Smart working: un nuovo “panopticon”?

Le utopie che stanno alimentando il dibattito sullo Smart Working non aiutano la riflessione sul tema, che è quella della ricerca del miglior equilibrio tra lavoro, tecnologia e nuove modalità organizzative.

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di Giovanni Scansani* | 

Lo Smart Working sembra portare con sé più libertà e una realizzata conciliazione vita-lavoro, la riduzione del pendolarismo e della presenza in ufficio in cambio di maggiore discrezionalità operativa, un rinnovato senso di realizzazione professionale grazie al proprio apporto misurato dai risultati prodotti e, infine, tempi e spazi del lavoro e della vita auto-organizzati. What else?

Eppure un “fantasma” si aggira tra i Pc degli smart worker. Cos’altro c’è, infatti, di davvero smart in questa nuova modalità di lavoro? Se, da un lato, l’evoluzione tecnologica ha ridotto la fatica umana nei luoghi di lavoro e ha grandemente ridotto la ripetitività di alcuni task, dall’altro nessuna “rivoluzione” industriale potrà mai eliminare il potere direttivo e di controllo con il quale si esprime una delle caratteristiche essenziali dell’organizzazione del lavoro in azienda. Ciò che allora dev’essere chiaro è che il lavoro, sempre più basato su tecnologie smart (“intelligenti”), implica necessariamente più controllo e che questo controllo – non potrebbe essere diversamente – è a sua volta smart. Da remoto tutto può essere messo sotto controllo, misurato ed reso efficiente, senza più un confine tra pubblico e privato. Ci concentreremo su alcuni aspetti che la diffusione di massa del lavoro da remoto sta facendo emergere e porrà sempre più come problema, considerando il numero dei lavoratori coinvolti. Le stime, per il post pandemia, prevedono tra i 5,3 e i 3 milioni di lavoratori “agili” (dati Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano e Osservatorio The Word After Lockdown di Nomisma-Crif).

HR (troppo?) analytics

Tutti noi sappiamo che le nostre attività online (inviare un’e-mail, consultare un sito internet, scambiare messaggi ecc.) si trasformano istantaneamente in Big Data e sappiamo anche che questi costituiscono un asset fondamentale per molte aziende (compresa quella per la quale si lavora).

Nell’economia basata sul digitale tutto il valore risiede ormai nei dati e nella capacità di elaborarli (“i dati sono il nuovo petrolio”, si usa dire). La funzione aziendale HR, in questo quadro, non fa certo eccezione perché ciascun dispositivo utilizzato dal lavoratore per eseguire la sua prestazione costituisce una preziosa fonte d’informazioni attinenti alla sfera sia lavorativa che personale del dipendente. Se ciò rappresenta un pericolo per la riservatezza del lavoratore, allo stesso tempo, però, è anche un elemento prezioso per l’impresa. In àmbito HR le potenzialità dei Big Data e dell’Intelligenza Artificiale sono quasi intuitive e si dispiegano – ormai da tempo – in attività quali il recruitment, la definizione dei sistemi di compensation e l’assessment individuale e organizzativo. È questo il vasto campo delle HR analytics che rendono possibile non solo ricostruire e monitorare le evoluzioni dei profili professionali dei lavoratori, ma anche strutturare sistemi predittivi di tipo comportamentale in grado di profilare le singole persone (per attitudini collaborative, per aspettative di crescita, per le loro preferenze relazionali, per i livelli di engagement che esprimono nel tempo). L’IA trova applicazione nelle fasi di costruzione e di manutenzione del rapporto di lavoro come in quelle della sua esecuzione. Si pensi, ad esempio, ai famosi “braccialetti” usati dai lavoratori di Amazon per aumentare la produttività nei magazzini o al “berretto tecnologico” che alcune aziende cinesi utilizzano per monitorare persino le emozioni dei lavoratori, in modo da identificare quelli “stressati” , o al caso degli impiegati della società statunitense Three Square Market che già dal 2017 dispongono – avendone accettato l’inserimento – di un microchip sottocutaneo grazie al quale, con un movimento della mano, possono aprire porte, avviare un pc o prendere un caffè dal distributore automatico. Ma la tecnologia entra in gioco anche nella gestione della conclusione del rapporto di lavoro, intesa come licenziamento, e anche in Italia la sua comunicazione ormai viaggia via Sms, WhatsApp ed e-mail. I dati individuali catturati dall’IA sono spesso prodotti dagli stessi strumenti utilizzati dalle persone per eseguire il loro lavoro. Agende digitali, posta elettronica, navigazione internet e intranet, sistemi di messaggistica e videoconference, ma anche i software collaborativi, la gamification e le App per la gestione di singoli task sono tutte fonti di produzione di una notevole mole di dati.

