di Laura Reggiani |
Multinazionale francese che dal 1986 si occupa di gestione e sviluppo di risorse umane, Samsic HR è una società in rapida crescita con una forte e strutturata presenza in Europa, che basa la sua attività sul valore del capitale umano.
In qualità di attore nella gestione delle risorse umane, supporta le organizzazioni e le persone, prestando particolare attenzione alle performance e allo sviluppo delle competenze e ha sviluppato un’offerta globale che include approvvigionamento, formazione, reclutamento, personale temporaneo, mobilità, consulenza e coaching. L’offerta di servizi alle persone spazia dall’orientamento alla formazione, dal coaching all’accompagnamento al lavoro, mentre quella rivolta alle imprese va dal recruiting alla selezione, dalla somministrazione alla formazione.
IG Samsic HR è la realtà italiana del gruppo, nata nel 2020 dall’incontro tra Samsic HR e InforGroup, storica società italiana di proprietà della famiglia De Pasquale. Le due realtà hanno unito il proprio percorso con due obiettivi: offrire soluzioni dedicate a un mercato come quello italiano, caratterizzato da una specificità territoriale, e acquisire una dimensione internazionale in grado di arricchire quella territoriale. Avendo sempre al centro l’importanza delle persone nel mondo del lavoro, IG Samsic HR opera attraverso tre divisioni: la storica divisione “Staffing”, che si occupa di ricerca e selezione del personale e di somministrazione di lavoro, operante a stretto contatto con le realtà del territorio, con una profonda conoscenza del mercato locale e delle imprese di ogni settore e dimensione, e in grado di intercettare le esigenze del mondo del lavoro; la divisione “Formazione”, dedicata alla formazione continua, in grado di accompagnare i dipendenti e le aziende verso il loro cambiamento concreto, attraverso l’evoluzione delle competenze; la più recente divisione “Welfare”, nata alla fine del 2020 con l’obiettivo di raccordare le altre due aree, mettendo al centro le problematiche sociali delle persone: di chi perde il lavoro, di chi è diversamente abile, di chi si trova in difficoltà economica o in una situazione personale e famigliare complessa.
Come ci spiega Giuseppe Zingale, General Manager della nuova area Welfare, “la divisione da una parte raccoglie le esigenze delle aziende e le richieste del mondo del lavoro che provengono della divisione ‘Staffing’ e dall’altra le indicazioni della nostra ‘Academy’ sulle competenze che evolvono e sui percorsi formativi più idonei. In quest’ottica, vogliamo estendere oltre l’azienda il concetto di welfare per portare dei benefici e dei vantaggi concreti anche al territorio su cui operano le imprese e di cui fanno parte le persone”.
Qual è il modello di business e quali obiettivi vi siete posti con la nuova divisione dedicata al welfare? Quali sono i vantaggi per le imprese?
Ci poniamo sul mercato del lavoro come interlocutore privilegiato per le persone che cercano lavoro e per le imprese che vogliono assumere. La nostra divisione welfare sviluppa progetti dedicati ai cittadini alla ricerca di nuove opportunità professionali, per accompagnarli in percorsi volti al miglioramento delle competenze e all’inserimento nel mondo del lavoro. Inoltre, affianchiamo le imprese nella progettazione e nella realizzazione di soluzioni HR, individuando i finanziamenti pubblici e privati più idonei allo sviluppo di progetti personalizzati. Il nostro obiettivo primario è di accogliere le persone disoccupate o inoccupate presenti sul territorio, riqualificarle in base ai fabbisogni occupazionali manifestati dal sistema delle imprese attivandoci per cercare opportunità presso le aziende.
Se in passato IG Samsic HR ha operato prevalentemente nel rapporto con le imprese attraverso le attività di somministrazione, in quest’ultimo anno, complice anche la crisi sanitaria e conseguentemente economica, la necessità di supportare il sistema delle imprese non soltanto in una logica “amministrativa”, ma soprattutto in una logica di “politiche attive”, è diventata sempre più evidente. In quest’ottica stiamo sviluppando degli interventi mirati non solo al disoccupato o all’inoccupato, che rimangono i primi destinatari delle politiche attive, ma anche alle imprese che sono sul territorio, con l’obiettivo di far conoscere le facilitazioni e gli incentivi disponibili e fare comprendere i vantaggi e i benefici che possono portare le politiche attive se correttamente implementate.
