Dallo Smart Working una lezione per gestire il cambiamento

Quella che si profila all’orizzonte sarà una sfida epocale per il diritto del lavoro, che dovrà essere in grado di produrre nuove definizioni e nuove tecniche di protezione.

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di Giovanni Scansani |

Dopo la salute, il lavoro è l’argomento principale del dibattito sulle conseguenze della pandemia. Uno degli aspetti più discussi – anche perché ancora molto confuso – è quello della sua “remotizzazione” che, terminata l’emergenza sanitaria, conserveremo come stabile eredità. Al di là delle stime sin qui pubblicate e che saranno tutte da verificare nella realtà (stabilmente “in smart” resterebbero fra i 3 e i 5 milioni di lavoratori) a contare saranno soprattutto le concrete modalità di un fenomeno che, durante la pandemia (e spesso ancora oggi), tutto si può dire sia stato tranne che “agile” e “smart”.

In gioco non c’è tanto il sostegno al benessere individuale o alla conciliazione vita-lavoro (questi sono outcome – e non sempre “automatici” – della possibilità di lavorare in un luogo diverso dall’azienda, non i suoi fondamenti tecnico-organizzativi), ma la ridefinizione stessa di una buona parte del lavoro subordinato, che dovrà fare i conti con l’allargamento di quella “zona grigia” creatasi per effetto del suo progressivo avvicinamento alle logiche del lavoro autonomo. Si tratta, come noto, di un trend in atto da tempo e che per effetto di plurimi fattori spinge verso l’individualizzazione dei rapporti di lavoro. Quanto al “lavoro agile” può essere utile rammentare che la normativa che lo disciplina (Legge n. 81/2017) ha significativamente ad oggetto “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”.

Ci si dovrebbe porre la questione se il “lavoro agile” sia stato solo contestualmente o al contrario nient’affatto casualmente disciplinato all’interno di una norma dedicata (soprattutto) al lavoro autonomo.

Una sfida epocale per il lavoro

L’evoluzione dei sistemi organizzativi e produttivi, associata alle trasformazioni indotte dall’innovazione tecnologica, sta progressivamente cambiando il senso della tradizionale distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo. La pandemia, poi, ha accelerato questo processo tramite un’improvvisa (ancorché spesso improvvisata) digitalizzazione di massa del lavoro non manuale che, associata alla rottura dell’unità di tempo e di luogo della prestazione lavorativa, implica la necessità di superare i paradigmi gestionali novecenteschi e i vecchi sistemi di inquadramento e classificazione del personale (come si è iniziato a fare con il recente Ccnl del settore metalmeccanico). Del resto, quella che si profila all’orizzonte – come ha più volte avvertito un attento giuslavorista come Pietro Ichino – sarà una sfida epocale per il diritto del lavoro, che dovrà essere in grado di produrre definizioni nuove e soprattutto nuove tecniche di protezione.

Quale Smart Working?

Se si escludono quelle delle pochissime aziende nelle quali si è proceduto (ante pandemia) a una corretta strutturazione dello Smart Working (SW), tutte le restanti esperienze precedenti l’arrivo del Covid-19 avevano avuto come denominatore comune l’assenza di una sottostante complessiva riprogettazione dell’organizzazione del lavoro e utilizzavano il “lavoro agile” senza avere mutato granché delle procedure operative che, in buona sostanza, restavano (e spesso sono tuttora) le stesse, in un quadro d’azione improntato al business as usual. A questa maggioritaria tipologia di “lavoro agile” a-tecnico si è aggiunta la recente esperienza di massa rappresentata dal “lavoro da remoto forzato” imposto dalle finalità di prevenzione anti-contagio: non già, quindi, SW (neppure in senso a-tecnico), ma unicamente una misura prevenzionale coatta di distanziamento dei lavoratori tradottasi, al più, in una sorta di riedizione emergenziale del telelavoro. Anziché evidenziare le profonde differenze tra quanto stava accadendo e le caratteristiche dell’autentico SW è stato proprio sulla diffusione della modalità emergenziale che si sono ricamate le più varie narrazioni e si sono disegnati scenari sulla cui plausibilità è lecito nutrire più di un dubbio. Con la diffusione della pandemia intorno allo SW si è scatenata una vera e propria corrispondente “infodemia” che, alimentata dalla stampa e dai social, ha favorito il prodursi di alcune “visioni” del “lavoro agile” variamente collocabili tra il fideistico (quanto alle promesse e agli effetti) e l’utopistico (quanto alle premesse e ai significati) e quindi, lungo la scala di questo mismatch con la realtà, del tutto fuorvianti per la comprensione della sua reale natura. L’augurabile prossima uscita dalla fase emergenziale impone dunque l’urgenza di un’attenta rilettura dello SW per superare le sue ormai numerose “interpretazioni”, che rischiano di avere il sopravvento sulla teorizzazione perché – come sosteneva Umberto Eco – “ciò su cui non si può teorizzare, si deve narrare”.

