di Virna Bottarelli |
Tra i tanti temi, più o meni divisivi, che interessano il mondo del lavoro, ce n’è uno che sembra mettere tutti d’accordo: il welfare aziendale. Che si tratti di uno strumento dai diversi aspetti positivi lo dice il 4° Rapporto Censis-Eudaimon, pubblicato a marzo.
Nelle sue prime pagine, il Rapporto, intitolato “Imprese, lavoratori e welfare aziendale nella grande trasformazione post Covid-19”, lo definisce come una risorsa per almeno tre ambiti aziendali: i conti, la comunità e la reputazione. E ne spiega i motivi: sui bilanci il welfare genera effetti positivi, tra risparmio fiscale certo e presumibile aumento della produttività; sulle comunità aziendali agisce come elemento di coesione, perché stimola l’engagement, la motivazione e il senso di appartenenza dei dipendenti; infine, sulla “social reputation” ha un effetto positivo perché un’azienda che si impegna a migliorare la vita dei membri della comunità in cui è inserita gode di buona reputazione.
Ad avvalorare la tesi del welfare come risorsa economica preziosa ci sono anche i numeri: se fosse esteso a tutte le imprese del settore privato, si sostiene nel Rapporto, il suo valore economico potrebbe essere circa 53 miliardi di euro. Ipotizzando, infatti, di estendere a tutte le imprese private i risparmi fiscali e gli incrementi di produttività attesi, rilevati dalle aziende “best in class”, il beneficio complessivo sarebbe pari a 34 miliardi di euro, mentre 19 miliardi sarebbe il valore dei servizi e delle prestazioni di welfare aziendale erogate ai lavoratori.
A ciascuno il suo welfare
Prima di esaminare come l’anno della pandemia ha inciso sulle politiche di welfare aziendale, è utile dare uno sguardo al Terzo Rapporto WelfareForPeople realizzato da Adapt in collaborazione con UBI Banca, che analizza i contratti sottoscritti sino al 2019, inseriti nella banca dati fareContrattazione. Il Rapporto misura le iniziative di welfare regolate dalla contrattazione collettiva basandosi su un indice (Adapt-Ubi Welfare Index) che cataloga e classifica le prestazioni e i servizi erogati ai lavoratori in azienda.
Semplificando l’accurato lavoro di Adapt – che opera anche la distinzione tra welfare occupazionale (prestazioni destinate alla persona, che non incidono sul rapporto di lavoro) e aziendale (misure che integrano lo scambio contrattuale e incidono sullo scambio tra lavoratore e datore di lavoro) – nel welfare rientrano le seguenti misure: previdenza complementare, assistenza sanitaria integrativa, assistenza ai familiari e cura, assicurazioni, educazione/istruzione, attività ricreative e tempo libero, buoni acquisto, mensa e buoni pasto, trasporto collettivo, formazione e flessibilità organizzativa.
Il Rapporto si focalizza sui settori metalmeccanico e chimico-farmaceutico, ma prende in esame anche edilizia, agricoltura e turismo. Dai contratti aziendali della metalmeccanica sottoscritti nel 2019 emergono una crescente attenzione per le misure di conciliazione e un’ampia diffusione dei cosiddetti flexible benefit, anche se in calo rispetto all’anno precedente. Cresce anche la diffusione di prestazioni di mensa e buono pasto (38%) e di previsioni sulla formazione (38%), mentre non è molto elevata la presenza di misure di previdenza complementare (15%) e assistenza sanitaria integrativa (13%).
Come si legge nel Rapporto, il welfare sembra “polarizzato tra le dimensioni occupazionale e aziendale, concentrato, infatti, da un lato sull’erogazione di quote welfare spendibili in maniera personalizzata dai lavoratori, dall’altro lato su misure relative alla conciliazione e alla flessibilità organizzativa”. Diverso è invece il panorama dell’industria chimico-farmaceutica: in questo settore sono la flessibilità organizzativa e la conciliazione vita-lavoro ad avere la meglio, rappresentando il 71% delle misure di welfare contrattate a livello aziendale.
Per quanto riguarda, invece, gli altri settori esaminati, Adapt evidenzia la tendenza del welfare a essere tema di contrattazione principalmente nelle aziende di dimensioni maggiori: il 44% delle intese sono state sottoscritte in imprese con oltre 1.000 dipendenti, il 25% in imprese tra i 250 e i 1.000 dipendenti e il 30% in aziende con meno di 250 dipendenti. Dal punto di vista territoriale prevalgono le intese sottoscritte nelle regioni del Nord Italia (69%).
Entrando nelle misure specifiche, sono aumentati gli interventi pensati per rispondere all’invecchiamento della popolazione aziendale, alla disabilità e/o a gravi patologie, con l’istituzione di osservatori per il monitoraggio, la promozione e l’implementazione di queste misure anche attraverso la figura del “Disability Manager”. In generale, prevalgono gli accordi inerenti misure per la conciliazione vita-lavoro (42%), seguite da quelle riguardanti il benessere del lavoratore al di fuori del contesto aziendale (39%) e le clausole di welfarizzazione del premio di produttività (19%).
C’È WELFARE E WELFAREUniversalistico, occupazionale, personale, unilaterale, negoziato ecc. Sono diverse le classificazioni quando si parla di welfare, ma la distinzione più significativa, che ricorre nei Rapporti presi in esame in questo articolo è quella tra welfare puro o “on top” e welfare derivato della convertibilità dei premi di risultato. Nel primo caso: si individua un importo figurativo fruibile esclusivamente in beni e servizi, senza limiti, fatta salva “la non distorsione della capacità contributiva del beneficiario”, non ci sono obiettivi ai quali vincolare l’erogazione e non è obbligatorio il coinvolgimento delle controparti sindacali. Nel secondo caso: ci si rifà a quanto disposto dalla Legge di Stabilità 2016, che ha introdotto il principio della sostituibilità tra erogazione monetaria ed erogazione in beni e servizi welfare dei Premi di Risultato. Questi devono essere legati a incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza o innovazione, misurati rispetto ad un periodo di riferimento congruo e istituiti all’interno di un contratto di secondo livello (aziendale o territoriale). L’erogazione del premio di risultato comporta un’agevolazione che prevede la parziale detassazione in capo al lavoratore degli importi erogati con l’introduzione di un’aliquota sostitutiva Irpef pari al 10% fino a un valore massimo del premio di 3mila euro per ciascun anno di corresponsione. Qualora si scelga la conversione del premio monetario in servizi, questi ultimi sono completamente detassati e de-contribuiti, sia per il lavoratore sia per il datore di lavoro. |
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