Il vostro progetto prevede di mettere le “persone” al centro. Come lo fate nel concreto?
Vogliamo creare un sistema di welfare completo a supporto di tutte le necessità della persona. Stiamo ad esempio cercando di creare una rete territoriale, collaborando con i patronati, per creare un luogo dove il lavoratore possa trovare tutti i servizi utili, dalla politica passiva a quella attiva, dal lavoro somministrato al tirocinio, e possa essere messo nelle condizioni di essere spendibile nel mondo del lavoro e di entrare in contatto diretto con le imprese. Stiamo anche lavorando a supporto dell’autoimprenditorialità, perché vogliamo valorizzare l’idea di fare impresa, convinti che questo significhi creare occupazione e quindi ricchezza per il territorio. Per questo offriamo un supporto concreto alle persone che decidono di fare impresa e abbiamo sottoscritto un accordo con la Fondazione Welfare Ambrosiana, che prende in carico la persona e la segue in tutte le attività necessarie per intraprendere un’attività, da quelle burocratiche a quelle formative, fino alla ricerca dei finanziamenti. Un altro esempio concreto è legato alle persone diversamente abili, che possono diventare per l’azienda che le assume un’opportunità e non solo un adempimento a un obbligo legislativo. Attraverso il collocamento mirato formiamo infatti la persona diversamente abile in base alle specifiche esigenze dell’azienda e rendiamo più facile il suo inserimento all’interno dell’impresa, anche attraverso la figura del “Disability Manager” che ha il ruolo di integrare il lavoratore diversamente abile all’interno del contesto aziendale.
Da conoscitore del settore, quale dovrebbe essere a suo avviso il ruolo delle Politiche Attive nell’attuale contesto del mercato del lavoro? Quali gli strumenti a supporto dell’occupazione?
L’Italia, rispetto agli altri Paesi europei è quello che spende meno nelle politiche attive del lavoro e più in quelle passive:basta pensare che spendiamo 1/10 di quanto spende la Germania. Da sempre sono dell’idea che siano necessarie più politiche attive e meno politiche passive. Le politiche attive, collegate all’idea che aveva Marco Biagi di proattivare il disoccupato, sono sicuramente incisive e riescono ad aiutare chi non è in grado di farlo in autonomia a mettersi in contatto con le imprese. Il mondo va avanti, il lavoro cambia, l’impresa non si ferma, lo sviluppo tecnologico è inarrestabile e le competenze invecchiano in fretta. Il disoccupato che si paralizza negli ammortizzatori sociali si allontana dal mercato del lavoro, diventando sempre più difficile, nonché costoso, da ricollocare.
Incrociare le politiche passive con quelle attive può essere a mio avviso un buon punto di partenza. In questo senso, i 6 miliardi messi a disposizione delle politiche attive dal Recovery Fund possono rappresentare degli strumenti agevolativi importanti per le imprese che, se uniti a un corretto adeguamento del cuneo fiscale, potrebbero stimolare la ripresa del mercato del lavoro. Per quanto riguarda gli strumenti a supporto dell’occupazione sono convinto che vadano valorizzati maggiormente i percorsi professionali legati al tirocinio, all’apprendistato e a tutte le forme di work experience che, unite a una adeguata formazione specialistica, si possono rivelare fondamentali per fare entrare i giovani nel mondo del lavoro.
Qual è il suo giudizio sugli strumenti adottati in passato a favore dell’occupazione, come il Decreto Dignità e il Reddito di Cittadinanza?
