Politiche attive del lavoro: come ristabilire l’ordine?

La ripresa passa per le politiche attive del lavoro: sono tanti gli strumenti per affrontare il cambiamento che devono essere sfruttati.

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Mentre l’Italia attende il via libera per il suo Pnrr, il dibattito sul ruolo che avranno le agenzie per il lavoro e i fondi interprofessionali per un costruttivo rilancio del mercato del lavoro si accende sempre di più.

La tavola rotonda “Attraversa(Menti) – le strategie e gli strumenti per politiche davvero attive del lavoro”, organizzata dal CeSFol – il Centro Studi Formazione e Lavoro diretto da Imma Stizzo, ha dato voce ad alcuni degli attori principali della filiera della formazione e del lavoro.

E così Assolavoro con il presidente Alessandro Ramazza, il fondo interprofessionale For.Te. con il direttore Eleonora Pisicchio, i Giovani imprenditori di Confcommercio Imprese con il presidente Andrea Colzani, Fondimpresa con il direttore generale Elvio Mauri e l’Università Cattolica del Sacro con il professore ordinario di Diritto del Lavoro Vincenzo Ferrante hanno messo sul tavolo richieste e punti critici.

Adattarsi al cambiamento con la formazione

Dal dibattito moderato dal giornalista Claudio Tucci è emersa la necessità di un vero coordinamento, di una visione che tenga conto dei bisogni delle imprese, di azioni mirate a rendere maggiormente responsabili i lavoratori in un processo di formazione continua, oggi quanto mai necessaria e sfidante. Il rischio? Univoca la risposta: tornare al punto di partenza e perdere così il treno che conduce al vero cambiamento. Centrale diventa dunque la formazione.

È stato proprio Alessandro Ramazza, presidente di AssoLavoro ad aprire il confronto mettendo al centro della discussione quest’aspetto: “Il Pnrr è una leva, se rimane solo investimenti pubblici diventa circoscritto a quello che è. L’importante è che questo sviluppi una forte crescita d’investimenti privati, quindi maggiore produttività e ciò significa maggior valore prodotto nel nostro Paese, maggiore ricchezza da distribuire più equamente di quanto non sia stato fatto fino ad oggi durante la crisi  e di superare l’impronta più assistenziale che abbiamo avuto durante la pandemia. Secondo noi la formazione e le politiche attive sono due elementi strategici. Il cambiamento che imporrà il PNRR se non sarà accompagnato da analogo cambiamento nella cultura delle imprese e nelle conoscenze dei lavoratori rischia di essere spesa pubblica punto e basta”.

Cambiamento è stata la parola chiave anche per Andrea Colzani, presidente di Giovani imprenditori Confcommercio-Imprese: “c’è un cambiamento in corso che parte dal consumatore e questo determina per chi fa impresa un mutamento delle competenze nel fare la propria attività”. A proposito dei giovani Colzani ha aggiunto che “Giovani e formazione sono due facce della stessa medaglia, che è un po’ la medaglia del futuro del paese. Se questa pandemia ha generato un effetto più forte soprattutto su una fascia più giovane d’imprese, la formazione è la miglior cura ricostituente”.

Rinnovarsi per rinnovare

Sul ruolo dei fondi interprofessionali ai tavoli tecnici, Eleonora Pisicchio direttore del Fondo Interprofessionale For.Te. non nasconde le sue perplessità: “Non sono convinta che i fondi abbiano un ruolo nel Pnrr. Ci sono diversi problemi. Siamo partiti dalla 236 del ’93. Preso atto del fallimento delle regioni perché il carico burocratico era eccessivo, perché le risorse che stavano sul piatto venivano generalmente acquisite dalle aziende di grandi dimensioni, nacque quest’idea di coinvolgere le parti sociali – i rappresentanti delle aziende e dei sindacati – su un modello sempre nuovo per far si che la formazione fosse più fruibile, più vicina agli interessi delle aziende e dei lavoratori. Come nel gioco dell’oca siamo tornati qualche anno fa al punto di partenza: una sentenza del consiglio di stato ha deciso che non siamo più privati, siamo nella gestione pubblica, con tutto ciò che questo porta con sé”.

Su ciò che serve la Pisicchio ribadisce che “oggi serve un continuo rinnovamento – come se fossero delle cellule – delle competenze obsolete, l’introduzione di nuove competenze richieste dal mercato, richieste dal contesto esterno, dall’evoluzione delle aziende. E’ un meccanismo che deve essere sempre attivo durante tutto l’arco della vita di una persona. Di fatto questo non è. Soggiaciamo a regole che ci hanno portato indietro di anni. Ci ritroviamo un processo che non responsabilizza il lavoratore che invece dovrebbe essere il vero protagonista”.

Serve trasparenza nella gestione

Vincenzo Ferrante ordinario di diritto del lavoro all’Università Cattolica di Milano ha ripercorso i perché del gap che oggi grava sulle politiche attive: “Si è sempre detto che ci vuole maggiore dialogo tra sistema formativo nel suo complesso e le imprese, un maggior coordinamento sia fra lo Stato e le Regioni sia fra le Regioni l’una con l’altra. C’è bisogno ovviamente di un coordinamento tra tutti soggetti: imprese, istituzioni e sindacato. Il carico contributivo in Italia e Germania è praticamente lo stesso, solo che in Germania le pensioni sono finanziate con un prelievo di un 18% contributivo, in Italia con il 33%. Abbiamo costruito un sistema dove l’apprendimento era concentrato nella prima fase dell’età dell’uomo e dove poi si lavorava e si andava in pensione giovani. Quindi ci siamo orientati a finanziare la pensione e poco ci preoccupiamo nel mondo del lavoro. Da anni diciamo che le competenze acquisite possano durare tutto l’arco della vita. Poi quando si tratta di venire al dunque, mancano le capacità e forse mancano anche gli uomini”.

Elvio Mauri, direttore di Fondimpresa: “Oggi tutti i fondi sono a piena spesa, spendono tutti i soldi che ricevono dall’Inps. Cosa può fare lo Stato per favorirci? Da un lato permetterci di fare quello che già siamo capaci di fare. Con il 2019 è stata ammessa per i fondi interprofessionali la possibilità di lavorare per formare lavoratori che diventano lavoratori delle nostre aziende aderenti alla fine dell’attività formativa. Una strada potrebbe essere quella di restituirci le risorse che da ormai 8 anni arrivano alla fiscalità generale dello stato e non vengono utilizzate per misure di politica attiva o passiva, 60 milioni di euro che noi ci impegneremmo a metter per la formazione sulle politiche attive finalizzate a creare posti di lavoro veri. Credo che sia un vantaggio. Oggi il ruolo dei fondi va chiarito e non ci devono essere più zone grigie rispetto a quanti soldi i fondi utilizzano per l’attività formativa. Tutti devono dichiararlo prima e lo Stato deve dire quanti soldi servono per fare un fondo e quanti sono destinati all’attività formativa”. Altro aspetto rimarcato da Mauri ha riguardato la gestione: “Dopo il decreto Draghi che ha permesso di ripartire con la formazione in presenza, il fatto che ogni regione abbia disciplinato indipendentemente ha generato un delirio. Abbiamo 120mila aziende attive delle nostre, ognuna ha un conto di formazione. Immaginate un’azienda plurilocalizzata che deve capire come è organizza ogni singola regione. Ci vuole chiarezza sulla gestione e sull’operatività”.


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