Il tema è complesso, ma ciò che qui è importante evidenziare è come tra le molte carenze del dibattito vi sia quella che riguarda la mancata considerazione di quel previo ed essenziale sforzo di (ri)progettazione delle organizzazioni cui le aziende sono chiamate in conseguenza sia delle modificazioni che sta subendo l’environment nel quale esse agiscono, sia della trasformazione tecnologica e antropologica del lavoro che si sta delineando sul più ampio sfondo dell’evoluzione “4.0” dell’organizzazione d’impresa, ossia nel quadro di quella “grande trasformazione” del lavoro che da quelle modificazioni discende e sulla quale la “Quarta Rivoluzione” industriale si basa. È solo avendo a mente questo presupposto che può procedersi a una ricostruzione del perimetro nel quale il “lavoro agile” diventa definibile nella sua vera essenza.

Il lavoro 4.0 è human-centered

L’esplosivo sviluppo di nuove infrastrutture digitali e la possibilità di organizzare la produzione anche virtualmente, danno sinteticamente conto delle trasformazioni in atto che riguardano sia il lavoro manifatturiero, sia quello del terziario. La crescente flessibilità spazio-temporale nell’organizzazione del lavoro, resa possibile dalla “portabilità” dei device e talvolta degli stessi mezzi di produzione connessi alla rete internet, associata a gradi crescenti di responsabilizzazione, discrezionalità e flessibilità operativa dei lavoratori (singoli o in team) è pienamente coerente con i paradigmi produttivi di “Impresa 4.0”, lungo le cui linee evolutive può essere collocato anche lo SW. Automazione del lavoro e digitalizzazione di entità informazionali all’interno dei processi produttivi non rendono più necessaria la tradizionale organizzazione statica del lavoro. Ciò finisce per incidere anche sul vincolo della subordinazione che la dottrina, infatti, al ricorrere di determinate condizioni, definisce “attenuata” perché, in prospettiva, destinata a orientarsi verso nuove fisionomie che richiamano, almeno in parte, il lavoro autonomo (e per certi aspetti, almeno indirettamente, forse anche quello dirigenziale).

Si tratta di una prospettiva che lo SW sembra di per sé contenere e che sfida il giuslavorismo e il management sul piano della nascita di contratti di lavoro che non solo nella scienza delle organizzazioni, ma anche in àmbito sindacale si cominciano a definire “ibridi”. Le trasformazioni in atto, però, devono essere viste come le linee di un percorso utile alla riconsiderazione dei luoghi di lavoro come luoghi nei quali la centralità umana, intesa anche come presenza, anziché svanire (come temono i tecnofobici) o farsi fisicamente superflua (come vorrebbero taluni utopisti del lavoro anywhere/ anytime) semmai si rinnova, grazie a un incremento del coinvolgimento dei lavoratori, il che chiama le imprese al redesign non solo della produzione, ma della loro complessiva configurazione organizzativa e culturale. E questo riguarda il management non meno che i singoli lavoratori, soprattutto se il lavoro è svolto (anche) in modalità “agile”. In questa nuova centralità dell’umano si manifesta quel passaggio verso un più pieno apporto individuale (anche come funzione innovatrice del lavoratore) e verso la condivisione di progetti che misurano il lavoro per i risultati che genera, più che per la fisica presenza on site.

Il lavoro, proprio in conseguenza della diffusione delle tecnologie informatiche, necessita di persone sempre più formate e istruite, capaci di auto-organizzarsi e di assumere decisioni e sta chiedendo maggiore corresponsabilità e maggiore partecipazione diretta (due aspetti dimenticati nell’euforica esaltazione del lavoro “liberato” dallo SW). Il lavoro, non più basato (solo) sullo scambio economicistico del tempo e delle energie del lavoratore in cambio di un salario, si trasforma, così, in un rapporto umanamente più arricchente (potenzialmente tale anche in termini retributivi, benché anche più rischioso) basato sul raggiungimento di obiettivi condivisi sulla base di un inedito spazio di co-progettazione del lavoro il cui perimetro è disegnato, nel “lavoro agile”, dall’accordo individuale che definisce questa modalità lavorativa.

