Passi avanti con la legge sulla parità salariale

L’Osservatorio JobPricing ha pubblicato uno studio sul Gender Gap nel mercato del lavoro privato italiano: i risultati non sono buoni, ma la nuova legge sulla parità salariale può aiutare

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Parità salariale: prospettive italiane

Dal rapporto annuale sulla parità salariale dell’Osservatorio JobPricing, in collaborazione con Spring Professional e Idem | Mind The Gap, emerge un dato significativo. A parità di lavoro con un collega uomo, in Italia è come se una donna cominciasse a guadagnare dal 7 febbraio.

Per l’anno 2020, l’Osservatorio ha registrato un pay gap, calcolato sulla Ral annuale Full Time Equivalent, dell’11,5%, in crescita di 0,4 punti rispetto al 2019. In generale, il differenziale cresce con il livello di istruzione: è minore per chi ha un diploma di scuola professionale (5,4%) e raggiunge il livello più alto per chi ha un master (46,7%). E più le donne sono avanti con gli anni, più sono svantaggiate: mentre fino ai 24 anni le lavoratrici guadagnano l’1% in più dei colleghi maschi, salendo di età arrivano a guadagnare prima il 30% in meno e poi, oltre i 65 anni, il 36% in meno.

Il problema della parità salariale in Italia

Ciò accade perché le lavoratrici italiane lavorano di meno, hanno caratteristiche professionali peggiori o addirittura meno produttive rispetto agli uomini? O perché sono vittime di discriminazione?

Erica Delugas, economista e Data Manager di JobPricing, si è posta la domanda e vi ha risposto basandosi, appunto, sui dati. “Le nostre stime ci dicono che il differenziale salariale di genere medio sia dovuto interamente a discriminazione. Il pay gap medio corretto sulla Retribuzione Globale Annuale è del 5,6%. Quello che misura la discriminazione è dell’8,1%. La differenza tra i due indica proprio che, in media, le donne, hanno caratteristiche professionali migliori degli uomini e che se avessero le stesse degli uomini sarebbero pagate ancora di meno!”.

C’è poi un’altra questione posta da Tindara Addabbo, presidente del comitato scientifico di Idem. “Imprese e istituzioni sapranno rispondere alla richiesta di una maggiore conoscenza di quanto al loro interno si sia lontani dall’equità di genere, per guidare un processo di riduzione delle diseguaglianze e contrasto alle discriminazioni?”. In questo caso, la risposta deve arrivare, prima ancora che dai dati, da un cambiamento culturale che faccia progredire il nostro Paese, che in termini di gender equality sui luoghi di lavoro è all’ultimo posto nella media europea (dati Accenture).

Cosa può fare la legge

Il percorso è lungo. Si tratta di scardinare aspetti culturali che hanno permeato la società per secoli, ma qualche segnale si intravede e arriva dalle istituzioni. Il 26 ottobre scorso, il Senato ha dato il via libera definitivo alla legge sulla parità salariale. La norma impone alle aziende sopra i 50 dipendenti l’obbligo di compilare un rapporto sulla situazione del personale con diversi indicatori, dai salari agli inquadramenti, dai congedi al reclutamento, in un’ottica di trasparenza e rispetto del principio di parità.

L’elenco delle aziende che trasmetteranno il rapporto, e quello di chi non lo trasmetterà, sarà pubblico. I dati saranno consultabili dai lavoratori, dai sindacati, dagli ispettori del lavoro, dalle consigliere di parità, con sanzioni fino a 5mila euro per mancata o fallace trasmissione dei dati. Il testo, che in sostanza modifica il Codice del 2006 sulle pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo. Istituisce anche la “certificazione della parità di genere”: un sistema per premiare le aziende che si impegnano a ridurre il divario sulle opportunità di carriera, a riequilibrare la retribuzione e ad attuare politiche di gestione delle disuguaglianze di genere e di tutela della maternità.

Meglio tardi che mai, per la parità salariale

Certo, alcune aziende già mettono in pratica questi principi e non c’è da stupirsi se, per le realtà più al passo con i tempi, i segnali che arrivano dalle istituzioni sono positivi ma tardivi. Alessandro Raguseo, Ceo della società di head hunting Reverse, ad esempio, commenta in questa direzione.

“Mi stupisco che nel 2021 sia ancora necessario un dibattito politico per promuovere qualcosa che dovrebbe essere una realtà di fatto già da tempo – spiega -. Un’azienda che voglia essere realmente competitiva oggi, dipende direttamente dal coinvolgimento dei propri dipendenti. Per questo, dovrebbe puntare alla loro realizzazione professionale, personale e familiare basando il trattamento salariale esclusivamente sulla performance e favorire la conciliazione degli orari lavorativi con le esigenze private. Per garantire la convivenza tra un percorso di carriera soddisfacente e aspetti importanti della sfera personale. La gravidanza, ad esempio, in nessun modo dovrebbe rappresentare un rischio per la crescita professionale di una donna”.


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