Donne, lavoro, salute e sicurezza

Se in tema di parità di opportunità e di trattamento sul lavoro non possiamo ancora parlare di un’uguaglianza sostanziale, in termini di salute e sicurezza sul lavoro c’è ancora molto da fare in una prospettiva “gender oriented”.

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salute lavoro donne

di Silvia Doria e Sonia R. Marino* |

Sul finire del XIX secolo timidamente inizia il cammino della tutela lavorativa delle donne. Per prima l’Inghilterra, dove la legislazione protettiva riguardante il lavoro femminile, a partire dalla riduzione dell’orario, è stata discussa e approvata tra il 1853 e il 1878, per poi introdurre, nel 1867 con la Factory Act, il riposo domenicale per le donne e i fanciulli.

Gradualmente in tutti i Paesi europei, a partire dalla Germania nel 1878, si vietò il lavoro delle donne nelle profondità delle miniere, benché i fattori scatenanti furono principalmente di ordine morale (si disapprovava culturalmente che la donna lavorasse in tali ambienti) e di tutela della salute riproduttiva femminile. Tuttavia, nonostante l’emanazione dei divieti le donne continueranno a svolgere questo genere di attività fino a dopo la Prima Guerra Mondiale, come dimostra l’esame di alcuni libretti di lavoro belgi che attestano la presenza delle donne in miniera sino al 1920.

Prime tutele alle donne lavoratrici

In Italia, nel 1902 venne approvata la legge n. 242 (Legge Carcano, dal nome del ministro promotore del disegno di legge) che dettava norme, seppur minime nei contenuti, a tutela delle donne lavoratrici. Questa legge vietava alle donne i lavori sotterranei e alle minorenni il lavoro notturno; mentre limitava a dodici ore l’orario massimo giornaliero, con un riposo di due ore. Nel 1907, con la legge n. 416, si estendeva il divieto di lavoro notturno a tutte le donne, benché nella pratica permanesse spesso per la necessità di svolgere quel ruolo di male breadwinner attribuito per troppo tempo ai soli uomini.

Se da un lato, dunque, si assisteva alla nascita in Europa di forme di protezione sul lavoro, volte a stemperare una pesante situazione di sfruttamento che comportava gravi rischi per la salute della donna, dall’altro si tutelava quello che era considerato un “soggetto debole”. Un soggetto non con uguali opportunità e parità di trattamento rispetto all’uomo, bensì che necessitava di protezione soprattutto in considerazione della sua funzione riproduttiva, del ruolo sociale e culturale, oltre che per la rispettabilità e moralità familiare.

Rimanendo in Italia bisognerà attendere il 1977 con la Legge n. 903 del 9 dicembre, per l’introduzione del principio di parità di trattamento e di opportunità sul lavoro tra uomini e donne, e non solo quello di tutela delle lavoratrici in quanto madri o potenziali madri, sulla scorta di quanto espresso dalla Direttiva europea 76/207 sulla parità di trattamento fra uomini e donne relativa all’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale, e le condizioni di lavoro; e il decreto legislativo 151/2001 di tutela della “lavoratrice madre”, che si occupa di una fase contenuta della vita di una donna, come la gravidanza, il post-partum e l’allattamento, e non promuove miglioramenti delle condizioni di lavoro più inclusivi.

Tappe legislative orientate al mainstreaming di genere

Un approccio alle differenze di genere, sia in termini di prevenzione, sia di conseguenze per la salute, a partire dalle malattie professionali e all’incidenza infortunistica in ambito lavorativo, è relativamente recente. Fino alla fine degli anni ‘90 il tema della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro in una prospettiva di genere risultava focalizzato, a livello sovranazionale, principalmente su due fronti: la tutela delle lavoratrici nella loro dimensione “riproduttiva” e la tutela delle donne nei confronti della violenza nei luoghi di lavoro.

Nel 1997, con il Trattato di Amsterdam e l’avvio di un processo che riconosce il principio di eguaglianza come valore fondante dell’UE, declinabile a livello trasversale (gender mainstreaming), la differenza di genere entra a pieno titolo nel dibattito politico e giuridico legato alla tutela della salute e sicurezza nei contesti di lavoro. Prende così avvio l’attività di promozione dell’uguaglianza tra uomini e donne in ogni settore e a tutti i livelli (occupazione, lavoro, retribuzione).

Mentre nei successivi anni, a partire dal 2002, la Strategia europea per la sicurezza sui luoghi di lavoro vede finalmente il superamento del cosiddetto approccio neutrale che per lungo tempo aveva caratterizzato quello di Bruxelles in materia.

Negli ultimi anni, dunque, l’UE afferma la necessità di promuovere un’effettiva parità anche nella prevenzione, definendo i criteri per l’individuazione dell’impatto di genere nell’incidenza degli infortuni e delle malattie professionali, oltre che nella valutazione delle misure adottate.

Entro un tale scenario, un primo passo non scontato è lo sgomberare il campo dalla presupposta neutralità degli incidenti e delle malattie connesse al lavoro – neutralità che ha fondato gran parte della costruzione scientifica derivata dal “dominio maschile” – e porre fine all’inadeguata attenzione, nell’analisi teorica e nella ricerca empirica, alle peculiarità femminili, non solo fisiologiche, ma legate alla distribuzione dei carichi domestici e familiari.