Illusioni hi-tech

L’innovazione organizzativa è, però, il frutto di un complesso processo di progettazione. Si può tentare questo parallelo: si pensi alla classica illusione tecnocratica che induce a ritenere che la sola introduzione di nuova tecnologia – in particolare quella informazionale – sia capace di portare al compimento di definitive “rotture” con le impostazioni culturali e operative precedenti e si consideri come, in sostanza, sia proprio un’illusione del tutto similare quella che, nel passaggio dal tradizionale coordinamento spazio-temporale del lavoro “in presenza” a quello info-telematico del lavoro “da remoto”, induce a ritenere che possano edificarsi, meccanicamente, nuove relazioni e nuove organizzazioni.

È vero l’esatto contrario. Per dirla con Federico Butera, la connessione informatica non genera di per sé la comunità, mentre un’idea di comunità dovrebbe sempre guidare l’applicazione delle tecnologie dell’informazione. L’innovazione, pertanto, presuppone sempre un’attività di rigorosa progettazione (anche relazionale) che riguardando il ridisegno dell’organizzazione del lavoro, si origina, prima di tutto, nel mindset culturale delle persone che operano nell’impresa le quali non si possono limitare ad acquisire o a utilizzare soluzioni tecnologicamente avanzate e dunque solo ad “accogliere” l’innovazione. Quest’ultima implica un profondo impegno per poter generare un reale cambiamento sistemico. Ne consegue che, così come lo SW chiama in causa qualcosa di più complesso della semplice remotizzazione delle attività lavorative, così il cambiamento organizzativo sotteso al reale “lavoro agile” chiama in causa un significativo cambio di paradigma culturale che riguarda manager e collaboratori a ogni livello (non possono darsi smart worker senza smart manager).

Questo ci dice molto anche della necessità di una rinnovata interpretazione della leadership e di come essa debba porsi rispetto a una non meno reinterpretata followership. Da tali premesse diventa allora possibile immaginare il lavoro come un “luogo” nel quale ritrovare anzitutto libertà (intesa come libertà non “dal”, ma “nel” lavoro), ossia come concreta opportunità, per ciascuno, di realizzare una propria dimensione espressiva e dunque anche come partecipazione, capacità di voice e agibilità reale nell’esercizio di crescenti dosi di discrezionalità (e talvolta anche di autonomia) nonché di controllo sui processi operativi e per la realizzazione di “progetti” condivisi. E da qui sarà, altresì, possibile immaginare il lavoro come reale cooperazione e il suo svolgimento come interpretazione di un ruolo anziché come l’esecuzione di mansioni proceduralmente prefissate, con il risultato, motivante e ingaggiante, di avere una vision più chiara del senso del proprio apporto e del disegno complessivo al quale si prende parte.

Le premesse progettuali dello Smart Working

Lo Smart Working non è quindi una profezia che si autoavvera dando luogo, di per sé, a nuovi modelli organizzativi, ma si colloca a valle di un processo che, a monte, presuppone un previo, complesso e complessivo ridisegno dell’impresa.

L’adozione di policy di reale SW farà, allora, parte di un processo più ampio, che avrà riscritto molte delle regole del lavoro in azienda (e tra queste, in prospettiva, anche quelle salariali). Le imprese, dalla loro tradizionale impostazione gerarchico-verticale dovranno favorire e disciplinare relazioni più orizzontali che, pur sempre dotate di un imprescindibile centro decisionale, risulteranno fondate su rapporti maggiormente fiduciari (tra manager e collaboratori), incentrati sulla delega, l’empowerment (individuale e di team), la condivisione di progetti, la cooperazione e la misurazione dei risultati.

Auto-organizzazione, cooperazione e piena partecipazione nel lavoro sono alcune delle caratteristiche dell’autentico SW che ci aiutano a comprendere come esso impatti sull’organizzazione d’impresa e come ridefinisca il rapporto che il singolo ha con l’attività che svolge.

