Il web è la nuova piazza di incontri: per via del Covid, ha sostituito raduni, fiere, festival, e qualunque manifestazione che preveda gente che si parli di persona in numero superiore a *(pochi). Tendendo l’orecchio al vociferare del web, non può essere sfuggita la nuova attenzione alle donne.
Non parlo di femminismo, e neppure di quote rosa, ma proprio di cautela nell’occuparsi, nel coinvolgere, nel non trascurare il genere femminile. Ogni nuovo comitato deve comprendere un certo numero di donne, ogni decisione, ogni parere; ogni discorso inizia con “gentili signore e signori”, “esimie dottoresse e dottori”, quasi ridicolmente mettendo sempre la declinazione al femminile in primo piano, volutamente trascurando il genere maschile, che già si è preso troppo spazio negli ultimi secoli. Per evitare questo tipo di introduzione al testo, si tende a concludere la parola con un ibrido “3” (egregi3 signor3), oppure con un indeciso *(car* amic*), in attesa che in tutte le tastiere dei nuovi oggetti per scrittura venga inserito lo schwa, un simbolo fonetico noto alle lingue internazionali, indispensabile per definire la corretta pronuncia delle migliaia di lingue scritte che esistono nel mondo.
Includiamo, male non ci farà
Ecco, inclusione è l’ennesima nuova parola di moda, dedicata soprattutto al genere femminile, visto che ci siamo accorti ora (solo ora?) che i gruppi di potere continuano ad essere fortemente presidiati da uomini, oltretutto di una certa età.
Siamo sinceri, ogni due per tre saltano fuori come pop-up di un vecchio libro per bambini, (quelli che al girar di pagina si aprivano in nuovi scenari, suscitando stupori e dando suggerimenti per infarcire la storia di molteplici avventure), pseudo-innovativi concetti o filoni formativi da percorrere allo scopo di coinvolgere le persone nella vita d’azienda. Talvolta si inventano nuovi titoli manageriali o funzioni, per ricoprire questi ruoli nati per ridare vigore a un management stanco e sfibrato. Farà bene anche al business – o no? – una nuova iniezione di entusiasmo, stavolta sotto forma di un giovane manager (largo ai giovani, finalmente), possibilmente donna (così rimpolpiamo la quota rosa), che si preoccupi di far perdere tempo cerebrale a chi il business lo persegue tutti i giorni con azioni precise con e verso i clienti, quelli che decidono, che acquistano, che pagano.
Forse in questo periodo storico scosso dall’insicurezza sanitaria, periodo in cui le donne stanno facendo ancor più salti mortali tra cura della famiglia e Smart Working, in cui il loro lavoro è più a rischio del solito, occorre riflettere bene, e agire di conseguenza, per usare il buon senso femminile, la capacità di equilibrismo, il senso pratico e la visione strategica, con attività formativo-consulenziali mirate.
Il coaching comportamentale è entrato in un vortice esistenziale: le riunioni avvengono on-line e di conseguenza devono per forza essere più stringate; i viaggi sono limitati alle pure necessità, occasioni di scambi culturali avvengono con il contagocce, far funzionare i gruppi di lavoro sembra essere un problema secondario (e invece no).
Quindi? Occasione imperdibile per riprogrammare l’organizzazione interna, forti degli inevitabili risparmi nei costi laterali (aerei, pernottamenti, ristoranti, spostamenti, e molto altro), imprevisti cali o aumenti di ritmo lavorativo (produzione, vendita, logistica), rivoluzione del vecchio marketing (che diventa più one-to-one che one-to-many, che diventa molto on-line e poco strombazzato). Forse le aziende non possono contare – al momento – su fatturati in crescita continua, forse è il momento di migliorare il profitto e “consolidare” la clientela.