Le paure delle imprese

Con questi primi rilievi sullo sfondo, occorre considerare che la remotizzazione del lavoro pone, tra le altre, tre macro-questioni per le imprese: il controllo dell’esecuzione della prestazione, la misurazione dei risultati, la salvaguardia dei dati. Ciascuna di queste aree è variamente regolata negli accordi individuali o nei contratti aziendali.

Le prime due sono oggetto di delicati equilibri che si pongono tra la comprensibile necessità di non perdere nulla (anzi, semmai di guadagnare qualcosa) in termini di produttività e la disciplina prevista dall’art. 4 della L. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori). Il recente “Protocollo – Principi e Linee Guida per il nuovo lavoro agile nella filiera delle telecomunicazioni” – sottoscritto da Assotelecomunicazioni (Asstel) con le tre principali confederazioni sindacali – ha fissato alcune linee-guida utili per la contrattazione aziendale e quella nazionale di categoria. Una di queste (la numero 5) riguarda proprio “l’utilizzo ai fini organizzativi e produttivi dei dati relativi alle prestazioni lavorative (riferibili a gruppi di minimo tre lavoratori) nonché per l’analisi della qualità del ser- vizio erogato”. Il documento richiama anche la necessità di definire le modalità utili ad “assicurare la possibilità di verifiche, non in tempo reale, sull’effettivo svolgimento della prestazione”. Assume interesse, rispetto allo Smart Working, anche la linea-guida numero 6, che apre all’introduzione di “misure di carattere economico e/o strumenti di welfare che supportino l’attività di lavoro a distanza delle persone” (è questa, forse, la porta d’ingresso per la soluzione della questione dei costi dello Smart Working sopportati dai lavoratori, ma anche di possibili interventi di Welfare Aziendale ad hoc maggiormente incentrati, immaginiamo, sulla considerazione della più stretta relazione – ma anche dell’interferenza – che lo Smart Working produce rispetto alla sfera privata e quella che quest’ultima provoca rispetto all’esecuzione del lavoro).

Anche nelle dinamiche del lavoro contemporaneo si pone pur sempre il tema del controllo, ma quest’ultimo è adesso sempre più informatizzato e automatico. Il controllo verte sulle prestazioni lavorative e va inteso sia come verifica, da parte del creditore (il datore di lavoro) dell’esatto adempimento dell’obbligazione da parte del debitore (il lavoratore), sia come acquisizione di dati utili alla misurazione e alla valutazione delle performance (con quel che ne segue in termini di premi e di sanzioni). Per le imprese la grande paura dell’oggi è la fuoriuscita dei dati dal perimetro sicuro dell’infrastruttura aziendale, paura accresciuta perché il “fuori”, con lo Smart Working, è diventato anch’esso “luogo di lavoro”. Per proteggersi le aziende assegnano agli smart worker strumenti aziendali dotati di sistemi di sicurezza che dovrebbero impedire la causazione di danni al patrimonio informativo dell’impresa, ma in moltissimi casi la soluzione adottata è quella Byod (“Bring Your Own Device”), ossia l’uso di strumenti di proprietà del lavoratore utilizzati in modo promiscuo per scopi personali e per l’esecuzione della prestazione lavorativa. Sulla bontà delle soluzioni che ciascun lavoratore avrà prescelto per mettere in sicurezza il suo device è giusto porsi più di una domanda.

Panopticon

Le necessità della verifica dei risultati del “lavoro agile” e quelle della salvaguardia del patrimonio informativo aziendale potrebbero indurre il “fantasma” del controllo ad allearsi con i sistemi di sicurezza aziendali creando un contesto panottico nel quale il controllato è il lavoratore e ciò ben prima (e forse anche ben di più) dei malintenzionati che gironzolano sulla rete.

