di Laura Reggiani |
Da sempre attivo nel mondo sindacale, Vincenzo Abbrescia è oggi segretario confederale di UGL e, dallo scorso luglio, anche vice presidente di Fondolavoro, fondo interprofessionale per la formazione continua.
“Ho iniziato ad occuparmi di sindacato dal 1989 all’età di 21 anni, rivestendo una serie di ruoli e soprattutto vivendo, sia come lavoratore che dirigente sindacale, l’evoluzione, e per alcuni versi l’involuzione, del mondo del lavoro. Basti pensare ai processi dovuti alla globalizzazione, alla rivoluzione digitale, all’intelligenza artificiale, alla robotizzazione”. Vincenzo Abbrescia sottolinea che la capacità del sindacato deve essere, oggi più che mai, proprio in considerazione dei cambiamenti radicali già intervenuti e di quelli che ci aspettano, quella di porsi come attore e non come spettatore passivo abbarbicato a vecchi e anacronistici modelli contrattuali o a sterili ideologie.
“Qualsiasi cambiamento è portatore di rischi e timori, ma anche di grandi opportunità. La capacità del sindacato e delle parti sociali, siano esse datoriali o lavorative, deve essere quella di intercettare i cambiamenti e governarli. Se le parti sociali non avranno questa capacità, si riveleranno inadeguate e fallimentari”. In quest’ottica di cambiamento e di opportunità, gli abbiamo chiesto un’opinione in tema di salario minimo, Gig Economy, contrasto alle morti sul lavoro e strumenti utili allo sviluppo occupazionale, a partire dalla formazione.
In tema di cambiamento partiamo dal salario minimo, un tema su cui più volte si è espresso in modo contrario. Quali sono gli strumenti alternativi per garantire ai lavoratori una retribuzione proporzionata e contrastare il dumping salariale?
Ritengo che la discussione sul salario minino in Italia abbia assunto più una matrice “politica/elettorale” che tecnica. Portando i fautori del salario minimo a comparare l’Italia agli altri Stati europei e facendo emergere in questo la “diversità” del nostro Paese, inadempiente, secondo gli stessi favoreggiatori, proprio ad assicurare un salario minimo e in quanto tale verosimilmente dignitoso.
Basti pensare, per un attimo, ai diversi disegni e proposte di Legge presentati da alcuni parlamentari della XVIII legislatura, di prossima scadenza. Alimentando aspettative e confusioni di sorta, si è cercato di portare sempre più in alto il valore economico di un’ora di retribuzione (è significativo che una forza politica abbia proposto 9 euro al lordo degli oneri contributivi e previdenziali e un’altra 9 euro netti, trascurando gli effetti indiretti tra il lordo e il netto!). E paradossalmente facendo emergere, evidentemente con spirito di strumentalità, che le stesse organizzazioni sindacali dei lavoratori non fossero d’accordo ad assicurare a tutti i lavoratori, in Italia, una retribuzione equa e dignitosa.
In tutto questo si è inserita la discussione in ambito Ue relativa alla direttiva sul salario minimo. I cui effetti dovrebbero portare gli Stati membri a “equilibrare” le retribuzioni dei cittadini europei. Ma come sarà possibile conciliare le abissali differenze di retribuzioni a oggi vigenti in un quadro europeo, che di fatto certificano un inconfutabile dumping salariale tra gli Stati membri? Si pensi che attualmente lo stipendio medio in Bulgaria poco più di 300 euro mentre in Lussemburgo va oltre i 2.200 euro. In definitiva, ritengo che l’Italia, proprio per la sua diversità e storicità rispetto ad altre realtà europee, in considerazione dell’applicazione generalizzata del Contratto Collettivo Nazionale per tutti i prestatori subordinati, debba ricercare all’interno della contrattazione collettiva, seppure procedendo a un riordino dei numerosi contratti collettivi oggi esistenti, le leve per assicurare una protezione salariale di maggiore favore. Protezione che passi da una revisione delle retribuzioni oggettivamente più basse, così come da maggiori tutele e interventi per la riduzione della tassazione.
La Gig Economy è al centro dei suoi interessi. Quali sono le tutele garantite oggi a chi opera con le piattaforme digitali? Cosa si può fare ancora in questo senso?
