di Virna Bottarelli |
“Dopo il diploma di scuola superiore mi sono iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza, ma conciliare studio e attività professionistica si è rivelato più difficile del previsto, così ho scelto di dedicarmi esclusivamente alla carriera sportiva. E quella ricevuta dallo sport è stata la formazione migliore che potessi avere per prepararmi alla professione che poi ho scelto di intraprendere”.
Così parla Riccardo Pittis, cestista con alle spalle una carriera ventennale nelle file dell’Olimpia Milano, sua città natale, e Pallacanestro Treviso, squadre delle quali è stato anche capitano e con le quali ha collezionato 708 presenze e più di venti titoli. “Dal basket ho ricevuto tantissimo, non solo soddisfazioni e gratificazioni, ma anche veri e propri insegnamenti. Le dinamiche di team e quelle personali che si sviluppano giocando in una squadra sono le stesse che poi si rivelano utili nella vita privata e professionale, quindi i metodi di leadership, il gioco in team, la capacità di essere flessibili nell’approcciare situazioni diverse, sono tutte ‘lezioni’ che ora propongo, ma che ho appreso in prima persona dalla pallacanestro”.
In che cosa consiste oggi la tua attività e qual è il messaggio principale che veicoli nei tuoi interventi?
Oggi la mia attività si sviluppa in due direzioni: quella di speaker motivazionale e quella di coach. Nel primo caso racconto, alle aziende con cui lavoro, la mia esperienza ventennale da giocatore di basket professionista declinandola, attraverso degli aneddoti, alla vita quotidiana delle aziende stesse. Alla base della “messa a terra” della mia esperienza c’è la convinzione che il mondo dello sport e quello aziendale, così apparentemente diversi e lontani tra loro, abbiano molti punti di contatto e siano accomunati dall’importanza che il fattore umano gioca in entrambi i campi. Credo che quando due o più persone entrano in contatto e sviluppano dinamiche interpersonali, si creino delle relazioni alle quali si possono applicare concetti come motivazione, leadership, gioco di squadra, a prescindere dal contesto specifico nel quale i rapporti nascono. Da otto anni sono poi coach accreditato Icf (International Coach Federation) e svolgo attività di coaching individuale o per gruppi, con la quale accompagno manager, imprenditori e professionisti in un percorso di crescita professionale e personale. È proprio la competenza maturata nell’ambito del coaching, grazie a corsi di formazione specifici che ho seguito negli anni, che mi consente di rendere fruibili per chi mi ascolta le mie esperienze: non mi limito quindi a raccontare aneddoti, ma faccio in modo che le aziende possano trarre da esse un’utilità. I miei interventi si basano sul presupposto che quello che riusciamo a ottenere in termini di risultati dipende sempre da noi stessi. È partendo dall’individuo, dai suoi bisogni, dalle sue motivazioni, capacità e competenze che si riescono a individuare le strade migliori per far sì che gli obiettivi, a livello personale e professionale, siano raggiunti in modo agevole. Il messaggio sul quale insisto è far capire che in ognuno di noi c’è un potenziale enorme, che spesso non viene sfruttato nel migliore dei modi.
Che idea ti sei fatto del mondo delle imprese e del lavoro, da quando ti occupi di formazione?
Lavoro con multinazionali e con aziende di dimensioni più piccole e incontro situazioni diverse, ma c’è un fattore ricorrente: è la difficoltà di capire, in azienda, quali sono i meccanismi migliori per riuscire a fare un ottimo lavoro di squadra. Mentre per chi ha praticato sport si tratta di un passaggio automatico, perché fare squadra fa parte del Dna dello sportivo, per chi non lo ha mai fatto, o non ha mai reputato lo sport uno strumento utile, è più difficile individuare le leve da utilizzare, se si è leader di un gruppo per stimolare le persone a dare il meglio di sé o, se si è parte di un team, per collaborare in modo proficuo.
La professione di speaker ti porta anche nelle scuole? Che cosa ti colpisce quando entri in contatto con questo mondo?
