Non è solo questione di spazi

L’impatto dell’ambiente sulle persone e sul loro benessere è fondamentale nella ridefinizione degli spazi di lavoro. Parola di Workitect.

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Workitect

di Virna Bottarelli |

Dall’incontro tra due professionalità e sensibilità diverse, quella di Simone Casella, architetto e designer specializzato nella progettazione di uffici, e quella di Luca Brusamolino, consulente HR laureato in organizzazione aziendale, è nata Workitect, una società che porta già nel nome il suo tratto innovativo: con il termine workitecture, infatti, si identifica una nuova disciplina che fonda i suoi principi sull’architettura e sui processi tipici delle risorse umane.

Come dice Luca Brusamolino, che nel suo percorso di studi ha approfondito il rapporto tra persone e spazio fisico di lavoro: “Il mondo del lavoro sta vivendo un fortissimo cambiamento, la tecnologia digitale ci permette potenzialmente di lavorare ovunque. Vengono ripensati gli uffici per facilitare l’innovazione e allo stesso tempo razionalizzare gli spazi. Spesso, però, viene trascurato un aspetto importante di questo cambiamento: l’impatto sulle persone”.

Luca Brusamolino e Simone Casella
Luca Brusamolino e Simone Casella sono i soci fondatori di Workitect

A lui abbiamo chiesto come è cambiato e cambierà il mondo del lavoro e che cosa porta Workitect di innovativo alle aziende che intendono riorganizzare i propri spazi focalizzandosi sul benessere dei propri collaboratori.

Quando e come avete percepito che il mondo del lavoro stava cambiando?

Il mondo del lavoro cambia e si evolve ogni giorno, non c’è un vero e proprio momento zero del cambiamento. Il segreto è quello di andare incontro ai bisogni dei lavoratori, affinché lo spazio “ufficio” possa diventare non solo un luogo fisico dove recarsi ogni giorno, ma un vero e proprio mezzo per raggiungere un duplice scopo: maggiore produttività e benessere psicofisico dei lavoratori.

Qual è la vostra definizione di Smart Working?

I media spesso associano questo concetto al lavoro da casa, ma in realtà esso rappresenta un cambiamento molto più ampio e investe tutto il processo organizzativo aziendale. Mentre il telelavoro è un istituto giuridico che nasce a ridosso degli anni 2000, a seguito di una direttiva europea, e prevede lo svolgimento della prestazione lavorativa a distanza rispetto alla sede centrale, lo Smart Working è una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati.

Il telelavoro prevede che il datore di lavoro fornisca al lavoratore tutte le dotazioni necessarie (postazione di lavoro e tecnologia) e garantisca, anche attraverso ispezioni, la salute e la sicurezza del lavoratore presso il suo domicilio.

Lo Smart Working è, invece, un vero e proprio nuovo modo di lavorare, che fonda le sue basi su tre pilastri – tecnologia, spazi di lavoro e organizzazione – e crea benefici a somma positiva per tutti: aziende, lavoratori e comunità riscoprono lo spazio ufficio, un ambiente piacevole e stimolante in grado di generare nuove sinergie e potenziali dinamiche collaborative tra i dipendenti.

In queste ultime settimane stiamo assistendo agli effetti dell’epidemia da coronavirus sul mondo del lavoro: lo Smart Working ha garantito a tantissime aziende la continuità operativa, limitando, contemporaneamente, il rischio epidemiologico. I benefici, per le aziende, sono stati diversi: aumento della produttività, riduzione del tasso di assenteismo e turnover, riduzione dei costi di gestione degli spazi fisici (facility, locazione, rimodulazione degli spazi), riduzione dei costi di gestione del personale (buoni pasto, straordinari, trasferte, pendolarismo).

Dal canto loro, i lavoratori hanno potuto sperimentare una maggiore autonomia nella gestione delle proprie attività  lavorative (orari, luoghi), maggiore soddisfazione e miglioramento della qualità della vita in termini di work-life balance, risparmio di tempi e costi dovuti agli spostamenti e un minore stress legato al lavoro. E i vantaggi sono ricaduti anche sull’ambiente e la comunità, con una riduzione delle emissioni di CO2 causate dal traffico, una riduzione generale dell’inquinamento atmosferico e una rivitalizzazione dei quartieri periferici, normalmente considerati come “dormitori”.

Come si traduce nella realtà il vostro obiettivo di “progettare spazi che stimolano l’innovazione, l’incontro, l’identità e il benessere” di chi lavora?

Possiamo citare il progetto di uno spazio per Gellify, una società molto interessante che si occupa di aiutare nuove start-up, attraverso strumenti tecnologici. L’idea era quella di creare per loro un vero e proprio laboratorio di innovazione, un luogo dove facilitare lo sviluppo di idee creative inserendovi all’interno elementi architettonici hi-tech, pensati direttamente con il cliente.

Abbiamo dato vita a un vero e proprio Phygital Hub, dove incontrarsi, connettersi, confrontarsi e generare nuove idee.

Gellify
Per Gellify Workitech ha creato un vero e proprio laboratorio di innovazione

Quanto sono coinvolti i direttori HR nei progetti di riorganizzazione degli spazi e qual è il loro apporto creativo nel ridisegnare i luoghi di lavoro?