Il mondo del lavoro, da quando “la rete” è diventata accessibile a tutti, ha generato nuove concezioni di lavoro e di professioni. Un cambiamento con tipologie completamente inedite e inimmaginabili sino a qualche decennio fa. Trovando di fatto impreparati a governare tale processo sia il legislatore che le parti sociali. In questo contesto di galoppante digitalizzazione, unito a una crisi mondiale, si è sviluppata l’economia digitale o meglio la cosiddetta Gig Economy.
La concezione del termine “gig” viene ricondotta allo scrittore statunitense Jack Kerouac. Negli anni 50/60 utilizzò questo termine in riferimento a tutti quei lavori che possono essere svolti saltuariamente e non come impiego principale. Invero, in Italia siamo abituati a chiamarlo “lavoretto”. Un’attività – teoricamente – poco impegnativa che non richiede una formazione specifica e che può essere svolta in un ristretto arco temporale. In buona sostanza dei lavori contrapposti a quelli che identifichiamo come “tradizionali”. Nel nostro Paese, al netto di una difficoltà oggettiva nell’individuare la platea dei “gig workers”, si stima che l’economia digitale potrà a breve impegnare oltre un milione di lavoratori.
E proprio in Italia l’attenzione per la Gig Economy si è polarizzata, soprattutto sulla condizione dei lavoratori del “food delivery”. Un acceso dibattito è stato generato per le piattaforme digitali, che organizzano consegne e distribuzione di beni mediante i cosiddetti rider, nel tentativo di dare una risposta univoca alla tipologia e qualificazione del rapporto di lavoro. La domanda quotidianamente riproposta è: come inquadrare i gig worker nel nostro ordinamento giuridico, e nello specifico, nello schema tipico della subordinazione o dell’autonomia? Emerge da subito, se volessimo ricercare la soluzione nell’ambito del nostro Codice Civile, peraltro concepito nel 1942, in una dimensione di rigida dicotomia tra lavoro subordinato (ex art. 2094) e lavoro autonomo (ex art. 2222). Da cui discendono differenti gradi di tutela, in un’epoca dove il lavoro in piattaforma era impensabile per il più fantasioso giurista.
Andremmo ad attorcigliarci in uno sterile e inconcludente dibattito, senza fornire una risposta concreta! Un dato, infatti, è che la realtà del mondo del lavoro, sempre più complessa, richiede una revisione dei confini tra autonomia e subordinazione. E rende l’operazione qualificatoria del rapporto di lavoro ancora più difficile del passato. Oggi abbiamo lavoratori subordinati che diventano progressivamente sempre più autonomi (in termini indicativi si pensi ai lavoratori agili ex D.Lgs. n. 81/2017). E lavoratori autonomi che diventano progressivamente più subordinati (vedi gli autonomi etero organizzati dal committente).
È necessario, pertanto, trovare un equilibrio tra diverse prospettive ed esigenze. Allontanandoci da visioni talvolta “ideologiche” legate a schemi e soluzioni anacronistici. Bisogna prendere atto che le nuove frontiere del diritto del lavoro, e con esse delle relazioni industriali, non possono essere conquistate con i vecchi arnesi del mestiere. Ma è necessario pensare a strumenti innovativi, più avanzati e più funzionali, per l’accesso e la distribuzione delle tutele del lavoro nel mondo che cambia. Su queste basi, la UGL il 15 settembre 2020 ha sottoscritto il primo contratto collettivo nazionale – in Italia e in Europa – per i rider, in un ambito di prestazione lavorativa in autonomia. Riconoscendo una serie di tutele e istituti di sostegno e protezione. Tra queste: definizione del compenso, contrasto al caporalato e lavoro irregolare, coperture assicurative e infortunistiche, formazione, diritti sindacali, maggiorazioni economiche, bonus, ecc.
Cosa si può fare ancora? Ritengo che, piuttosto che interrogarsi sulla qualificazione del rapporto, dibattito ancora oggi persistente, in particolare da parte di alcune parti sociali, bisogna incrementare sostanzialmente la rete dei diritti e delle tutele. E, per l’effetto delle protezioni sociali, proprio attraverso la contrattazione collettiva.
Le morti sul lavoro: evitarle deve essere una priorità assoluta. Quali azioni intraprendere?
