di Gabriel Del Sarto* |
Nel numero precedente abbiamo cercato di spiegare come impiegare lo storytelling non sia un’operazione banale, ma strategica e di lunga durata.
Se azzecchi uno storytelling giusto, disse una volta qualcuno, lo puoi cavalcare per anni. In questo articolo desideriamo mostrare due cose: per quale ragione succede che le storie ben fatte hanno successo e, in seconda battuta, perché un imprenditore, oggi, dovrebbe seriamente prendere in considerazione la possibilità di utilizzare un set narrativo per comunicare, sia fuori che dentro l’azienda (e sulla narrazione interna, quella che crea appartenenza e motivazione, ci sono ancora spazi immensi da esplorare).
Cosa succede quando raccontiamo
Raccontare non è solo un modo per comunicare agli altri le nostre esperienze (o i nostri prodotti/servizi), ma anche un mezzo per comprenderle. Soprattutto quando la relazione tra narratore e ascoltatore funziona, raccontare una storia consente di mettere a fuoco le cose importanti, attraverso la trasformazione delle emozioni in parole condivise. Questo significa dare luogo a una inedita relazione fra un brand e la sua “comunità” di riferimento, fatta di persone che non solo acquistano, ma che diventano anche capaci di condizionare il posizionamento del brand stesso, come dimostra il clamoroso e recentissimo caso di Diesel, che analizzeremo più avanti.
Narrare è un potente mezzo con cui una persona può comunicare a un’altra sensazioni, conoscenze ed emozioni. Quando raccontiamo, costruiamo piccole cattedrali, strutture che contengono una dose di magia, di irresistibile fascino per chi ci ascolta. La ragione dell’efficacia di una storia risiede nel fatto che una narrazione produce come risultato una serie di eventi e di personaggi, che compiono delle azioni in vista di determinati scopi, usando mezzi più o meno appropriati, entro situazioni di vita conosciute. La storia, per raggiungere il suo scopo, è dotata di una trama che in genere comporta un problema da risolvere e un avversario da sconfiggere.
Che il problema sia quale auto comprare, quale sia il detersivo che fa per me o come io possa attraversare il bosco evitando il lupo cattivo, non fa differenza. Un bel racconto, narrato da un bravo narratore, funzionerà sempre. Il segreto è legato al fatto che la trama che un narratore mette in scena, crea stati di sospensione, di attesa o di sorpresa e accresce nell’ascoltatore il suo interesse e la sua attenzione. Ognuno di noi, alla fine, desidera sapere se l’eroe riuscirà nella sua impresa, o se fallirà. Questa struttura conferisce una notevole coerenza alla storia, ne facilita la trasmissibilità, la comprensibilità e la memorabilità.
Raccontare è trasmettere un’emozione
Narrando si trasmettono conoscenze e punti di vista e questo esercita una profonda influenza su chi ascolta. Oggi si usa, in particolar modo, il termine inglese storytelling per denotare questa funzione del narrare e i suoi effetti che, certamente, possono essere ambigui. Infatti le narrazioni non solo svelano mondi e ne offrono una chiave interpretativa, ma possono essere orchestrate per manipolare le menti, per trasmettere “fake news”, per fare propaganda, per smuovere gli altri ad agire verso direzioni volute dal narratore.
Il marketing narrativo si muove su questo affascinante e delicato confine: non si tratta più di trasmettere un contenuto razionale ma un’emozione profonda, che diventa solo successivamente argomento e concetto. È un vero ribaltamento del modo in cui siamo stati educati a costruire le argomentazioni nella comunicazione e nel marketing commerciale, aziendale e politico.
Una volta forse bastava affermare che un certo detersivo lavava “più bianco che non si può”: per quanto anche questo messaggio contenesse un elemento ipnotico e non razionale, la comunicazione girava tutta su strutture che imitavano la ragione. Esistevano delle certezze. Adesso, come sostiene Andrea Fontana nel suo recente “Regimi di verità”, assistiamo alla “riscossa delle emozioni” e, contemporaneamente, all’impulsività del desiderio di comunicarle e condividerle on line.