Il re-layout degli spazi impatta in modo profondo sull’organizzazione, e l’HR è sempre più protagonista nei processi di workplace change. Riportando le parole di Sara Albieri, HR & General Affairs General Manager di Panasonic Italia: “La nostra azienda è l’esempio di come un progetto di Smart Working e di Change Management può essere facilitato da un nuovo ambiente di lavoro, risultato di un percorso condiviso e graduale e apprezzato da chi ci lavora”.

La chiave è quindi coinvolgere le persone, in un processo che parte dalla creazione di un percorso graduale, comunicando, ascoltando le necessità del singolo, coinvolgendolo nel progetto e, infine, formando le persone attraverso esperienze dirette di chi ora lavora in uffici smart.

Il ruolo dell’HR è quindi determinante per monitorare e gestire l’intero percorso di trasformazione.

Perché in Italia, nonostante la Legge sul lavoro agile sia in vigore da tre anni, ci è voluta una crisi epocale come quella del Covid-19 affinché lo Smart Working fosse adottato in modo più diffuso?

Gli individui sono naturalmente avversi al cambiamento e il fatto che esista una legge che regolamenti lo Smart Working (in questo caso parliamo prettamente di lavoro da casa) non vuol dire che per forza poi venga adottato. Il Covid-19, definito da molti esperti come il più grande esperimento al mondo di Remote Working, ha semplicemente velocizzato, forzandolo, il processo di cambiamento.

Ora le aziende non hanno più scuse, nemmeno in Italia, un Paese culturalmente avverso al cambiamento, in cui controllo, gerarchia e presenzialismo sono più diffusi che altrove. Speriamo, quindi, che alla fine di questa brutta storia, i cui danni economici saranno sicuramente ingenti, le aziende abbiano imparato a lavorare in un modo nuovo, più flessibile, più efficiente e, appunto, smart.

Dalla vostra esperienza, quali vantaggi hanno sperimentato le aziende che hanno riprogettato i loro spazi e le loro modalità operative, sposando una nuova concezione del lavoro?

Il modello di uffici classico si basa su tre tipologie di spazio principali: uffici chiusi per i manager, postazioni in open space per lo staff e sale riunioni per fare incontri pianificati. Questo modello, basato sulla postazione assegnata in cui si svolgono tutte le attività, si chiama “desk based working” ed è una filosofia ancora predominante nelle aziende italiane.

Essa crea però delle inefficienze nell’utilizzo dello spazio, che influiscono sulla produttività. Le persone sono sempre più dinamiche, lavorando in team su uno stesso progetto, quindi gli uffici e le scrivanie sono spesso vuote (40% di occupancy media), la contemporaneità di attività differenti nello stesso ambiente poi, genera degli effetti quali rumore, mancanza di privacy, impossibilità di concentrarsi. Fortunatamente la tecnologia ci permette di lavorare in mobilità, rompendo così la catena virtuale che ci lega alla scrivania.

Si passa così da un modello basato sulla postazione assegnata a un modello basato sulle attività da svolgere. Questo modello è chiamato “activity based working”: le persone non hanno più una postazione assegnata, ma si muovono all’interno e all’esterno dell’ufficio in base all’attività da svolgere; ognuna di queste attività viene svolta in uno spazio funzionalmente dedicato.

Questo modello ha diversi vantaggi, tra cui quello di risolvere in parte il problema del rumore o della privacy. La possibilità di muoversi all’interno dell’ufficio permette infatti ai dipendenti di avere un controllo maggiore sul rumore prodotto, spostandosi per esempio in un’area più silenziosa, per trovare la concentrazione necessaria a completare un task individuale, e ne mitiga gli effetti negativi.

Stesso discorso per la privacy: fare una video call in un’area attrezzata migliora la comunicazione e permette il giusto grado di riservatezza, con il grande vantaggio di non disturbare gli altri. Ci sono poi luoghi come l’area break, in cui predomina l’utilizzo di spazi verdi, e zone in cui fare meeting informali: luoghi pensati per incoraggiare la collaborazione e lo scambio, che sono alla base del processo d’innovazione di un’azienda.

I NUMERI DELLO SMART WORKING

I dati 2019 dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano indicano una crescita del 20% degli smart worker, che sono arrivati a quota 570mila.

Il 76% di essi si dice soddisfatto del proprio lavoro, contro il 55% degli altri dipendenti, e uno su tre si sente pienamente coinvolto nella realtà in cui opera e ne condivide valori, obiettivi e priorità, contro il 21% dei colleghi.

La gestione degli smart worker presenta secondo i manager anche alcune criticità, in particolare le difficoltà nel gestire le urgenze (per il 34% dei responsabili), nell’utilizzare le tecnologie (32%) e nel pianificare le attività (26%), anche se il 46% dei manager dichiara di non aver riscontrato alcuna criticità.

Per i lavoratori, invece, la prima difficoltà a emergere è la percezione di isolamento (35%), seguita dalle distrazioni esterne (21%), dai problemi di comunicazione e collaborazione virtuale (11%) e dalla barriera tecnologica (11%).

Secondo Mariano Corso, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, lo Smart Working è “un cambiamento che risponde alle esigenze della società nel suo complesso e come tale è un fenomeno inarrestabile”.

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