Dumping sociale e distacco transnazionale

La forzata convivenza delle direttive europee con una quota fisiologica di dumping sociale, nel rispetto del principio di libera circolazione dei servizi

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Dumping

di Luca Ghellere* |

Per disporre di una nozione di dumping sociale in ambito comunitario è stato necessario attendere il 14 settembre 2016, quando il Parlamento europeo, dopo un impegnativo percorso di negoziazione, ha adottato una risoluzione secondo la quale tale definizione copre “un’ampia gamma di pratiche intenzionalmente abusive e l’elusione della legislazione europea e nazionale vigente (comprese le leggi e i contratti collettivi universalmente applicabili), che permettono lo sviluppo di una concorrenza sleale riducendo illegalmente i costi operativi e legati alla manodopera e danno luogo a violazioni dei diritti dei lavoratori e allo sfruttamento di questi ultimi”.

Si tratta di impieghi illeciti di personale che, in estrema sintesi, impattano su tre fronti principali:

  • l’aspetto economico: l’utilizzo di pratiche illegali e l’abbattimento dei costi che ne deriva, possono comportare gravi distorsioni del mercato e favorire lo sviluppo di una concorrenza sleale, a danno delle imprese che operano nella legalità;
  • l’aspetto sociale: il dumping sociale può determinare situazioni di discriminazione e disparità di trattamento tra i lavoratori dell’UE, con riflessi sia in tema di previdenza sociale che del regime normativo applicabile;
  • l’aspetto finanziario e di bilancio: il mancato pagamento dei contributi previdenziali e delle imposte in conseguenza del dumping sociale, rappresenta una minaccia per la sostenibilità finanziaria dei sistemi di previdenza sociale e delle finanze pubbliche degli Stati membri.

In buona sostanza le pratiche in commento, al maturarsi del mercato globale, ripropongono su diversa scala comportamenti opportunistici ben noti, al fine di abbattere il costo del lavoro mettendo a frutto inferiori livelli retributivi, un regime normativo più fluido e meno gravoso, inferiori oneri previdenziali e moderata imposizione fiscale. Ma come è possibile realizzare dumping sociale nell’Unione Europea, all’interno di un mercato in un primo momento definito comune, quindi unico ed ora interno, ossia nell’ambito di uno spazio dove sarebbe logico attendersi comuni linee di azione per fronteggiare il problema, di supporto ad un’azione coordinata dei singoli Stati?

Se escludiamo pratiche illegali quali il lavoro sommerso o il falso lavoro autonomo, attuabili ovunque, lo strumento principale per realizzare gli abusi in ambito europeo è dato dal distacco transnazionale, in particolare nel caso di utilizzo di personale dipendente proveniente da Paesi con basso costo del lavoro e minori tutele, in Stati dove il costo del lavoro è maggiore e dove le imprese locali sono tenute a garantire complessivamente salari e condizioni di lavoro migliori al proprio personale.

Per disporre di un ordine di grandezza si ricorda come, secondo gli ultimi dati resi disponibili a marzo 2021, nel 2020 il costo orario medio del lavoro in UE è stato di 28,5 euro, i cui estremi sono costituiti dai 6,5 euro della Bulgaria ed i 45,8 euro della Danimarca. Se in alternativa preferiamo considerare il reddito annuo netto di un lavoratore senza figli, la rilevazione media è stata di 24.000 euro, oscillando dai 6.400 euro in Bulgaria fino ai 41.200 euro in Lussemburgo. Da un ulteriore punto di vista, si ritiene utile ricordare anche come gli stessi oneri contributivi possano contribuire alla determinazione del costo del lavoro: il regolamento CE n. 883/2004 consente il mantenimento del regime previdenziale di origine per almeno 24 mesi (c.d. distacco previdenziale). Un aspetto che, in caso di lavoratori distaccati da sistemi sociali meno evoluti, concorre alla determinazione di squilibri economici unitamente agli aspetti retributivi.

Sfruttamento od opportunità di mercato?

L’utilizzo distorto del distacco è reso possibile dal fatto che, nella costituzione dell’Unione Europea, la priorità sia stata data alla costruzione e al rafforzamento del mercato interno, fondato su quattro libertà fondamentali: la libera circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali.

Ma se la UE è stata costruita innanzitutto attraverso la liberalizzazione degli scambi commerciali tra gli Stati membri, secondo una logica evidentemente di ispirazione liberista, le competenze in materia di diritti sociali (leggi previdenza) e in materia di lavoro sono rimaste in capo ai singoli Stati. Questa scelta ha portato Federico Mancini (ndr: accademico e giudice della Corte di Giustizia dell’Unione Europea) con una espressione geniale quanto colorita, a parlare di “frigidità sociale” dei padri fondatori dell’Unione Europea, le cui istituzioni si sono spese con costanza nel tempo per coordinare, ma non armonizzare, sistemi di previdenza molto diversi tra loro. Un’asimmetria tra libertà economiche e diritti sociali che ha incentivato ripieghi protezionistici da parte degli Stati membri e favorito decisioni unilaterali in materia sociale.