Se un tempo il cittadino-consumatore era mosso da una argomentazione “ragionevole”, oggi le comunità di consumo sono segnate da “stati nervosi”, come li ha definiti il sociologo inglese Davies, in cui gli individui si esprimono e scelgono a partire dalla mobilitazione di emozioni pubbliche.
Il caso Diesel parla di tutti noi
Diesel da tempo segue una propria forte narrazione identitaria. Si tratta, infatti, di un brand che ha saputo da tempo dialogare con una comunità di consumatori abbracciando anche tematiche non scontate, che intercettano emozioni profonde. In particolare, di recente, ha pubblicamente preso posizione pro comunità Lgbt a livello mondiale. Questa scelta è stata senza dubbio coerente con l’identità e i valori che Diesel ha costruito e raccontato nel tempo, ma ha scatenato un forte reazione in molti follower.
La vera sorpresa però è stata la scelta della risposta dell’azienda, che con un post, nella cui immagine campeggiava un inequivocabile “-14.000 followers after we showed our pride. Thank you”, ha salutato con un “bye bye” i 14.000 utenti che hanno smesso di seguire il brand in un solo fine settimana. Nel post veniva invitato chiunque credesse negli stessi valori dell’azienda, a celebrare l’evento. In questo modo il brand ha dimostrato una forza e un ingaggio sui valori inedito, ma soprattutto ha dimostrato di aver capito cosa stia accadendo nella comunicazione aziendale in questa epoca. Per dialogare con i vari pubblici, ci dice questo fatto, un’azienda deve innanzitutto conoscere se stessa e i propri valori e di conseguenza posizionarsi. Fare del marketing come si faceva fino a poco tempo fa, senza un vero legame fra il prodotto o il servizio e l’identità, potrebbe persino rivelarsi col tempo dannoso.
Oltre a conoscere se stessa, un’azienda deve sapere ascoltare le emozioni che agitano sia i consumatori che il mondo che essi abitano. Non può credersi, insomma, estranea alla cronaca (nemmeno a quella politica). Infine dovrà essere pronta a scontri, a possibili radicalizzazioni, a narrazioni avverse e contrarie ai valori che racconta (il caso di Diesel).
Ma come si può provare a gestire tutto questo nuovo mondo? Quale modello di marketing è possibile? Una risposta chiara forse ancora non c’è, ma di certo sappiamo che non si potrà fare a meno dello storytelling. Può sembrare un’affermazione un po’ troppo assertiva, alla fine valida solo per grandi brand che dispongano di importanti risorse da investire in comunicazione. Come ha tentato di fare Andrea Bettini nel suo “Non siamo mica la Coca-Cola”, anche noi cercheremo, nel prossimo articolo, di convincervi che questa sfida comunicativa riguarda un po’ tutti, comprese le nostre, a volte ricche di storie straordinarie, micro e piccole imprese.
Diesel e il buon uso del marketing narrativo
Il noto marchio d’abbigliamento Diesel ha perso 14mila follower su Instagram e li ha ringraziati con un post, festeggiando la loro fuga di massa avvenuta dopo che, sul proprio account Instagram, aveva pubblicato una serie d’immagini per celebrare il mese del Pride e la comunità lgbt.
“Sosteniamo con orgoglio i nostri valori da oltre 40 anni e crediamo nel Pride. Per coloro che non lo fanno, inclusi i 14.000 follower che ci hanno lasciati nell’ultima settimana… addio! Per coloro che condividono le nostre opinioni e i nostri valori, celebriamo il fatto che l’amore è amore. Sempre”.
Questo il post di ringraziamento per i 14mila utenti che hanno deciso di non seguire più il profilo della Diesel. In seguito sui social network molti utenti hanno espresso solidarietà e sostenuto la campagna di Diesel.
* Gabriel Del Sarto è consulente, formatore, specialista in storytelling e amministratore delegato della società Etruscaform