digitalizzazione è un campo che è esploso ma sulle cui conseguenze abbiamo ancora poche conoscenze. Credo, in ogni caso, che il progresso non debba essere fermato e che ritardare le applicazioni, non investendo nell’innovazione, possa solo portarci ad essere meno produttivi e meno competitivi sui mercati.
Oggi sappiamo che ci sono professioni che nei prossimi anni con alta probabilità spariranno, ma sappiamo anche che ci sono nuove professioni che stanno emergendo. Il mondo della formazione e della ricerca devono lavorare in sinergia per rendere il progresso tecnologico meno doloroso sul piano occupazionale. Dobbiamo avvicinarci all’innovazione, migliorare il dialogo tra mondo del lavoro e della scuola, pensando a nuove forme di apprendistato che permettano di acquisire le competenze per l’inserimento nel mondo del lavoro. Dobbiamo lavorare a 360 gradi investendo in settori nuovi, incoraggiando le start-up e i giovani. E far sì che le innovazioni possano essere concretamente realizzate eliminando costi inutili e impedimenti burocratici.
La disoccupazione giovanile è a livelli allarmanti. Rimane valido l’invito che fece ai giovani di non essere troppo “choosy”?
Voglio precisare che il termine “choosy” fu riportato fuori dal contesto in cui venne utilizzato, che voleva invece sottendere le maggiori difficoltà che hanno i giovani ad avvicinarsi al mercato del lavoro, senza potersi permettere di essere schizzinosi. In Italia abbiamo una disoccupazione giovanile molto alta, perché il rapporto tra mondo della scuola e mondo delle imprese funziona in modo poco soddisfacente. La scuola spesso considera stage e percorsi all’interno delle imprese come una perdita di tempo, senza capire che, dove questi funzionano, offrono invece un arricchimento di prospettiva importante per poi trovare lavoro. E, anche da parte delle imprese, ci sono ancora motivi di diffidenza e di incapacità organizzativa.
Va detto che le Regioni in cui si ha un tasso di disoccupazione giovanile più simile a quello generale sono quelle in cui il dialogo tra mondo del lavoro e della scuola è più forte; penso alla Lombardia o alle province di Trento e Bolzano, che hanno servizi per il lavoro che funzionano e considerano strumenti come l’apprendistato un valido aiuto all’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Ma in genere sono aree geografiche nelle quali è più facile investire ed è maggiore la cooperazione tra le istituzioni pubbliche locali e il settore privato.
Ha pubblicato il libro “Chi ha paura delle riforme”. Perché è così difficile realizzare le riforme?
Realizzare le riforme in Italia è difficile perché ci sono molte persone che remano contro e che non hanno interesse ad essere trasparenti e raccontare la verità, che hanno dei privilegi da difendere a cui non vogliono rinunciare. Per lungo tempo il modo italiano di governare si è basato sulla divisione e sulla creazione di privilegi a scapito delle generazioni future.
La politica oggi è obbligata a guardare agli appuntamenti elettorali e tende a pensare solo al breve termine, mentre le riforme sono fatte per correggere problemi strutturali e quindi richiedono una visione a lungo termine. Per questo le riforme sono difficili da realizzare, in quanto richiedono di fare oggi sacrifici per poter stare meglio domani.
Recentemente è andata in pensione. Si dedicherà ad altri interessi?
Le attività intellettuali non sono confinate a un rapporto di lavoro. Ho la fortuna di poter continuare a insegnare e di poter svolgere un esercizio di dialogo civile. Il libro mi ha fornito l’occasione, che non ho avuto da ministro tecnico, di parlare e dialogare con i cittadini. Ho avuto l’occasione di conoscere la bella Italia delle associazioni culturali, molte delle quali mi invitano a presentare il libro proprio in una logica di dialogo civile, pur nella differenza di opinioni. Persone che ho trovato aperte e preparate, in grado di capire la complessità dei problemi, persone che non si accontentano di slogan e che non ricercano capri espiatori.
Sono preoccupata per il mio Paese e per quello che sta succedendo, ed essendo preoccupata intendo continuare a impegnarmi, mantenendo la fiducia che, con l’impegno di tanti, il nostro Paese possa riprendere un cammino di crescita non solo economica, ma anche civile.
Elsa Fornero è stata prima ricercatrice, poi Professore Incaricato e infine (dal 2000) Professore Ordinario di Economia Politica presso la Scuola di Management ed Economia dell’Università di Torino fino allo scorso novembre, quando è andata in pensione. Ha ricoperto la carica di Ministro del Lavoro con delega alle Pari Opportunità dal 16 novembre 2011 al 28 aprile 2013. E’ autrice di numerose pubblicazioni scientifiche, ha fondato ed è coordinatore scientifico del CeRP, un centro di ricerca nato dalla collaborazione Tra l’Università di Torino e la Compagnia di San Paolo; Research Fellow di Netspar e Policy Fellow dell’Institute for the Study of Labor, due organizzazioni internazionali di ricerca su lavoro e sistemi previdenziali. È inoltre membro del comitato di ricerca dell’International Network on Financial Education dell’Ocse e del Comitato Scientifico dell’Observatoire de l’Epargne Européenne di Parigi.