Sono da sempre molto critico su entrambe le misure. Il Decreto Dignità non ha sicuramente aiutato né le imprese né i lavoratori. Il Jobs Act aveva già imposto dei paletti importanti che mettevano però nella condizione di potere tranquillamente operare; il Decreto Dignità ha messo invece troppe restrizioni che hanno solo inasprito la situazione occupazionale, portando gli imprenditori a scegliere di non rischiare e, quindi, a limitare le assunzioni a tempo determinato. Per quanto riguarda il Reddito di Cittadinanza, la misura ha un senso solo se non la si maschera da politica attiva e la si definisce di sostegno al reddito. In questo caso può rappresentare un paracadute momentaneo, uno strumento transitorio, che però non deve sostituire l’attività lavorativa, come invece accade sempre più spesso oggi, dove molte persone, a parità di guadagno, preferiscono vivere di reddito di cittadinanza piuttosto che impegnarsi in un lavoro. L’obiettivo finale deve essere sempre l’inserimento nel mercato del lavoro. Credo si sia rivelata una misura fallimentare perché non aveva un modello serio alla base, perché è stata inserita in un sistema del lavoro non organizzato e non è stata preceduta da una riforma profonda dei Centri per l’Impiego.
Ha citato i Centri per l’Impiego. La sinergia tra centri per l’impiego pubblici e le agenzie per il lavoro private può rappresentare un punto di partenza per combattere la disoccupazione?
Non si possono mettere in competizione servizio pubblico e sistema privato perché sono due mondi diversi, che devono però operare in sinergia. In Italia abbiamo bisogno che ci sia una governance affidata alla struttura pubblica in cui il privato entra in una logica di gestione. Per rispondere alle sfide a cui l’Europa ci chiama dobbiamo trovare quel giusto equilibrio tra governance e gestione, dove il sistema certificatorio e amministrativo rimane di competenza dell’attore pubblico mentre la gestione diventa una competenza del privato. Il problema, oggi, non è più legato alle risorse ma alla loro gestione: si tratta di un’opportunità storica e se l’Europa è scesa in campo in modo massiccio è perché ha capito che c’è bisogno di un sostegno al sistema economico e, quindi, all’occupazione. L’obiettivo, oggi, deve essere quello di creare un modello integrato tra sistemi pubblici e sistemi privati, che ci permetta di gestire le risorse in modo coerente rispetto agli obiettivi. Per fare questo è necessaria una attenta regia da parte dell’Anpal e soprattutto la creazione di un sistema informativo unico, che metta a sistema i dati relativi alla domanda e all’offerta di lavoro in una logica di welfare territoriale basata anche sulla mobilità dei lavoratori e sull’accoglienza.
Mai come in questi ultimi tempi si è sentito parlare di formazione. Che ruolo riveste per la crescita del nostro Paese?
Ben il 30% delle figure professionali che vengono oggi richieste dalle imprese non si trovano sul mercato e per alcune professionalità si arriva anche al 50%. Questo significa che la formazione, oggi, non rappresenta solo un elemento importante, ma è diventata imprescindibile: è attraverso la formazione che passa la ripresa del mercato. Deve essere però una formazione nuova, non fine a se stessa ma in grado di rispondere ai fabbisogni occupazionali delle imprese, che unisca le esigenze dell’imprenditore con le competenze del lavoratore. Per questo credo che l’impresa, se vuole essere competitiva in un mercato non solo internazionale ma anche globalizzato, debba valorizzare le sue persone e investire di più nella formazione specialistica. In questo senso molte regioni, come ad esempio la Regione Lombardia, stanno operando bene, mettendo a disposizione risorse per la formazione specialistica e cercando di offrire tutti gli strumenti di supporto all’inserimento lavorativo che aiutano le imprese ad avere delle persone a costi ridotti. Il “Fondo Nuove Competenze”, di recente istituzione da parte Anpal, ha rappresentato un altro strumento utile, un’idea brillante che ha offerto un supporto soprattutto alla grande impresa, peraltro già più incline alla formazione dei suoi lavoratori, sostenendo il costo dell’assenza dei dipendenti in formazione, ma sono convinto che da questo punto di vista ci sia ancora molto da fare.