Tempo determinato: l’eccezione che conferma la regola

Le ultime sentenze confermano che il contratto a tempo determinato deve rappresentare un’eccezione rispetto a una regola che vede il lavoratore assunto con contratto a tempo indeterminato.

0
180
tempo determinato

di Mario Pagano* |

Bastano le nuove causali indicate nell’articolo 19 comma 1 del Dlgs. 81/2015 o il rispetto dei 12 mesi di acausalità a legittimare un contratto di lavoro a tempo determinato?

A leggere una sentenza del Tribunale di Firenze del 2019 e, soprattutto, una più recente pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, qualche dubbio in merito sembra essere più che legittimo.

Come noto, il citato articolo 19 comma 1, così come modificato dal tanto discusso Decreto Dignità 87/2018, prevede che al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a dodici mesi.

Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque non eccedente i ventiquattro mesi, solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni: a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori; b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.

L’attuale impianto normativo

In buona sostanza l’attuale impianto normativo, che disciplina il contratto a tempo determinato, prevede un primo periodo di completa “acausalità”, la cui durata massima non può superare i 12 mesi, e un secondo periodo, che può spingersi oltre tale soglia, arrivando sino a 24 mesi, ovvero al più lungo periodo previsto dalla contrattazione collettiva, il quale trova giustificazione e, conseguentemente, legittimità, unicamente in presenza di almeno una delle causali tipiche sopra richiamate.

Per completezza argomentativa va, poi, ricordato che anche il regime delle proroghe e dei rinnovi è, in parte, soggetto alle causali. Fatte salve le attività stagionali, secondo il nuovo comma 1 dell’articolo 21 del medesimo Dlgs. 81/2015, infatti, mentre il contratto può essere rinnovato solo a fronte delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1, lo stesso può essere prorogato liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente, solo in presenza delle medesime causali.

Quindi, la ragione giustificatrice è necessaria anche tutte le volte in cui il contratto viene rinnovato, ossia si procede alla stipula di un nuovo contratto a termine tra le medesime parti, ovvero la proroga comporta il superamento dei dodici mesi di acausalità.

Prima del decreto dignità il contratto a termine era completamente acausale per tutti i 36 mesi di durata massima previsti e, prima ancora della completa acausalità, introdotta con il DL 34/2014, convertito con L. 78/2014, il contratto a termine, secondo l’abrogato articolo 1 del D.Lgs. 368/2001, che disciplinava in precedenza la materia, poteva essere stipulato unicamente in presenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo (il cosiddetto causalone).

La sintetica analisi normativa di inquadramento, circa la legittimità del contratto a tempo determinato, appare fondamentale per comprendere al meglio l’impatto delle pronunce locali e comunitarie sopra richiamate, dalla lettura delle quali sembra che il mero rispetto della normativa potrebbe non essere sufficiente ove si dimenticasse la ratio ontologica di questa tipologia contrattuale.

La sentenza del Tribunale di Firenze

Secondo il Tribunale di Firenze, che si è espresso sul punto con sentenza n. 794/2019 del 26 settembre 2019, muovendo dal presupposto che il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro, tanto l’articolo 1 del D.Lgs. 368/2001, quanto il nuovo articolo 19 comma 1 del D.Lgs. 81/2015, devono essere interpretati alla luce dei principi stabiliti nella direttiva comunitaria C.E. 70/99 in materia di lavoro a tempo determinato.

In tal senso, secondo il Giudice fiorentino, in ragione dei principi comunitari, il contratto a tempo determinato costituisce una mera eccezione, ammissibile esclusivamente per soddisfare esigenze transitorie e, in quanto tali, non soddisfabili con un contratto di durata indefinita.

Sulla scorta di tali ragionamenti e rifacendosi proprio alla Giurisprudenza comunitaria, la sentenza in parola ha sottolineato come la stessa Corte di Giustizia europea abbia sempre giudicato non rispettose della direttiva le legislazioni degli Stati nazionali in tutti i casi in cui ha rilevato che le stesse consentivano l’utilizzo del contratto a termine per soddisfare esigenze permanenti e durevoli.

