di Cesare Damiano |
I repentini cambiamenti economici e produttivi, associati alle innovazioni tecnologiche e alla urgenza di procedere verso la transizione verde, hanno imposto la necessità di sviluppare – e coordinare a livello europeo – un sistema di formazione professionale e permanente e, al contempo, un quadro di qualificazione e di certificazione delle competenze che risponda ai nuovi fabbisogni di professionalità nel mercato del lavoro.
Nonostante la riforma Fornero del 2012 abbia riconosciuto il “diritto individuale all’apprendimento permanente”, ponendo le basi per un riordino generale delle politiche attive del lavoro, si può sostenere che il Legislatore nazionale da tempo stenti a cogliere questa sfida. È evidente che le principali carenze di offerta formativa e di convalida dell’apprendimento permeano soprattutto i percorsi formativi aggiuntivi a quelli formali, che compongono la galassia della formazione professionale e continua erogata dalle Regioni, dalle parti sociali e dal settore privato.
Alcune criticità
Le criticità sono molteplici e poggiano probabilmente sullo scarso coordinamento tra lo Stato e le Regioni, che pure detengono la competenza esclusiva in materia di formazione professionale, posto che solo nel 2015 è stato avviato un percorso di progressiva standardizzazione delle qualificazioni regionali attraverso l’istituzione di un apposito Quadro nazionale di riferimento.
Altrettante problematiche ineriscono alla spendibilità delle competenze acquisite attraverso la formazione professionale e continua, in assenza di un sistema di certificazione. Basti pensare che il “Fascicolo elettronico del Lavoratore”, istituito nel 2015 per raccogliere le esperienze di apprendimento individuale, non è ancora operativo a causa dei ritardi nella interoperabilità tra le banche dati degli enti pubblici competenti. Un segnale di attenzione alla materia è stato invero avvertito pochi anni addietro, quando il D.M. dell’8 gennaio 2018 ha istituito il “Quadro Nazionale delle Qualificazioni”, in raccordo con Quadro europeo (EQF), propedeutico alla creazione di un sistema di certificazione delle competenze e al raccordo con i sistemi di formazione. Tant’è che il Quadro è stato già parzialmente attuato attraverso una serie di dispositivi informativi e catalogatori di coordinamento (Atlante del Lavoro e delle Qualificazioni; Registro italiano delle qualificazioni referenziate).
Tuttavia, l’Italia ha continuato a soffrire di significativi ritardi, giacché proprio l’istituzione del sistema di validazione e certificazione delle competenze prefigurato nel 2013 (D.lgs. n. 13/2013) è stato avviato solamente nel 2021, con l’emanazione delle Linee guida per la sua implementazione (D.I. 5 gennaio 2021). Si tratta, quantomeno, di un significativo passo in avanti che segue tra l’altro la pubblicazione della proposta di aggiornamento della “referenziazione” delle qualifiche italiane al Quadro europeo, attualmente in fase di valutazione. Bisognerà comunque attendere almeno il mese di gennaio 2022 per avere contezza dei primi risultati attuativi, dal momento che gli enti pubblici titolari dovrebbero avere tutte “le carte in regola” entro questa deadline, disponendo di un quadro regolamentare conforme al Sistema. Sul versante operativo, poi, bisognerà capire che ruolo avranno gli enti – pubblici e privati – titolati alla erogazione di tali servizi, nei meandri delle procedure di raccordo tra le proprie attività e i meccanismi e i requisiti di certificazione, in esito dei percorsi formativi.
I ruoli degli Enti
Tra questi, non è peregrino ritenere che un ruolo determinante lo ricopriranno le parti sociali e il mondo della bilateralità, tanto in ragione delle attività di formazione erogate per mezzo dei Fondi Paritetici quanto per la capacità regolatoria acquisita in materia della contrattazione collettiva.
In effetti, non si può negare che l’autonomia collettiva stia progressivamente modellando, a dir il vero in modo alquanto disomogeneo, il diritto alla formazione professionale dei lavoratori, soprattutto attraverso l’istituzione di permessi ad hoc, l’identificazione di figure delegate e il rafforzamento del raccordo con i Fondi interprofessionali di settore.
Anche il Legislatore, soprattutto nei momenti più bui dell’emergenza pandemica, è parso intenzionato a sollecitare la negoziazione collettiva in tal senso. Almeno così lascia intendere la regolazione del Fondo Nuove Competenze, istituito con il Decreto Rilancio e incrementato con il Decreto Agosto. Si tratta, come ormai ben noto, di uno strumento emergenziale attraverso cui convertire temporaneamente parte dell’orario di lavoro dei dipendenti in attività di formazione finanziate dalle casse pubbliche, per mezzo della sottoscrizione di intese collettive di rimodulazione dell’orario di lavoro e di individuazione dei contenuti formativi.
