di Virna Bottarelli |
Aveva dieci anni quando, per la prima volta, Sergio Zorzi ha messo piede sul prato di un campo da rugby. Oggi ne ha 57 e la sensazione provata su quell’erba, quella voglia di essere parte di un gruppo e di condividere con quel gruppo gioie e dolori, se la porta ancora dentro.
“Il rugby non è solo uno sport di tecnica e tattica. È educazione, è voglia di emozionare”, dice l’ex rugbista, da qualche anno formatore e coach che, con la sua Akkademia, oltre a insegnare rugby ai più piccoli e a formare allenatori, offre attività di consulenza e coaching anche alle aziende.
Si elogia spesso il valore educativo ed etico del rugby, soprattutto quando si parla di ragazzi e attività sportiva. Perché?
Credo che il rugby rappresenti per i ragazzi qualcosa a cui ispirarsi e da cui trarre forza per i momenti difficili che nella vita saranno chiamati ad affrontare. I giovani hanno bisogno di sperimentare, di impegnarsi in un progetto che sia interessante soprattutto dal punto di vista emotivo ed emozionale e il rugby è tutto questo: insegna loro a condividere un’esperienza. È uno sport di squadra e di contatto. Dobbiamo segnare la meta andando avanti, ma passandoci la palla all’indietro: quando si avanza non si è mai soli, non ci si deve sentire soli, perché alle nostre spalle abbiamo i compagni a proteggerci. Nella mischia c’è la capacità di sostenersi a vicenda, di essere come fratelli. È uno sport che lavora su una forte cultura del “Noi”, sull’idea di collettivo.
Quando hai iniziato a pensare a una seconda vita nel settore della formazione aziendale?
È successo circa sei anni fa. Avevo alle spalle una carriera da giocatore e allenatore che mi aveva dato belle soddisfazioni, ma mi sentivo ancora in debito con questo sport, dal quale avevo ricevuto così tanto. Avevo bisogno di nuovi stimoli, così ho pensato di iniziare a fare formazione per allenatori di rugby e di portare questa esperienza anche negli ambiti di lavoro, nelle aziende, contesti dove spesso ci sono problematiche di comunicazione e di relazione tra le persone. Lavoro in partnership con Dalila Da Lio, una pedagogista, e proponiamo alle aziende una formazione che mira a creare un senso di condivisione, a far capire che è il Noi a fare la differenza, e non l’Io. Creiamo il Noi depotenziando l’Io e lo facciamo attraverso il gioco del rugby. Le persone hanno bisogno di sperimentare e il gioco risponde perfettamente a questa esigenza: giocando si instaurano dinamiche relazionali interessanti, dalle quali si traggono insegnamenti e ci si migliora come individui.
Come ti definiresti: un formatore, un educatore, un coach? In che cosa consiste la tua attività?
Mi considero un facilitatore, una figura che lavora sugli individui e li aiuta a diventare persone migliori. La mia attività in questo senso è rivolta ad adulti e bambini e, per quanto far passare certi concetti con gli adulti possa sembrare più complicato che non farlo con i più piccoli, credo che se si utilizza la chiave dell’autenticità, tutto è più semplice. Ne sono convinto, proprio perché l’ho sperimentato nella mia vita da sportivo: un allenatore è credibile solo se è autentico. Quando analizzo il mio passato da giocatore e allenatore, guardando alle sei finali scudetto vinte e alle sei che invece abbiamo perso, mi rendo conto che le sconfitte avevano come denominatore comune l’assenza di un leader autentico. E, oltre a essere autentici, per poter insegnare qualcosa agli altri è importante essere empatici: prima di lavorare sulla mente, credo si debba lavorare sul cuore delle persone.
Come ti sei preparato per diventare un professionista anche nell’ambito della formazione aziendale?
Nel mio curriculum scolastico ho un diploma di Scuola Superiore, ma per fare il formatore ho approfondito, con vari corsi, i diversi temi legati al funzionamento del nostro cervello, argomenti che mi hanno sempre affascinato e attratto. A 22 anni, dopo il mondiale disputato in Nuova Zelanda, ho frequentato un corso di due anni di dinamica mentale, poi ho continuato a formarmi negli ambiti del coaching e della Programmazione Neurolinguistica. Sono anche uno Skill Coach, ossia specialista delle abilità di base per quanto riguarda il rugby. Ma il mio background più importante è la grande passione per lo sport e la curiosità per tutto ciò che interessa le dinamiche del pensiero: è facendo tesoro di questo che cerco di trasferire agli altri quello che a mia volta ho imparato sul campo.
Quali sono, tra gli insegnamenti tratti dallo sport, quelli che sarebbe bene trasferire anche all’ambito professionale?
