Al sicuro in un ambito lavorativo “ibrido”

Ancora una volta i manager sono chiamati a una nuova sfida: mantenere intatta la sicurezza psicologica del team, anche quando il lavoro è fatto di alternanza tra riunioni in presenza e da remoto.

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sicurezza psicologica

di Francesca Praga |

Quando una persona è chiamata a “esporsi”, come ad esempio durante una presentazione davanti a un potenziale e importante cliente oppure quando, in ambito sanitario, ci si trova davanti a un caso clinico complesso, la sicurezza psicologica di chi parla è fondamentale.

Se è vero che nel momento di presentazione della sintesi del lavoro si è soli, è anche vero che in un’organizzazione, tutta l’attività di preparazione di quel lavoro, più o meno complessa che sia, viene generalmente svolta da un team. È infatti in team che si è affinata una strategia di comunicazione, in team si è discusso del caso clinico o del prodotto e si è tracciato una linea guida comune, in team ci si è confidati e affidati reciprocamente i propri dubbi e le proprie perplessità. Il team è molto più che un gruppo di lavoro, è un vero è proprio insieme; fatto questo che porta non solo risultati personali ma, anche e soprattutto, risultati aziendali di rilievo.

Se prima della pandemia il processo che conduce alla fiducia reciproca all’interno del team, una volta acquisito, era piuttosto fluido, stabile e facile da ritrovare, oggi non possiamo più dire la stessa cosa: la pandemia ci ha in qualche modo diviso. Infatti, c’è chi è più attento agli aspetti logistici, chi a quelli relativi alla propria o altrui salute, chi si muove con più facilità e accoglie con entusiasmo il rientro al lavoro, chi invece rimarrebbe dietro allo schermo ancora a lungo. Già, lo schermo: se da una parte rassicura i più timorosi, dall’altro è una barriera per i più timidi, meno propensi a condividere e a mettersi in gioco con altre persone attraverso un filtro così evidente.

I manager, ancora una volta, sono chiamati a una sfida: mantenere intatta la sicurezza psicologica del team, anche in questa forma “ibrida” di lavoro, fatta di alternanze tra riunioni in presenza e da remoto. E questa sfida non va sottovalutata, perché la posta in gioco è alta: la lontananza aumenta la sfiducia e crea nuove e invisibili dinamiche di potere.

La sicurezza psicologica

In molti contesti lavorativi la sicurezza psicologica – ovvero la convinzione che si possa parlare senza rischio di censure o umiliazioni – è ben consolidata perché il confronto è riconosciuto come fondamentale motore critico dei processi decisionali, generatore di dinamiche di gruppo e relazioni interpersonali sane e oneste, sinonimo di innovazione e in grado di garantire un’esecuzione del lavoro più efficace all’interno delle organizzazioni.

Secondo Amy C. Edmondson, il benessere psicologico di un team è già di per sé complicato da mantenere nelle attività svolte in presenza, ed è fondato su un lavoro di confronto e mentoring reciproco e continuo, soprattutto in contesti lavorativi dove lo stress rimane sempre molto alto. Spostare questo asset, così duramente acquisito, in un ambito di lavoro ibrido è tutt’altro che semplice. In presenza, quello che ha validato la sicurezza psicologica è sempre stata, tradizionalmente, la franchezza alternata al dissenso rispetto al lavoro dell’altro. In questa fase di lavoro ibrido è molto difficile mantenere la stessa qualità di interazione, soprattutto quando vita personale e professionale si mescolano.

Da più di un anno a questa parte abbiamo cominciato a condividere, con i colleghi e anche con i superiori, aspetti della nostra esistenza che esulano in modo netto dall’ambito professionale. Per il manager questo cambio di paradigma ha significato includere gli aspetti strettamente personali del team in tutte le decisioni, dalla programmazione all’assegnazione di incarichi e incombenze. Per il dipendente, la quota di tempo dedicata al lavorare da casa, sia in qualità che in quantità, è guidata dalle necessità contingenti all’ambiente in cui si trova: se ci sono bambini o anziani da accudire, se c’è la didattica a distanza o in presenza, se ci sono problemi legati alla salute personale o a quella di chi è accanto. La lontananza fisica dal lavoro obbliga inoltre alla riorganizzazione personale del tempo lavorativo, facendo emergere anche difficoltà legate alla poca passione lavorativa o propensione all’autonomia.