Si tratta di uno dei drammi più sconcertanti del nostro tempo. Sostanzialmente il fallimento più pesante della nostra intera società. Come organizzazione sindacale abbiamo iniziato da anni una campagna epigrafata come “Lavorare per Vivere”. Sensibilizzando le istituzioni e il legislatore a ricercare – nell’immediato – strumenti e azioni per interrompere la drammatica media di oltre tre morti al giorno. Significativo, il 3 febbraio 2022, che il Presidente Mattarella, nel suo discorso nell’aula di Montecitorio, ricordando il diciottenne morto a Udine durante uno stage in fabbrica, abbia precisato “mai più tragedie, dignità è azzerare le morti sul lavoro che feriscono la società e la coscienza di ognuno di noi”.
Ritengo che nella ricerca degli strumenti per far fronte a questo dramma, siano primarie la formazione permanente e la cultura della prevenzione e della protezione del lavoro. Come organizzazione sindacale abbiamo più volte presentato iniziative per strutturare ordinariamente la sicurezza del lavoro già nelle scuole. I nostri ragazzi diventeranno, nel futuro, imprenditori e lavoratori. Bisogna pertanto intervenire con processi formativi e informativi, per rafforzare quell’elemento culturale che oggi è carente. Nell’alveo delle proposte è necessario, inoltre, che gli enti ispettivi, in una dimensione preventiva e non repressiva, o postuma agli incidenti, assicurino maggiore controllo e vigilanza.
I giovani e le donne rimangono la fascia di lavoratori più penalizzata, anche a causa della pandemia. Cosa si può fare in questo senso?
Evidentemente, in un sistema sociale e lavorativo già compromesso, gli effetti maggiormente negativi si sono abbattuti sui soggetti più vulnerabili. Il Commissario Europeo al Lavoro, Nicolas Schmit ha avuto modo, qualche settimana fa, di commentare un recente rapporto sul mercato del lavoro nell’UE. L’Italia risulta in fondo alla classifica per l’occupazione dei giovani e delle donne: tali dati accrescono la povertà e l’emarginazione degli stessi giovani e donne.
In realtà, diventa impossibile confutare tale dato considerando che la disoccupazione giovanile in Italia ha superato il 30% (sostanzialmente un giovane su tre è disoccupato). E che, ancora peggio, la percentuale di disoccupazione delle donne tra i 15 e 34 anni prossima al 60%. Ovvero 6 donne su 10 non lavorano e non cercano lavoro. Per affrontare e intervenire su tale problematica, è fondamentale perseguire l’obiettivo di una crescita economica stabile e competitiva. Che abbia come elemento principale la creazione di posti di lavoro e l’inclusione sociale. Bisogna assicurare interventi di sviluppo nelle politiche industriali e di settore che possano facilitare le trasformazioni strutturali. Contribuire a un’economia eco-sostenibile e intraprendere investimenti maggiori nei settori pubblici e privati, con l’imperativo di creare posti di lavoro dignitosi per i giovani e per le donne.
Parlando invece di reskilling e upskilling dei lavoratori, qual è il ruolo dei Fondi Interprofessionali?
Tra i lavori più ricercati che in termini previsionali potremmo o dovremmo avere nel 2030, riscontriamo: addetti all’integrazione con i robot assemblatori, progettisti di eventi virtuali e visite, giuristi specializzati in diritto d’impresa e privacy, tecnici delle macchine a guida autonoma, specialisti di interfacce umane, specialisti di intelligenza artificiale, ingegnere robotico, esperto cybersecurity.
Questo ci fa intendere come cambieranno le attività professionali e la indubbia necessità di un training continuo. Sia dei soggetti datoriali sia dei lavoratori. Ritengo, pertanto, che nessun lavoratore potrà sottrarsi a processi di reskilling o upskilling. Riqualificando e aggiornando le proprie competenze per far fronte alle richieste di mercato. In sostanza, la riqualificazione rende l’organizzazione aziendale e i collaboratori più adattabili ai cambiamenti, favorisce un ambiente incentrato sulla crescita, attrae investimenti e procura una stabilità di sistema.
Il dato che emerge nel nostro Paese è che le grandi e medie imprese hanno una proiezione più avanzata e sensibile ai cambiamenti dell’era digitale. E quindi sono più predisposte a navigare in questo scenario formativo. Mentre le piccole e medie aziende, per non parlare delle micro, hanno resistenze, e talvolta oggettive impossibilità, a investire nel potenziamento e nell’adeguamento professionale dei propri collaboratori. In tale contesto, i fondi interprofessionali, nonostante non possano per limiti legislativi fornire formazione direttamente, possono favorire e veicolare la formazione. Finanziando, senza oneri per le aziende beneficiarie, piani formativi, quindi sostenendo la valorizzazione qualitativa dei lavoratori e delle stesse imprese.
