di Cleopatra Gatti |
Per i dipendenti italiani la formazione è lo strumento fondamentale per garantire l’occupabilità durante il periodo di crisi e poter guardare con fiducia al futuro.
Un bagaglio di cui la grande maggioranza sente di disporre: l’85% dei lavoratori dichiara di aggiornare regolarmente le competenze, 4 punti in più della media globale (ben sopra i tedeschi, 73%, i francesi, 70%, e gli inglesi, 73%). E l’86% ritiene oggi di possedere le competenze necessarie per trovare impiego in un’altra azienda o in un altro settore.
Quasi otto lavoratori su dieci, inoltre, affermano di disporre delle apparecchiature e delle tecnologie necessarie per affrontare la trasformazione digitale del lavoro. Sono alcuni risultati del “Workmonitor”, l’indagine semestrale sul mondo del lavoro svolta da Randstad, analizzando la percezione dei lavoratori su competenze professionali e ambiente di lavoro durante la pandemia (ricerca condotta in 34 Paesi del mondo su un campione di oltre 800 dipendenti per ogni nazione).
La formazione a carico del datore di lavoro
Secondo gli italiani, la responsabilità dell’aggiornamento delle competenze è indiscutibilmente del datore di lavoro, indicato dal 50% degli intervistati (22 punti in più della media globale).
Solo per il 33% questa responsabilità è condivisa tra dipendente e datore di lavoro, la visione più diffusa nella media globale (51%). Per il 16% è principalmente dei dipendenti (e per l’1% dei sindacati). Allo stesso modo, quasi metà dei lavoratori (47%) assegna al datore di lavoro anche la responsabilità di riqualificare i dipendenti nel caso restassero disoccupati a causa della crisi, per favorirne la rioccupabilità; solo in minor misura chiamano in causa il Governo (24%), i dipendenti stessi (21%) o i sindacati (8%). Emerge comunque una specie di sodalizio con l’impresa: durante la pandemia il 66% dei lavoratori ha avvertito un sostegno mentale ed emotivo da parte del datore di lavoro.
La formazione per un ambiente inclusivo
La formazione è anche l’elemento più importante per giudicare gli sforzi di un datore di lavoro nel creare un ambiente inclusivo: l’impegno all’aggiornamento della forza lavoro è al primo posto in classifica con il 36% di preferenze, seguita dalla creazione di una forza di lavoro diversificata (34%), dalla creazione di ambiente e spazi di lavoro inclusivi (30%), dall’incoraggiamento dei gruppi di risorse (28%) e dalla presenza di posizioni di leadership di persone provenienti da contesti differenti (24%).
Meno importanti la responsabilità sociale d’impresa sotto forma di donazioni o raccolte fondi, la collaborazione con organizzazioni senza scopo di lucro, la pubblicità delle politiche sull’inclusività, la pubblicità del datore di lavoro e le giornate di volontariato dei dipendenti. In linea con la media globale, gli italiani apprezzano l’ambiente di lavoro che la loro impresa ha saputo costruire: mediamente il 77% lo ritiene “inclusivo” (contro l’80% nella media globale).
Un ecosistema in cui spesso aspettative e realtà collimano: secondo i lavoratori la propria azienda ha effettivamente dimostrato di essere inclusiva negli sforzi per la formazione nel 36% dei casi, nella creazione di una forza di lavoro diversificata (29%), in un ambiente e uno spazio di lavoro inclusivi (20%), nell’incoraggiare i gruppi di risorse o inserendo leader provenienti da contesti differenti entrambi (nel 19%).