Nei loro studi, sia Amy C. Edmondson che Mark Mortensen, hanno evidenziato anche una difficoltà per chi si trova nella situazione opposta: quella di chi è single o senza figli, che si sente escluso da questa necessità impellente e imprescindibile di trovare un equilibrio e uno spazio idoneo sia per il lavoro che per la famiglia e che spesso si sente ripetere che “è fortunato” ma in realtà, la personale percezione, è quella di sentirsi emarginato, se non addirittura penalizzato.

La verità è che il lavoro ibrido non tocca solo aspetti logistici e organizzativi, non fa solo “entrare in casa” un ambiente (e le sue dinamiche connesse) che solitamente era ben distante dalle mura domestiche, ma tocca aspetti più profondi legati all’identità, ai valori e alle scelte personali dei dipendenti, che a questo punto non hanno più “filtro” tra immagine professionale e domestica o quanto meno hanno un filtro che si è di gran lunga assottigliato. Costruire una discussione psicologicamente sicura è molto difficile a questo punto, perché possono emergere i pregiudizi di ogni persona facente parte del team, che in un ambiente “neutro” come l’ufficio possono essere meglio celati.

Non si può più far finta di nulla

In passato vita lavorativa e vita personale non erano praticamente mai in contatto e a nessun manager veniva chiesto di trovare soluzioni o prendere decisioni che includessero in qualche modo l’aspetto della vita personale di ogni suo riporto. Difficilmente le questioni legate alla gestione della prole, della salute o della situazione famigliare di un dipendente erano argomenti da mettere sul tavolo di lavoro quando si parlava di programmazione aziendale. Oggi, invece, questi aspetti hanno un peso anche piuttosto influente e la soluzione è da discutere tra manager e dipendente, attraverso una modalità di comunicazione incentrata sull’ascolto reciproco.

Non si può pensare, oggi, di ignorare questi aspetti in virtù di un possibile rientro in ufficio nei prossimi mesi e per il prossimo futuro, perché questa modalità di lavoro ibrida ha dimostrato più volte di avere dei punti di forza tali per cui difficilmente verrà abbandonata e, a questo punto, casa e ufficio resteranno ambienti in continua e reciproca comunicazione. È anche stato ampiamente documentato il fatto che questo nuovo tipo di organizzazione e gestione del flusso del lavoro aumenta la complessità manageriale perché le esigenze personali di ogni persona che fa parte del team non possono più essere escluse a priori.

Quali le strategie possibili?

Partiamo da un assunto fondamentale: la condivisione delle informazioni personali comporta rischi reali e significativi, date le restrizioni legali relative al porre domande personali, il potenziale di pregiudizi e il desiderio di rispettare la privacy dei dipendenti. La soluzione, quindi, non può essere quella di richiedere una maggiore divulgazione dei dati personali. Al contrario, i manager devono creare un ambiente che incoraggi i dipendenti a condividere spontaneamente aspetti delle loro situazioni personali che possono risultare rilevanti per la pianificazione del lavoro e ad affidarsi ai dipendenti nelle scelte giuste per se stessi e le loro famiglie, in equilibrio con le esigenze dei loro team. Ovviamente, dire semplicemente “fidati di me” non funzionerà, per questo motivo Amy Edmondson and Mark Mortensen suggeriscono una serie di passaggi per creare una cultura della sicurezza psicologica che si estenda oltre il contesto lavorativo, per includere aspetti più ampi della quotidianità dei dipendenti. Il lavoro di un manager è in costante e continuo mutamento e mai come questo ultimo anno è stato di insegnamento in questo senso: occorre quindi dimostrarsi flessibili e adattivi, cercando soluzioni sia pratiche che comunicative che siano inclusive e che permettano a ogni membro del team di sentirsi a proprio agio sul posto di lavoro, che sia a casa davanti a uno schermo oppure in ufficio, a contatto diretto con gli altri.