Un primo approccio unitario in ottica di genere

Nel contesto italiano, con il D.Lgs. 81/2008 si pongono le basi per la promozione di un approccio unitario finalizzato al concetto di benessere sul luogo di lavoro in ottica di genere, seppur manchino indicazioni in merito alle modalità per conseguirlo.

Un ulteriore contributo al cambiamento arriva dai processi di trasformazione del mercato del lavoro e della struttura dell’occupazione. L’omogeneità e la neutralità tayloristica “del soggetto che lavora” è definitivamente messa in discussione dalla crescente partecipazione delle donne al mercato del lavoro. È con la Strategia di Lisbona del 2000 che si fa strada la prospettiva che ridefinisce il valore della partecipazione delle donne al mercato del lavoro e, con essa, la ri-considerazione dell’organizzazione del lavoro e di come essa incida sui rischi e, di conseguenza, sulla salute e sicurezza di lavoratrici e lavoratori.

Basti pensare a problematiche legate alla progressione di carriera e al fenomeno del “Glass Ceiling” che può generare, oltre a discriminazioni, stress e frustrazioni, fenomeni di discriminazione orizzontale e verticale, che relegano le donne in posizioni meno prestigiose e sottopagate; alla conciliazione vita-lavoro con la “doppia presenza” delle donne (responsabilità sul lavoro e in famiglia), o la rinuncia al lavoro retribuito per far fronte alle esigenze familiari.

Un sistema ancora basato sulla neutralità

A distanza di anni la parità non può ancora dirsi completamente attuata nel mondo del lavoro, avendo disatteso, nei fatti, anche quel rinnovato principio di equità di genere al centro delle politiche di sviluppo dell’Unione europea e del programma Horizon 2020 che sostiene “parità salariale” e “parità nei posti di responsabilità”, e nella società in generale. Ancora oggi, le donne svolgono gran parte del lavoro di cura non retribuito e, conseguentemente, le donne che lavorano “fuori casa” risultano essere normalmente sottoposte a un doppio carico di lavoro e, quindi, anche a diversi rischi.

Se in tema di parità di opportunità e di trattamento sul lavoro (ma anche nella formazione, nella carriera e nelle condizioni di lavoro) non possiamo ancora parlare di un’uguaglianza sostanziale, è altresì vero che in termini di salute e sicurezza sul lavoro c’è ancora molto da fare in una prospettiva gender oriented, entro la quale prendere atto di quanto le differenze di genere siano determinate socialmente e culturalmente e siano altro dalle differenze che afferiscono alla sfera biologica. Occorre promuovere un’analisi dei rischi lavorativi che tenga conto di diversità “costruite” e rimetta in discussione tutta una serie di dato per scontato, come la presunta “neutralità”.

Riprogettare spazi e attrezzature

In Italia, il Testo Unico 81 ha cercato di dare un impulso in una direzione che recepisse, almeno sulla carta, l’importanza di considerare il genere nelle questioni legate alla sicurezza sul lavoro menzionando, per la prima volta, la dimensione di genere in relazione alla valutazione dei rischi. Come testimoniato dal dettato normativo, spesso in ritardo rispetto alle esigenze pratiche di lavoratori e lavoratrici, da diversi anni è in atto uno sforzo per smascherare la pretesa neutralità del rischio ed evidenziarne, in particolare, la relazione tra la sua valutazione in ottica di genere.

In conclusione, si rende necessario un focus più attento alla diversità degli effetti di una medesima esposizione al rischio di soggetti appartenenti a generi diversi; agli arredi e al design dei luoghi di lavoro e degli spazi adibiti per esempio alle visite mediche; e, non ultimo, alla progettazione di strumenti e attrezzature da lavoro, in particolare, dei dispositivi di protezione individuale, affinché tengano conto delle diversità e non siano costruiti su un ipotetico, quanto irrealistico, “uomo medio”.


* Silvia Doria è sociologa dell’organizzazione all’Università di Roma Tre e Sonia R. Marino è architetto, European Ergonomist, Presidente di Integronomia, società di ricerca in ergonomia e sostenibilità.


“Glass ceiling”, l’invisibile barriera al successo

Glass CeilingIl “soffitto di cristallo” è una metafora che indica una situazione in cui l’avanzamento di carriera di una persona in una organizzazione lavorativa, o il raggiungimento della parità di diritti, viene impedito per discriminazioni, di carattere razziale o sessuale che si frappongono come barriere insormontabili anche se apparentemente invisibili.

L’espressione fu coniata nel 1978 da Marilyn Loden e poi usata nel marzo 1984 da Gay Bryant, ex direttrice della rivista Working Woman in un’intervista in cui dichiarava “Le donne hanno raggiunto un certo punto – io lo chiamo il soffitto di cristallo. Sono nella parte superiore del middle management, si sono fermate e rimangono bloccate. Non c’è abbastanza spazio per tutte quelle donne ai vertici. Alcune si stanno orientando verso il lavoro autonomo. Altre stanno uscendo e mettono su famiglia”.


 

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