Gli ultimi provvedimenti emergenziali adottati per la pandemia hanno previsto un prolungamento del divieto di licenziamento fino al 31 gennaio 2021, limitando l’iniziativa economica costituzionalmente tutelata dall’articolo 41.
A giustificare la scelta, la possibilità di compensare il divieto con l’accesso ai trattamenti d’integrazione salariale emergenziale, che apparentemente non avrebbero costi per le imprese. C’è da dire, però, che nel caso di totale sospensione dell’attività lavorativa, l’accesso agli ammortizzatori sociali Covid-19 non è mai gratuito. Sebbene venga azzerato il contributo richiesto dalla normativa ordinaria per i periodi di cassa integrazione fruiti dall’azienda, permangono alcuni oneri a carico dei datori di lavoro.
Quanto costa la cassa integrazione?
A precisarlo la Fondazione Studi Consulenti del Lavoro che ha stilato un elenco dei costi per la cassa integrazione a carico di 4 aziende appartenenti a settori diversi (metalmeccanica industria, commercio, alberghiero, ristorazione), suddivisi per differenti periodi di fruizione degli ammortizzatori, categorie di lavoratori e mansioni. Tra le voci di spesa, innanzitutto, il trattamento di fine rapporto, che per la totale durata della sospensione continua a maturare sulla retribuzione che il dipendente avrebbe percepito qualora avesse svolto la propria prestazione lavorativa. Si tratta di un onere significativo per i datori di lavoro, che incide a prescindere dall’effettiva prestazione del lavoratore in questi difficili mesi emergenziali.
Ad esempio, nel settore metalmeccanico industria il costo medio mensile del TFR a carico dell’azienda per singolo dipendente – che muta in considerazione dei diversi livelli contrattuali – può variare da 120,64 euro mensili per un lavoratore inquadrato al 3° livello fino a 144,47 euro per il dipendente inquadrato al 5° livello superiore. Nel commercio, invece, si passa da 132, 83 euro per un impiegato del 3° livello a 166, 52 euro per un responsabile di 1° livello. A questo si aggiunge il costo per il c.d. ticket di licenziamento.
Entrano in gioco gli ammortizzatori sociali
Nei casi di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato che darebbe diritto all’indennità di disoccupazione NASpI, il datore di lavoro è tenuto a versare una somma pari al 41% del massimale mensile di NASpI per ogni dodici mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni. C’è poi da considerare che durante il periodo di cassa integrazione l’anzianità di servizio non si sospende, pertanto tutti gli istituti ad essa collegati e previsti dai diversi CCNL, come scatti di anzianità, periodo di comporto, diversa maturazione dei ratei di ferie etc., continueranno a produrre i loro effetti.
Inoltre, i principali contratti collettivi prevedono altri istituti che possono incrementare ulteriormente gli oneri a carico delle imprese in questo periodo, tra i quali i contributi ai fondi sanitari o agli enti bilaterali. E per finire vi sono i costi che mensilmente sostengono le aziende soggette al contributo per ammortizzatori sociali. È vero che sono descasastinati a un Fondo specifico, diverso da quello Emergenziale, ma per gli imprenditori è pure sempre un costo mensile per ottenere in caso di necessità la copertura degli ammortizzatori sociali.
A scopo di valutare concretamente quanto sopra analizzato, si riportano in allegato alcune tabelle con i costi sostenuti dai datori di lavoro, ipotizzando i casi di quattro aziende con differenti settori di appartenenza e periodi di fruizione degli ammortizzatori sociali emergenziali, oltre che ad una diversa composizione media dell’organico aziendale in forza. Si noterà come tali costi sono quantificabili in molte migliaia di euro l’anno.