di Luigi Beccaria* |
Come ampiamente noto agli addetti ai lavori, la nozione di lavoro subordinato fornita dalla legge – specificamente dall’art. 2094 del Codice Civile – risulta particolarmente imprecisa nell’individuazione di una figura così cruciale per l’assetto economico-sociale del paese: tale imprecisione è in parte “congenita”, connaturata alla imprecisa formulazione lessicale della norma; ma in parte deriva altresì dalla cristallizzazione della stessa, rimasta immutata sin dall’originaria redazione risalente al 1942 e ritagliata, come gli studiosi hanno ricostruito, sulla figura dell’operaio fordista – taylorista; se perciò detta norma non crea alcun problema di individuazione dei lavoratori subordinati adibiti a simili mansioni, maggiori conflitti interpretativi sono suscettibili di essere generati per fatti- specie maggiormente “di confine”, aventi caratteristiche giuridiche ibride.
Gli indici di subordinazione
Al fine di supplire a tale situazione di incertezza derivante dalla ambiguità legislativa, nel tempo la giurisprudenza ha ovviato istituendo il cosiddetto metodo “tipologico” al fine di riconoscere nel modo più univoco possibile la sussistenza (o meno) di un rapporto di lavoro subordinato, elencando una serie di ‘indici di subordinazione’ rinvenibili, a titolo esemplificativo, nella sottoposizione al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro; nella rigidità di orario e nella presenza di una postazione fissa presso l’azienda; nella previsione di una retribuzione fissa.
Attraverso la verificazione “in fatto” di tali indici la giurisprudenza, sia pure con un ineludibile margine di discrezionalità, è riuscita a creare dei paradigmi finalizzati a un’uniformazione del diritto, e, come si è potuto riscontrare anche nella recente sentenza avente per oggetto il riconoscimento della subordinazione dei cosiddetti “rider” (tematica certamente degna di un futuro approfondimento, anche solo per l’anomalia costituita dal demandare a un soggetto unico – la persona fisica del giudice investito della questione – la risoluzione di una questione così rilevante per numero di soggetti coinvolti e volume economico movimentato), si è fatta carico di un compito che né il legislatore, né le associazioni di categoria erano riuscite ad assolvere, cioè determinare in maniera tendenzialmente uniforme un profilo di significativa rilevanza per il mondo produttivo, sia ex parte datoris sia ex parte lavoratoris.
Purtuttavia, tale quadro, che aveva ormai acquisito una sua stabilità, non essendo gli indici di subordinazione messi in discussione da tutti gli operatori del diritto, ha subito un inevitabile e imprevedibile sconvolgimento in seguito alla inimmaginabile diffusione pandemica sviluppatasi sul territorio italiano a partire dal mese di febbraio 2020, che ha reso lo Smart Working, che sino a quel momento ricopriva un ruolo assolutamente marginale nel tessuto economico italiano, lo strumento preferenziale di esecuzione della prestazione di lavoro, atteso che la variazione del luogo dell’adempimento dell’obbligazione lavorativa da parte del dipendente ben si conciliava con l’esigenza del distanziamento sociale imposta dai particolari e insidiosi meccanismi di diffusione dell’epidemia.
Orbene, una volta metabolizzata la nuova modalità preferenziale di resa della prestazione di lavoro, appare inevitabile confrontarsi sui riverberi che questa è idonea a produrre sulla precedente nozione (giurisprudenzialmente ricostruita attraverso la sussistenza degli ‘indici’ di cui si è poco fa brevemente dato conto) nozione di lavoro subordinato, atteso che, come è di immediata evidenza, molti degli indici sopra esposti subiscono un’attenuazione quando proprio non un integrale annullamento: naturalmente la differenza che ictu oculi emerge in prima battuta è l’assenza della postazione fissa sul luogo di lavoro, che comporta la totale eliminazione di un importante indice di subordinazione; secondariamente, l’osservanza di un orario di lavoro fisso subisce una chiara attenuazione, e ciò sia in senso per così dire “pro datore” (lo smart worker si trova frequentemente nella posizione di dover rispondere a e-mail o chiamate anche oltre l’orario di lavoro, da cui l’esigenza sorta in sede sindacale di una regolamentazione del cosiddetto “diritto alla disconnessione” e un ripensamento delle regole sul riposo e in generale sull’orario di lavoro) sia in senso “pro lavoratore” (atteso che, stanti anche le difficoltà nel controllo su cui torneremo a brevissimo, è ben possibile che, anche in considerazione delle complicazioni date dalla coesistenza con la didattica a distanza dei figli, il lavoratore possa effettuare le sue attività in orari diversi da quelli contrattualmente stabiliti, con contestuale significativa riduzione dell’indice sulla rigidità dell’orario).
Il controllo del datore di lavoro
Un approfondimento a parte merita la questione relativa alla sottoposizione al potere organizzativo e di controllo del datore di lavoro, che in caso di coesistenza fisica nel medesimo ambiente lavorativo naturalmente non presenta problemi di sorta. Per effetto dello scostamento spaziale dovuto al ricorso al lavoro agile, un’eventuale attività di controllo datoriale rischierebbe invece di impingere nella violazione di cui all’art. 4 della l. 300/1970 in tema di controlli a distanza: come noto, tale norma ha finalità di contemperamento tra i diritti del lavoratore (principalmente quello alla riservatezza) e i poteri del datore di lavoro (che deve pur controllarne il corretto adempimento della prestazione lavorativa); appare chiaro che il massivo ricorso allo smart working ha determinato e determina un differente assetto nell’equilibrio tra le due componenti, sicché appare inevitabile una riformulazione della norma finalizzata a conservare il medesimo punto di caduta nel mutato assetto di fatto. Appare palese, infine, come il ricorso al lavoro agile finisca col responsabilizzare il lavoratore verso il raggiungimento di un risultato più che verso la mera diligenza nell’adempimento della prestazione, con conseguente spostamento dalle cosiddette “obbligazioni di mezzi” alle cosiddette “obbligazioni di risultato”, il che comporta ulteriore stravolgimento dei classici canoni sistematici del lavoro subordinato.
In sintesi e in definitiva, la comparsa, su scala così vasta, del fenomeno dello smart working, una volta superata l’iniziale fase emergenziale, sembra richiedere un adeguamento normativo o un ripensamento dei canoni interpretativi della subordinazione; diversamente, tornerebbe d’attualità l’apodittica frase di un piccolo imprenditore lombardo, il quale, beatamente ignaro di orientamenti giurisprudenziali e indici di subordinazioni, mi ha testualmente affermato: “i miei dipendenti lavorano da casa e mi presentano i lavori finiti quando vogliono loro? Benissimo, mi mandino la fattura a fine mese che li pago…”.
* Luigi Beccaria è avvocato ed è partner di Studio Elit. Collabora con l’Università degli Studi di Milano e con l’Università Cattolica del Sacro Cuore.