Un’indagine di Gidp (Gruppo Intersettoriale Direttori del Personale), condotta nell’ambito dell’”Osservatorio Smart Working e Assenteismo” (II edizione, ottobre 2020) ha rilevato che il 56% degli HR manager intervistati ritiene utile procedere a controlli sui dipendenti in Smart Working anche perché, chi ha riscontrato comportamenti scorretti, lamenta abusi soprattutto proprio tra chi lavora da remoto. Originariamente concepito sul finire del ‘700 da Jeremy Bentham come forma di controllo destinata a luoghi nei quali erano presenti più soggetti sottoponibili a sorveglianza (carceri, ospedali, scuole ma anche fabbriche), il modello architettonico del panopticon (per una cui descrizione rimandiamo a Michel Foucault nel suo celebre “Sorvegliare e punire”) è adesso ubiquo, tant’è che, ovunque ci troviamo, siamo spesso registrati da telecamere che ci osservano, mentre gli strumenti che utilizziamo ogni giorno registrano ogni cosa che facciamo. A differenza dell’originale, la cifra della sorveglianza contemporanea è che il relativo sistema, il più delle volte lavorando (o anche nelle nostre attività private e personali), lo attiviamo noi stessi volontariamente o comunque accettandone l’esistenza perché, nel nuovo panottico, “esporsi alla sorveglianza diventa un gesto spontaneo e quotidiano. E inavvertito” (come ci ricordano Chiara Giaccardi e Mauro Magatti in “Nella fine è l’inizio. In che mondo vivremo”). Questa sorveglianza riguarda i processi di consumo e quelli della produzione e del lavoro. C’è dunque il rischio di un’eterogenesi dei fini. La promessa liberatrice dello Smart Working sostenuta da uno spirito di “ribellione” per gli schemi del lavoro novecentesco (molta dell’attuale tecnologia informazionale è originariamente nata da un intento libertario, se non addirittura “ribellistico”: si pensi ai software open source e alla blockchain), corre il rischio di trasformarsi nell’incubo di una repressione burocratica. Non si tratta, però, di desiderare un’impossibile manovra di “indietro tutta” – la tecnologia digitale è una preziosa alleata tanto in fabbrica quanto in ufficio, come nella vita di tutti i giorni – ma di evitare che il fordismo uscito dalla finestra (se mai ciò sia realmente accaduto), rientri da una “porta” (magari una di quelle del computer aziendale) e ci si ritrovi nel bel mezzo di un neotaylorismo digitale e, appunto, in un panopticon di benthamiana e di orwelliana (se non anche di kafkiana) memoria.

Un “Truman Show” aziendale

Evidenziamo tutto ciò perché non ci si deve nascondere che l’avvento delle tecnologie mobili espone il lavoratore a controlli potenzialmente costanti, ubiqui e pervasivi.

Con l’arrivo della pandemia il “lavoro da remoto forzato” di massa ha fatto da booster per tutto il mondo Ict. È sufficiente immaginare quanti nuovi device sono stati venduti per consentire alle persone di lavorare da casa oppure andarsi a leggere l’andamento dei titoli azionari delle società che, grazie al distanziamento imposto dal rischio del contagio, hanno registrato performance da capogiro. Ma anche il lavoro “in presenza”, nell’attuale fase pandemica, ha fornito le sue belle opportunità di business.

Celebre è il badge “sociometrico”, un wearable device che raccoglie informazioni sui movimenti del lavoratore (se cammina, dove va, se è seduto, se sta parlando e con chi e anche per quanto tempo). Finalità della “sociometria” è ricostruire le dinamiche delle reti relazionali attive in azienda, comprendere come le persone interagiscono, quanto (e se) siano “ingaggiate” e predirne le condotte (con buona pace delle vecchie survey interne). Similare è l’applicazione utilizzata da alcune aziende (anche in Italia) per far osservare il distanziamento anti-contagio nei luoghi di lavoro. Anche in tal caso si tratta di un badge che, tramite un avviso sonoro, associato a uno luminoso e anche a una vibrazione, fa scattare un “allarme” non appena la distanza tra le persone scende sotto il livello di guardia.

Per alcune delle realtà Ict la pandemia e il conseguente lavoro da remoto di massa sono state e sono tuttora irripetibili occasioni non solo per vendere gadget, ma per sviluppare e distribuire una serie di software e di applicazioni le cui capacità di controllo è pari sia alla pervasività con la quale possono invadere la sfera dell’agire umano, sia alla capacità di porsi come strumenti capaci di controllare e “spingere” le persone al lavoro nell’ottica del raggiungimento di livelli di produttività che l’attività non “in presenza” si assume possa far abbassare. Via libera, allora, a sistemi di monitoraggio costanti e a misurazioni praticamente in tempo reale. Negli Usa esistono sistemi che tramite la webcam del pc verificano – acquisendo degli screenshot a intervalli fissi e frequentissimi – se il lavoratore sia davanti al pc, in una sorta di “Truman show aziendale, con tanti saluti al presunto uso liberatorio della tecnologia” (il che fa titolare il recente libro di Antonio Aloisi e Valerio De Stefano, da cui abbiamo tratto quest’ultima considerazione, “Il tuo capo è un algoritmo”). Tanti saluti, ovviamente, anche al contenuto fiduciario che la responsabilizzazione nel lavoro e nella sua professionalizzazione, si vorrebbero esaltate dalle prassi del “lavoro agile”.