LA SICUREZZA PSICOLOGICA IN 5 PASSI

Come creare una vera cultura della sicurezza psicologica in azienda? Ecco una serie di passaggi utili.

  • | SII IL PRIMO A CONDIVIDERE

Sembra quasi scontato ma non è così: il primo a parlare a cuore aperto delle proprie difficoltà e delle sfide che questo tipo di lavoro porta, deve essere il leader del team, solo così gli altri possono sentirsi al sicuro nel condividere il proprio vissuto personale. Se ognuno mette sul tavolo le proprie difficoltà, sarà più semplice trovare una soluzione che soddisfi i bisogni di tutti, o quantomeno di buona parte del team. Se tutti ci sentiamo accolti, con i nostri limiti e le nostre difficoltà, saremo i primi a metterci in gioco per trovare una soluzione valida.

  • | LA VULNERABILITÀ È UN PUNTO DI FORZA

Siamo tutti vulnerabili, ma siamo tutti molto bravi a nasconderlo. Mettere in luce i nostri errori o le nostre debolezze può aiutare gli altri ad accettare meglio un suggerimento volto a modificare un comportamento errato, ma perpetrato nel tempo, oppure a condividere un errore fatto senza paura di essere giudicati o Non sempre si ha la soluzione di un problema chiara in testa, mostrarlo ai propri dipendenti non vuol dire mostrarsi mancanti, ma mostrarsi sinceri e, soprattutto, umili: un passo importante se si vuole ottenere lo stesso risultato dagli altri componenti del team.

  • | PROCEDERE A PICCOLI PASSI

Non ci si può aspettare che i dipendenti condividano subito le loro fatiche più personali, che possono magari rappresentare un fattore di rischio per quanto riguarda il proprio lavoro all’interno del team. Ci vuole tempo per costruire la fiducia, soprattutto quando l’ambiente di lavoro e quello personale si mescolano. Essere il primo a raccontare di sé, della propria vita può essere rassicurante e spingere gli altri a fare altrettanto, costruendo così un clima di aperta fiducia.

  • | CONDIVIDI ESEMPI POSITIVI

La cultura della sicurezza psicologica va costruita giorno per giorno, soprattutto quando il cambio di assetto lavorativo è continuo e prolungato nel tempo. Occorre diventare, talvolta, sponsor di questo tipo di cultura mostrando in modo chiaro e facilmente raggiungibile per tutti in che modo la condivisione sta aiutando il team a creare nuovi equilibri che portano, come conseguenza diretta, un miglioramento nel raggiungimento degli obiettivi lavorativi. L’obiettivo non è condividere le informazioni personali che si sono raccolte, ma quello di dimostrare come la condivisione delle proprie difficoltà e dei propri bisogni abbia permesso di trovare delle soluzioni di cui ogni membro del team può beneficiare.

  • | NON ABBASSARE LA GUARDIA

La sicurezza psicologica richiede tempo per essere costruita, ma bastano attimi per distruggerla. Il pensiero che prevale è non condividere nulla finché non si ha la certezza di essere accolti, per paura di essere derisi, giudicati o sanzionati. Sorvegliare costantemente le dinamiche comunicative è obbligatorio, per un manager, proprio per evitare che commenti fatti magari con leggerezza, possano ferire altri membri del team, spingendoli a non condividere più il proprio sentire. Il che non vuol dire limitare il pensiero altrui, ma aiutare i propri dipendenti a comunicare in modo positivo e assertivo. Ovviamente è obbligatorio mettere a tacere chi usa in modo malevolo le informazioni personali di altre persone: il rispetto reciproco è la base da cui si costruisce ogni rapporto di lavoro.

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