Credo, innanzitutto, che dovremmo essere fonte di ispirazione per gli altri. Come nella squadra siamo fonte di ispirazione per i nostri compagni, così nel lavoro dobbiamo dare l’esempio, conquistarci la fiducia dei colleghi con un comportamento corretto. Così si costruiscono dinamiche positive. È un po’ come si fa con i figli: più che ascoltarti, ti guardano. È quindi l’esempio quello che conta. Nei nostri percorsi di formazione lavoriamo sul principio di vicinanza e condivisione con il prossimo, un approccio che non lascia spazio alla voglia di prevaricare l’altro. Se il mio compagno/collega sta facendo bene, sono felice. Parlo di valori che, in effetti, non sono scontati in un ambito di lavoro. Anche accettare l’errore è una pratica da insegnare: noto nelle aziende che le persone non sopportano di sbagliare! Invece, per sapere come vincere devi capire che sono le sconfitte a farti crescere.
Con che tipo di aziende collabori e che cosa ti chiedono quando ti ingaggiano?
Lavoro con aziende grandi, strutturate, per le quali organizziamo giornate formative, ma anche con aziende di dimensioni più piccole, che decidono di intraprendere percorsi formativi in più tappe, articolati in più mesi. Facciamo una formazione basata sul gioco del rugby, adattandolo al contesto, facendo un rugby “al tocco”, non di placcaggio. Le aziende mi chiedono essenzialmente una cosa: di diventare delle squadre. Il passaggio da gruppo a squadra, però, è un processo che richiede tempo, per questo proponiamo percorsi con più incontri. Ci sono casi di aziende che hanno fatto un percorso di sette mesi, con incontri mensili, e che sono rimaste davvero entusiaste, tanto che i dipendenti hanno proseguito poi in autonomia nell’attività ludica che abbiamo proposto durante la formazione. Con queste aziende abbiamo instaurato un rapporto che è andato poi al di là del professionale: una grande soddisfazione per noi. Al momento siamo fermi con le attività per via della pandemia: del resto proponiamo corsi che difficilmente possono essere svolti a distanza, perché per noi il contatto umano è essenziale. On-line si possono usare i video e si può cercare comunque di essere il più possibile empatici, ma in presenza è, ovviamente, tutta un’altra cosa.
Ex-sportivi si diventa, ma sportivi credo che un po’ si nasca. Perché è bene stimolare la mentalità sportiva anche in chi non ha un’attitudine naturale a praticare sport?
Indubbiamente è utile far capire che lo sport fa bene all’organismo. Poi c’è il valore educativo che lo sport, e il rugby in particolare, trasmette. Il più importante, che io stesso ho appreso giocando a rugby, è l’umiltà. Ho imparato che non bisogna mai sentirsi troppo grandi per fare cose piccole, che bisogna avere l’umiltà del secondo classificato per poter aspirare ad arrivare primi. Un esempio eloquente è il fatto che i giocatori di rugby, anche i professionisti di altissimo livello, quando finisce la partita puliscono lo spogliatoio. E l’allenatore non è da meno: passa per ultimo, controlla, e se è necessario finisce il lavoro. Lo sport insegna a mettersi sempre in discussione e ci fa capire che si cresce imparando, disimparando e imparando di nuovo. Uno sport di condivisione come il rugby è anche un modo per “sentire quello che non si sente”: intendo dire che in una squadra c’è un’energia che va al di là delle parole, un’energia che consente di essere aiutati senza dover chiedere aiuto, perché tra compagni ci si capisce con uno sguardo. Questa percezione è quella che cerco di stimolare nel mio ruolo di facilitatore con le persone, sul campo da rugby e nelle aziende.
Chi è Sergio ZorziNasce il 21 aprile 1964 in provincia di Treviso ed è proprio la città veneta a vederlo impegnato, fin da ragazzino, sui campi di rugby: dai dieci ai diciannove anni nella Tarvisium, poi, come professionista, alla Benetton Treviso. Negli anni Ottanta si guadagna la convocazione in nazionale, con la cui maglia colleziona sette presenze, e prende parte nel 1987 al primo campionato del mondo in Nuova Zelanda. Entra anche nella nazionale Seven e partecipa al primo Mondiale di rugby a sette, a Hong Kong. La carriera di allenatore lo vede alla guida di diversi club (Mirano Rugby, Rugby Mogliano, Silea Rugby, l’Under19 e l’Under21 della Benetton) e della Nazionale italiana Under18. È stato Direttore Tecnico del San Donà Rugby e Skills Coach del Benetton Senior. Dal 2017 dirige Akkademia, scuola che si rivolge a tutto il mondo del rugby con attività di consulenza sul territorio nazionale e internazionale a 360 gradi.
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