Escogitare soluzioni, insieme
Formazione e coaching finalmente possono affiancarsi legittimamente, studiando le singole necessità e quelle di piccoli gruppi, per poi attivarsi a colmare quelle specifiche lacune, o meglio, a escogitare insieme le soluzioni che possano aiutare l’azienda a progredire intanto che ci si protegge dal nemico esterno. Una buona volta tutte le aree aziendali possono lavorare in pacifica collaborazione, perché il benessere di tutti è alla fine la sopravvivenza (non parliamo ancora di successo, va bene?) dell’azienda. In questo caso il coaching, non essendo consulenza esperta, ma ascoltando e facendo emergere il sapere altrui, ben si presta alla ricerca di soluzioni dedicate al preciso problema.
Ancora meglio, formazione e coaching a braccetto permetteranno alle piccole start-up, che in questo momento nascono come mosche, di non soccombere alla prima zaffata di insetticida concorrenziale, di darsi una struttura adeguata, magari proprio loro facendo da apripista a un nuovo esercito di manager al femminile, tanto si lavora essenzialmente da casa risparmiando tempi e costi di spostamento, si evitano riunioni fiume perdi-tempo che chissà perché iniziano alle 17 e si allungano stancamente fino all’ora di cena, e tra una pratica e l’altra si riesce pure ad avviare una lavatrice (organizzazione femminile, what else?). Purtroppo esistono ancora grandi disparità di ricchezza aziendale. Alcune grandi aziende ancora si possono permettere di pagare stipendi pieni per lavori semi part-time, tengono gli spazi vuoti in attesa di un rientro affollato che non avverrà certo nel breve, mantengono status inutili quanto costosi. Per quanto tempo? E poi cosa succederà? Perché non riorganizzare temporaneamente mansioni, costi ed emolumenti in vista di una ripresa più futura che attuale?
Che poi magari si scopre che questa riorganizzazione fa bene a tutti, azienda e dipendenti, producendo vantaggi condivisi. In questo caso il dialogo più efficace potrebbe avvenire tra azienda, coaching e futurismo, inserendo la formazione come passaggio successivo. Ancora il coaching può intervenire tra azienda e persone che hanno bisogno di adattarsi alle, non sempre allegre, novità. Non è certo un buon momento per cambiare lavoro, eppure i talenti più apprezzati potrebbero lasciare un nido reputato precario o senza visione del futuro. È senz’altro il coaching che collabora nella comprensione reciproca, collegando aspettative ed esigenze, mostrando equilibri e realtà non abbastanza esplorate.
Parola chiave: adattamento
Le competenze necessarie oggi sono diverse e accelerate, i team non si lanciano nel cambiamento da soli e con spirito innovativo, se non sono ascoltati e ben guidati.
La parola chiave diventa “adattamento”, occorre reagire e intanto pianificare nel medio-breve. Tutto ciò che abbiamo dichiarato sulle strategie a lungo termine al momento resta congelato, senza però essere perso di vista. Occhio alla rapidissima evoluzione tecnologica, complessa e imprevedibile: qualcuno in azienda deve considerarla e apprenderla anche se sembra esagerata o inutile (oddio! Ora c’è pure TikTok, un nuovo social, a chi interessa?), per essere pronti alla reazione, o addirittura precorrerla.
Quante aziende si sono salvate, nel lockdown, grazie alla loro capacità camaleontica di cambiare veste ed essere presenti on-line proprio quando serviva? Quanti conoscevano Zoom e quanti invece hanno dovuto farsi delle domande, imparando, facendo e pasticciando? Quante aziende ci hanno provato ma, senza le giuste competenze, si sono affossate da sole o sono state preda dei soliti cialtroni del web (i cialtroni esistono ovunque, nel web si distinguono con più difficoltà)? È il momento di strutturarsi per inserire (e formare) persone con buone (anzi, ottime) capacità adattive e digitali, gente in grado di comprendere le trasformazioni tecnologiche, di usarle e di trasmetterle. Magari con un aiuto femminile.