Lo Smart Working e lo Statuto dei Lavoratori

Va detto che le pratiche poc’anzi ricordate da noi non potrebbero superare i limiti posti dallo Statuto dei Lavoratori con i quali si vieta l’installazione e l’uso di apparecchiature tecnologiche e di sistemi in grado di controllare a distanza lo svolgimento dell’attività lavorativa del dipendente, fatto salvo il caso che il ricorso a tali soluzioni non sia stato previamente concordato con le Rsu/Rsa o sia stato autorizzato dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Ciò vale anche per le applicazioni che consentono di rilevare la posizione dei lavoratori, ad esempio tramite Gps o internet. Altri limiti, poi, derivano dalle norme sulla privacy (tra queste quelle contenute nel Titolo VIII, Capo III, del D.Lgs. 196/2003, come modificato dal D.Lgs. 101/2018, espressamente dedicate al “Controllo a di- stanza, lavoro agile e telelavoro”) e dalle indicazioni del Garante per il trattamento dei dati personali. Insomma, qui da noi gli smart worker possono dormire sonni tranquilli. O abbastanza tranquilli. Le restrizioni appena citate, infatti, dopo la riforma dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori introdotta dal Jobs Act, non si applicano agli strumenti utilizzati per eseguire la prestazione di lavoro, pur dovendo previamente tenere informato il lavoratore della loro installazione (senza però avere la certezza che alcune tipologie di controllo informatico non possano sfuggire alla piena consapevolezza del dipendente).

Lavoro data-driven

Queste evidenze ci dicono che la combinazione di digitalizzazione e profondità delle informazioni acquisibili sbilancia ulteriormente i rapporti tra le parti del contratto di lavoro e rende “trasparenti” i lavoratori agli occhi dei manager. Se poi consideriamo che gli algoritmi non sono solo descrittivi, ma sono anche capaci di predizioni sui comportamenti e sulle risposte umane, ci rendiamo conto di quale sia lo scenario immaginabile: quello di un controllo non più solo associato all’area della performance (e quindi dell’adempimento), ma anche della sua previsione futura. È allora di tutta evidenza come qui si annidi una fonte di conflitto e di contraddizione rispetto alla matrice fiduciaria che deve informare di sé il lavoro smart perché ormai pressoché tutti gli apparati tecnologici sono finalizzati alla realizzazione dell’attività lavorativa ed essendo utilizzati per eseguire la prestazione di lavoro possono fruire dell’esonero dai vincoli posti all’esercizio del potere datoriale. È proprio qui, in quella che Patrizia Tullini in “Web e lavoro” definisce la “ancora più instabile linea di confine tra l’esercizio legittimo del potere datoriale e la tutela dei diritti fondamentali del lavoratore (riservatezza, identità personale, protezione dei dati e dignità professionale)” che si possono radicare, oltre che possibili violazioni di quei diritti, anche nuove fonti di stress psicologico lavoro-correlato (soprattutto techno-stress e burnout). Ed è da qui che possono sorgere rinnovate e più subdole forme di controllo realizzate e gestite da un “management tramite algoritmi”, basato su dati organizzati e preconfezionati digitalmente sui quali i manager avranno poi l’ultima parola in un ambiente di lavoro sempre più data-driven (nonostante l’enfasi da tutti posta sulla “persona al centro”).

Dallo Smart Working alla riprogettazione del lavoro

Certo, tutto ciò non è “colpa” dello Smart Working, perché queste tecnologie operano a prescindere dal luogo di svolgimento delle prestazioni, ma non vi è dubbio che la fuoriuscita del lavoratore dal campo visivo del controllore possa indurre quest’ultimo ad aumentare e a voler perfezionare i sistemi di controllo proprio per compensare la perdita delle possibilità di verifica on site precedentemente possedute. Come si comprende, lo sforzo culturale e progettuale che ruota intorno alle nuove forme del lavoro e alla riprogettazione dei “sistemi socio-tecnici”, magistralmente descritti nelle opere di Federico Butera, presuppone un cambio di paradigma la cui costruzione e condivisione è complessa, certamente lunga, ma al contempo sfidante e stimolante. Le utopie che durante questa fase hanno spesso alimentato il dibattito sullo Smart Working non aiutano la riflessione sul tema, che è anzitutto quella della ricerca del miglior equilibrio tra lavoro, tecnologia e nuove modalità di organizzazione dell’impresa. E considerati i rischi di cui ci siamo qui occupati una voce essenziale sarà quella del sindacato anch’esso chiamato a un compito di riprogettazione del suo ruolo, di sviluppo delle competenze dei suoi quadri e di espressione di una maggiore capacità nell’interpretazione dei fenomeni in atto.


* Giovanni Scansani è co-founder di Valore Welfare, Consulente aziendale e Docente a contratto presso l’Università Cattolica di Milano

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