Una situazione che comporta altresì notevoli difficoltà di dialogo tra ordinamenti, ossia tra le singole Costituzioni nazionali, che tendono a collocare lo Stato in una posizione di supremazia, e i Trattati europei di stampo liberista, destinati a creare uno spazio retto dalla libera concorrenza in cui lo Stato altro non è che un operatore come gli altri. In tutto questo il distacco transnazionale trova il suo fondamento legale in una delle quattro libertà fondamentali, ossia nella libera circolazione dei servizi ex art. 56 TFUE. Pertanto, nel disciplinare il distacco, nonché le misure di contrasto al dumping sociale, non è possibile prescindere dal diritto delle imprese di prestare attività di servizi transnazionali senza subire ostacoli. Il che conduce alla impossibilità di regolare il distacco transnazionale e i relativi fenomeni di dumping estendendo parità di salario a parità di lavoro. Tutto questo equivale a dire che alle imprese che opereranno nello spazio comune, residuerà sempre una quota di dumping sociale come strumento concorrenziale.

Le direttive europee come strumento di governo

È in questo contesto che vanno considerate le direttive europee, destinate a governare il distacco transnazionale:

  • la Direttiva 96/71/CE (cosiddetta direttiva madre);
  • la Direttiva 2014/67/UE (cosiddetta direttiva Enforcement);
  • la Direttiva (UE) 2018/957.

Si tratta di una politica legislativa per lo meno coerente con l’impostazione generale adottata dove, come già detto, la competenza in tema di lavoro e previdenza è riservata ai singoli Stati.

La direttiva costituisce infatti uno strumento dove il legislatore europeo, nel fissare i principi e gli obiettivi da raggiungere, conferisce al singolo Stato il compito di armonizzare il diritto interno con quello europeo, a mezzo dell’adozione di un provvedimento interno avente forza di legge. Si tratta di un percorso che, inevitabilmente, aggiunge ulteriori elementi di differenziazione in un contesto, come abbiamo visto, già sufficientemente (e volutamente) articolato all’origine. L’approvazione di una direttiva in materia è pertanto un momento cruciale nel percorso di integrazione comunitaria in quanto, nel disciplinare o rinnovare i termini del distacco transnazionale, definisce di fatto la misura di dumping sociale/salariale accettata in un determinato periodo storico.

Detto diversamente, l’adozione di una nuova direttiva stabilisce quanto gli effetti del costo del lavoro sulla libera concorrenza possano partecipare, nella legittimità, al processo di integrazione europeo. Questo perché la sua approvazione cristallizza l’accordo raggiunto tra gli Stati su quali disposizioni del diritto del lavoro nazionale siano applicabili ai lavoratori stranieri in distacco, senza incidere sulla libertà economica dell’impresa distaccante. La direttiva 2018/957 da ultimo citata, recepita in Italia dal D.Lgs. 15 settembre 2020, modificando la direttiva madre nel dichiarato intento di incidere sul dumping sociale, ha avuto un iter di oltre due anni prima di giungere alla sua approvazione, con derive presso la Corte di Giustizia.

Le difficoltà di giungere ad un accordo, in materia di distacco o comunque di politiche antidumping, sono attualmente condizionate dall’apertura ad est dell’Unione Europea avvenuta nel primo decennio degli anni 2000: il cosiddetto “gruppo di Visegrád”, dati gli interessi economici in gioco, ha attuato una risoluta politica di opposizione a provvedimenti antidumping. Una opposizione andata bel oltre l’iter parlamentare, se consideriamo che Ungheria e Polonia (rispettivamente causa C-620/18 e C-626/18) hanno presentato un ricorso presso la Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 263 TFUE, contestando la violazione dei principi del mercato interno disposti dal diritto primario dell’Unione. Se l’approvazione della direttiva è stata possibile grazie alla decisa azione del blocco “storico” degli stati membri, i primi a godere o a subire gli effetti di personale a basso costo nel proprio mercato del lavoro, le pretese di un annullamento totale o parziale della direttiva sono poi state cassate dalla Corte con sentenze entrambe emesse in data 8 dicembre 2020.

Considerazioni finali

In ultima analisi, se da un lato il trend è indubbiamente quello di introdurre misure antidumping sempre più stringenti (a beneficio dei sistemi nazionali socialmente più avanzati), dall’altro lato i principi fondanti tutelati dal TFUE e i profondi squilibri economici e sociali tra gli Stati membri pongono tensioni importanti. Ed è dal superamento di queste che dipende il futuro del modello sociale europeo. Nel mentre, il mondo delle imprese e del lavoro dovrà continuare a confrontarsi con le dinamiche descritte e realizzare tutti gli elementi richiesti per una presenza legittima sul territorio di una diversa nazione a fronte di una missione di lavoro.


* Luca Ghellere è Consulente del Lavoro e asseveratore Asse.Co ed è specializzato in diritto internazionale del lavoro.

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