Il Fondo, in realtà, pare destinato ad incardinarsi nel futuro sistema di protezione sociale fra gli asset del “Piano Nuove Competenze” previsto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. La ratio di coordinare le politiche attive del lavoro con quelle passive non è cosa nuova, ma mai realmente inverata.
Eppure, il Piano pare andare decisamente in questo senso, posto che le misure di sostegno al reddito in costanza di lavoro dovranno essere accompagnate da percorsi di formazione dei lavoratori che incentivino rapide transizioni occupazionali, nel disegno del programma “Garanzia di occupabilità dei lavoratori”. Certo, bisognerà attendere l’attuazione del Pnrr per comprendere se, e in che termini, la formazione professionale sarà ancora considerata strategica nel rinnovato sistema di welfare pubblico.
Lascia ben sperare il fatto che l’attuazione del Piano troverà il favore dell’Unione Europea, che anche recentemente ha più volte sollecitato gli Stati membri a rafforzare il sistema di formazione e qualificazione professionale, tanto da prefissarsi “audaci” obiettivi attraverso la Raccomandazione (2020/C 417/01) relativa all’istruzione e formazione professionale e il successivo “Quadro strategico per la cooperazione europea nel settore dell’istruzione e della formazione (2021-2030)”.
Un nuovo fermento riformistico
Alla luce di questa breve rappresentazione, pare chiaro che ci si trovi di fronte a disparati interventi legislativi e attuativi “a singhiozzo”, in assenza di una disciplina organica sulla formazione professionale e, probabilmente, di una chiara visione sistemica sulle politiche attive del lavoro.
Tuttavia, a voler cercare qualche spiraglio prospettico, la crisi pandemica ha sollecitato un fermento riformistico che finalmente non sminuisce la formazione professionale e continua, incardinandola nelle progettualità rivolte al lavoro e alla protezione sociale. D’altronde, questo cambio di passo era da tempo atteso, a fronte dei crescenti fabbisogni formativi generati dalla rapida obsolescenza del patrimonio professionale e dalla crescente debolezza individuale nel mercato del lavoro odierno. A mostrarlo è anche il “XIX Rapporto sulla formazione continua” riferito agli anni 2017-2018, pubblicato dall’Inapp sul finire del 2020, che evidenzia come in Italia, rispetto agli altri Paesi europei, i gruppi più vulnerabili – tipicamente gli adulti con basso livello di qualificazione e bassi livelli di competenze – hanno minori probabilità di partecipare ad attività di istruzione e formazione. Nella graduatoria europea dei tassi di partecipazione degli adulti alle attività formative, il Paese si colloca solo al 17° posto, con un valore pari al 7,9%. Anche la spesa nazionale nella istruzione e formazione mostra un livello comparativamente inferiore, attestandosi al 3,9% del Pil, a fronte di una media europea del 4,7%. Similmente, l’impegno delle imprese nella formazione non raggiunge risultati entusiasmanti, tanto che peggiora comparativamente la posizione dell’Italia nella graduatoria europea, che dal 19° posto scende al 22°.
Il quadro fenomenologico mostra chiaramente la necessità di ripensare le formule di attuazione del principio di tutela del lavoro, nella logica di garantire il diritto alla formazione e all’apprendimento permanente sancito nel 2017 dal Pilastro europeo dei diritti sociali e, senza bisogno di “sconfinare”, dall’art. 35 della nostra pionieristica Costituzione che – è bene ricordarlo – impone la «cura della formazione» e l’«elevazione professionale dei lavoratori».
Chi è Cesare DamianoNato a Cuneo nel 1948, è stato Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale nel secondo Governo Prodi ed è ricordato per essere l’artefice del Testo Unico sulla Sicurezza sul Lavoro. Dal 2006 al 2018 è Deputato della Repubblica eletto nelle liste del PD e dal 2013 al 2018 è Presidente della Commissione Lavoro della Camera. Cesare Damiano svolge oggi attività di ricerca, formazione e consulenza in materia di sicurezza, diritto del lavoro, politiche dell’occupazione, relazioni industriali, contrattazione collettiva, welfare e previdenza, ed è Presidente dell’Associazione Lavoro&Welfare e del Centro Studi Mercato del Lavoro e Contrattazione. |