Nella trasformazione del lavoro e dei cicli produttivi, il passaggio dall’esecuzione della prestazione nel pedissequo rispetto di procedure standardizzate all’esecuzione basata sull’apporto delle expertise individuali, agìto nella logica del progetto, del problem solving, dell’innovazione, del miglioramento continuo e del lavoro in team per obiettivi condivisi, dà conto del mutato protagonismo della persona nelle organizzazioni più avanzate e del crescente ruolo del coinvolgimento dei lavoratori. Contesti aziendali nei quali non si sia compiuto un turnaround tecnologico e organizzativo associato al processo di Change Management necessario a introdurre e consolidare una complessiva e solida innovazione (tecnologica, culturale e organizzativa) non potranno dare luogo alla realizzazione né di un reale cambiamento, né di una reale strutturazione del “lavoro agile” che, in assenza di tali premesse, ricadrà all’interno di una dicotomia oscillante tra il perseguimento di finalità genericamente associabili al wellbeing (o al più al welfare aziendale) e i programmi di work-life balance (non a caso, nella confusione attuale, si giunge persino a sostenere la necessità della definizione di un “diritto allo smart working” spesso associato a critiche condizioni personali o familiari che spostano il tema dall’ambito organizzativo a quello assistenziale).

Se l’azienda non evolve in nuove forme organizzative, nessuna reale innovazione sarà possibile. Né innovazione potrà darsi se il ridisegno organizzativo sarà, in realtà, unicamente funzionale a strategie d’intensificazione dei ritmi del lavoro (come una schiera di analisi sul “lavoro da remoto forzato” emergenziale ci ha dimostrato) e alla generazione di saving sulle spese generali (come pure l’attuale fase ci ha già fatto ben comprendere). Né può escludersi che il ricorso opportunistico allo SW possa nascondere, a medio termine, l’ulteriore finalità di tagliare direttamente i costi del personale tramite il definitivo outsourcing di alcune posizioni e ciò secondo il principio: “if you can do your job from anywhere, someone anywhere can do your job” (come ricordava un titolo del Financial Times del 25 marzo scorso).

Relazioni prima che connessioni

Il lavoro, però, ha una sua “topografia” e la stessa suddivisione delle mansioni e il loro coordinamento sono il frutto di un’architettura il cui presupposto è proprio la prossimità tra le persone che in quelle imprese lavorano.

Le aziende sono reti di persone prima di essere reti di connessioni informatiche e sono fatte di relazioni umane che le persone tessono ogni giorno proprio all’interno dei luoghi di lavoro e dalle quali deriva l’accumulazione e l’accrescimento di quel preziosissimo “capitale” immateriale (sociale e umano) la cui preservazione, come il cui sviluppo, rischiano di essere messi a repentaglio da errate impostazioni dello SW. Coglie nel segno un ex sindacalista di lungo corso come Marco Bentivogli quando, nel suo recente libro dedicato allo Smart Working, sottolinea come nel lavoro agile sia ancora più decisiva la relazione, il lavoro di gruppo e la capacità di coordinamento con gli altri. Occorre allora che la governance, il management e l’intera struttura aziendale abbiano previamente condiviso l’utilità della trasformazione organizzativa e quindi ne abbiano fatti propri gli assunti e intuito le potenzialità in vista di un “ritorno” in termini economici e produttivi, oltre che organizzativo-relazionali e individuali (sul piano della dignità, della crescita professionale e della “fioritura” dell’umano).

Si tratta di realizzare una “conversione” culturale tale da giustificare una trasformazione che, volendo fare un paragone chimico, equivale a un “passaggio di stato”: da quello “solido” (staticità, con rigida impostazione verticale e orientamento al solo profitto per gli shareholders) a quello “liquido” (valorizzazione delle capability, dinamiche di partecipazione diretta dei lavoratori, creazione di shared value a partire dal complessivo team di lavoro e apertura agli interessi di tutti gli stakeholder dell’impresa). La sfida riguarderà tutti i modelli organizzativi: non solo quelli aziendali, ma anche quelli delle città e dei territori. Tutto ciò in una prospettiva multidisciplinare che consenta di creare quelle indispensabili framework conditions (servizi pubblici, banda larga, competenze digitali ecc.) capaci di tenere insieme i “pezzi” del mosaico sociale che l’irrompere di un fenomeno, potenzialmente capace di riguardare milioni di lavoratori, certamente farà in parte “saltare”, ma che non si deve perdere l’occasione di poter ricomporre lungo le linee di un disegno collettivo possibilmente più bello.


* Giovanni Scansani è esperto di Welfare Aziendale, docente a contratto presso l’Università Cattolica di Milano e Business&Communication Advisor per Welfare4You Srl

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