Frequento le scuole perché partecipo a un progetto di Bosch e Randstad intitolato “Allenarsi per il futuro”, concepito per orientare i giovani offrendo loro percorsi di competenze trasversali e opportunità di alternanza scuola-lavoro. Attraverso la metafora dello sport, cerchiamo di trasmettere ai ragazzi quali sono i valori e gli elementi utili che possono servire loro per introdursi in un mondo, quello del lavoro, oggi particolarmente complesso. Il programma è rivolto principalmente ai ragazzi delle scuole superiori, ma ci sono anche incontri con bambini e ragazzi della scuola primaria e secondaria, nei quali la metafora dello sport ci è utile per dare altri spunti, non necessariamente legati al mondo del lavoro, ancora distante dalla realtà di una platea così giovane. Sono sempre positivamente colpito dal fatto che il messaggio dello sport arriva potente anche a ragazzi che non mi conoscono come atleta, perché negli anni Ottanta e Novanta ancora non erano nati: catturare l’attenzione di giovani studenti che vedo ascoltarmi appassionati, desiderosi di recepire il messaggio, è l’aspetto più bello e gratificante di questa attività e dimostra che lo sport è un linguaggio universale, capace di suscitare ammirazione. In negativo, invece, mi colpisce, in alcuni ragazzi, l’incapacità di agire, la mancanza totale di valori, che rispecchia la triste realtà di molti giovani che non fanno nulla, non studiano né lavorano. E in questi casi, in assenza dell’aspetto valoriale, di interessi e ambizioni, è davvero difficile trovare argomenti sui quali fare leva per far sì che i ragazzi trovino delle motivazioni.
Hai parlato di valori: quali sono quelli che dallo sport dovrebbero essere ripresi in ambito professionale?
Innanzitutto, alla base di tutti i nostri comportamenti dovrebbe esserci un’etica che induce ad agire in maniera corretta. È vero, nella realtà non sempre dallo sport arriva questo messaggio, ma è quello sul quale si fonda lo sport sano. Un secondo valore fondamentale è l’impegno: nello sport, come nella vita, si raccoglie ciò che si semina, nulla viene regalato. Dietro al successo di uno sportivo ci sono anni di allenamenti e fatiche. Terzo punto per me irrinunciabile, avendo fatto sport di squadra, è la condivisione: collaborare, aiutarsi e sapersi sacrificare per il prossimo sono elementi imprescindibili.
Un valore importante è anche la capacità di adattamento: nel mondo del lavoro la transizione digitale rischia di lasciare indietro coloro che per svariati motivi faticano più di altri ad adattarsi al “nuovo”. Come si possono motivare queste persone a rimettersi in gioco, a “tornare a imparare”?
Credo lo si possa fare proprio con il coaching, elaborando un percorso in varie fasi: innanzitutto bisogna aiutare queste persone a prendere consapevolezza del fatto che “o si cambia o si muore”. Poi si può avviare una fase di trasformazione, a livello mentale e pratico, arrivando a far fare loro qualcosa che mai avrebbero pensato di riuscire a fare. Certo è importante partire da un presupposto: oggi e in futuro l’unica vera competenza necessaria per riuscire a stare al passo con un mondo che cambia molto rapidamente è quella di imparare e voler imparare. A questa competenza si lega a doppio filo la propensione a cambiare, perché nel momento in cui impari qualcosa di nuovo e capisci che questa tua nuova conoscenza ti è utile, stai già cambiando. Molte aziende hanno e avranno sempre più la necessità di trasferire ai propri collaboratori la capacità di cambiamento e adattamento e proprio nel coaching possono trovare un alleato affidabile.
Chi è Riccardo PittisNato a Milano il 18 dicembre 1968, Riccardo Pittis è il secondo giocatore più vincente nella storia recente del basket italiano. Con l’Olimpia Milano e la Pallacanestro Treviso, squadre delle quali è stato capitano, ha conquistato sette scudetti, sette Coppe Italia, tre Supercoppe Italiane e cinque coppe europee, incluse due Coppe dei Campioni. In Nazionale ha giocato 118 partite, conquistando due argenti agli Europei e un oro ai Giochi del Mediterraneo. A circa trent’anni, a causa di problemi fisici al tendine della mano destra, si è reinventato tiratore “mancino”, cambiando completamente tecnica, ma senza compromettere la propria qualità di gioco. Si è ritirato dall’attività agonistica nel 2004, dopo 20 stagioni in serie A1.
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