Con quali strumenti Fondolavoro risponde alle esigenze formative delle imprese?
Mi permetta di comunicare un dato certificato. Fondolavoro è, tra i 16 Fondi operativi per i lavoratori dipendenti, quello che ha registrato negli ultimi anni le performance di crescita più elevate. Avendo peraltro avuto la capacità attrattiva di migliorare gli indici di bilancio e di aggregazione, anche durante i complicati periodi di lockdown, in cui alcuni Fondi hanno registrato fisiologici ed evidenti rallentamenti.
I nostri obiettivi sono comunque ancora più sfidanti. L’intero Consiglio di Amministrazione, così come l’Assemblea e i collaboratori, mirano ad avere una presenza sempre più incisiva a favore della formazione continua e professionalizzante. Purtroppo, a distanza di oltre 20 anni dalla normativa costitutiva dei fondi interprofessionali, la Legge 388 del 2000, non si è colta ancora appieno l’importante opportunità. In primis per le aziende e per tutti i soggetti coinvolti nei processi formativi, che proprio i Fondi possono offrire.
Gli elementi distintivi di Fondolavoro sono la facilità di accesso alle informazioni e nella presentazione e gestione dei piani formativi, l’assistenza continua, la professionalità, la serietà e la voglia di crescere. Sono caratteristiche che portano il 100% delle aziende che si relazionano con noi a dichiararsi soddisfatte. Gli strumenti attuali da noi proposti sono il Conto sistema, il Conto individuale e il Conto sistema professionisti. Ci stiamo inoltre proiettando verso i contratti di rete. Questo per migliorare la collaborazione e la cooperazione delle aziende. Verso una capillare attività di promozione e di presentazione, proprio per l’accesso a Fondolavoro.
Elemento di diversità, rispetto agli altri Fondi, è l’impegno a migliorare la flessibilità e la semplicità delle procedure. Intervistando le aziende e gli operatori che si relazionano con i Fondi, abbiamo rilevato, infatti, che la burocrazia e la complessità di accesso alla formazione allontanano, purtroppo, gli enti attuatori e gli enti beneficiari. E proprio in quest’ottica ci contraddistinguiamo per la nostra capacità di essere un Fondo versatile, semplice e affidabile. Altrettanto pronto alle necessità formative, contingenti e strategiche.
In conclusione, quali sono gli obiettivi di Fondolavoro per il prossimo biennio?
L’obiettivo primario si chiama formazione! Obbligatoria o meno, deve essere proiettata a migliorare la capacità e le conoscenze professionali di ogni lavoratore. Le competenze professionali del lavoratore italiano spesso sono obsolete. I modelli tradizionali formativi si sono basati e purtroppo continuano a basarsi, sul concetto della formazione standardizzata e, sovente, limitata alla fase di ingresso al lavoro.
Bisogna abbattere la barriera che vede la formazione come un costo e per alcuni versi un dispendio di tempo dei lavoratori, uscire dai modelli formativi standard e strutturarne di personalizzati, qualificatori, specifici e performanti. Il Paese, le aziende e i lavoratori devono strutturare programmi formativi continui e mirati, per accrescere professionalità e competenze. E, di conseguenza, la competitività delle imprese. Fondolavoro si pone come soggetto proattivo per favorire e implementare l’occupazione e la competitività delle aziende. Per supportare le imprese e i lavoratori nel prepararsi e adattarsi celermente ai cambiamenti di cui abbiamo parlato.
CHI È VINCENZO ABBRESCIANato a Bari, Vincenzo Abbrescia è dal 2018 Segretario Confederale di UGL con delega alle politiche economiche. Dal 2018 si è occupato per conto del sindacato di Gig Economy e di Rider, arrivando a costituire nel 2020 il Sindacato Nazionale UGL Rider, di cui è Segretario Nazionale. Laureato in Giurisprudenza, è esperto in diritto del lavoro, previdenziale, sindacale e sicurezza del lavoro. Collabora all’attività di didattica e di ricerca con docenti universitari. Da sempre attivo nel mondo sindacale, è stato per quasi dieci anni Segretario Generale della sede sindacale UGL di Bari. Nel giugno 2020 è entrato nel Consiglio di Amministrazione di Fondolavoro e nel luglio 2021 ne ha assunto il ruolo di vice presidente. |