A questo punto, proprio in virtù degli orientamenti di diritto europeo, sopra richiamati, la sentenza di Firenze ha stabilito che l’articolo 1 del D.Lgs. 368/2001 prima e l’articolo 19 D.Lgs. 81/2015, impongono che esigenze stabili e durevoli di occupazione debbano essere soddisfatte esclusivamente tramite contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato essendo, in tal caso vietato l’utilizzo del contratto a tempo determinato; che la sottoscrizione di uno o più contratti a tempo determinato per soddisfare esigenze stabili e durevoli costituisce un abuso compiuto in violazione di tale divieto e, infine, che detto abuso comporta la nullità della clausola appositiva del termine, ai sensi dell’articolo 1418 c.c.

Peraltro, nel caso specifico, esaminato dal Tribunale, si discuteva di un lavoratore impiegato mediante più contratti a termine, acausali, per sopperire a carenze di organico del datore di lavoro. A riguardo il Giudice, nello statuire conseguentemente la nullità delle clausole appositive dei termini finali ai contratti impugnati dal lavoratore, ha sottolineato come il datore di lavoro non avesse dimostrato in giudizio che il lavoratore era stato assunto per particolari e specifiche esigenze, ma si fosse limitato ad affermare che la legittima acausalità formale del contratto non gli imponeva di individuare le suddette esigenze.

La pronuncia della Corte di Giustizia dell’UE

La questione è nuovamente riemersa in conseguenza della più recente pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che si è espressa con sentenza del 19 marzo 2020, nelle cause riunite C-103/18 Sánchez Ruiz e C-429/18 Fernández Álvarez e a./Comunidad de Madrid.

Nel caso di specie, posto all’attenzione della Corte, più persone erano state impiegate, da tempo, sulla base di rapporti di lavoro a tempo determinato, presso il Servizio Sanitario della Comunità di Madrid.

Nell’esprimersi nel merito, la Corte ha ribadito il principio, già ispiratore della summenzionata sentenza del Giudice di Firenze, secondo il quale la clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, osta a una normativa e a una giurisprudenza nazionali in forza delle quali il rinnovo di rapporti di lavoro a tempo determinato successivi è considerato giustificato da «ragioni obiettive», per il solo motivo che tale rinnovo risponde ai motivi di assunzione previsti da tale normativa, ossia motivi di necessità, di urgenza o relativi allo svolgimento di programmi di natura temporanea, congiunturale o straordinaria, nei limiti in cui tale normativa e tale giurisprudenza nazionali non vietano al datore di lavoro interessato di utilizzare tali rinnovi per soddisfare, in prati- ca, esigenze permanenti e durevoli in materia di personale.

In buona sostanza, si ritorna all’idea comunitaria di un contratto a tempo determinato visto come eccezione rispetto a una regola che vede il lavoratore assunto con contratto a tempo indeterminato, da coniugarsi con l’ipotesi che questa eccezionalità possa derivare quale conseguenza dell’impiego del lavoratore per esigenze esclusivamente transitorie e provvisorie.

Ciò potrebbe implicare per il futuro, alla luce della sentenza di Firenze e della consolidata giurisprudenza comunitaria, soprattutto nell’eventualità in cui la sentenza fiorentina non risultasse isolata, la necessità di valutare, all’atto della stipula di un contratto a tempo determinato, anche la natura delle attività oggetto del contratto stesso.

Ciò in particolare per il periodo di acausalità ma anche in tutte quelle fattispecie concrete che, pur supportate da una causale, come, ad esempio, quella per ragioni sostitutive, implichino l’impiego del lavoratore per esigenze permanenti e durevoli.


*Mario Pagano è un componente del Centro Studi Attività Ispettiva dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Le considerazioni espresse nell’articolo sono frutto esclusivo dell’opinione dell’autore e non impegnano l’amministrazione di appartenenza.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here