di Laura Reggiani |
“Smart Working. Dopo ‘pandemia’, forse il termine più utilizzato dall’irrompere del Covid-19”. Inizia così “Smart Working Reloaded”, libro uscito a gennaio di quest’anno per i tipi di Vita e Pensiero, la casa editrice dell’Università Cattolica di Milano. Ed è qui che insegnano Luca Pesenti, professore associato di sociologia e Giovanni Scansani, docente a contratto, esperto di welfare aziendale e di organizzazione. Sono gli autori del libro da cui abbiamo tratto spunto per questa chiacchierata.
Con loro abbiamo anche colto l’occasione per fare un po’ di chiarezza su un tema oggi centrale per le imprese e intorno al quale negli ultimi tempi si è fatta non poca confusione. Terminologica anzitutto, confondendo il reale “Smart Working” con il “telelavoro forzato” al quale un po’ tutti siamo stati (e in parte siamo ancora) costretti da esigenze di prevenzione sanitaria. Il libro, infatti, non solo chiarisce molto bene questo aspetto, ma apre a formule interpretative che non ammiccano al facile entusiasmo con cui il mainstream ha salutato la remotizzazione del lavoro. Il testo si rivela dunque sicuramente utile ai manager, ai tecnici e agli stessi lavoratori, ma potrà incuriosire anche chiunque voglia capire più in profondità cosa stia accadendo nelle (e fuori dalle) imprese. Andando, come precisa il sottotitolo, “oltre le utopie” nell’intento di “riavvolgere” idealmente il nastro delle molte narrazioni che hanno accompagnato la riflessione su questo argomento. E da qui partiamo.
In cosa si differenzia il vostro libro rispetto ai numerosi testi già disponibili sull’argomento?
Il nostro testo, e non lo diciamo con immodestia, ma perché è un dato oggettivo, è del tutto differente dalla maggior parte dei testi fino ad ora pubblicati. E lo è sin dalle premesse. Siamo infatti partiti con una riflessione che, prima di riguardare la trasformazione del lavoro e delle organizzazioni d’impresa, ha preso le mosse dalla riscoperta del significato stesso che il lavoro deve avere nella vita delle persone e delle aziende. Il vero tema di fondo è, infatti, non già tanto (o solo) dove e come lavorare, ma perché lavorare. Cosa significa e che valori sviluppa o rafforza l’impegno lavorativo nel costrutto individuale.
Da qui poi si deve riflettere sull’impatto che le tecnologie hanno sulla vita di ciascuno e sull’organizzazione delle imprese e quindi sul lavoro. Posto che le dinamiche in atto lo stanno trasformando fino al punto di cambiarne anche la sua stessa antropologia. E così anche guardando più in generale alle città, alle relazioni, alla socialità (pensiamo alla scuola e ai ragazzi!) nel quadro di un “New Normal” che va costruito e non passivamente accolto come un evento mistico di vago sapore “New Age”.
Eppure, sembrerebbe tutto chiaro: più Smart Working, più felicità. Non è così?
Le molte retoriche del “New Normal”, pronte a dipingere anche con un malcelato snobismo un futuro fatto di lavoratori comodamente sdraiati sulle più amene spiagge del pianeta, o più semplicemente ritornati a vivere e lavorare al loro borgo natio, da cui potranno operare affidandosi a un Pc o a uno smartphone (dimenticando le gravi carenze infrastrutturali quanto a fibra e a connessioni veloci) hanno riempito le pagine dei giornali, dei social e di taluni libri. Favorendo “letture” del fenomeno ben lontane dal suo esatto inquadramento.
Proprio per smentire queste e altre utopie, che pure sono state a lungo narrate nel corso di questi ultimi due anni (nei quali – è bene ricordarlo – è andato in scena un “lavoro da remoto forzato” da esigenze di carattere prevenzionale per evitare i contagi, ossia nulla di voluto e tanto meno alcunché di “smart”), offriamo un’ampia disamina di cosa, anzitutto, non possa essere considerato “lavoro agile”. Mettiamo, così, in guardia da quella che abbiamo ribattezzato “Smart Working Euphoria” e sulla cui base sono stati immaginati futuri contesti che ben poco hanno a che fare non solo con le esigenze organizzative del lavoro e delle imprese, ma con le stesse esigenze delle persone. A partire da quelle relazionali tanto nell’ambiente lavorativo, quanto in generale nella propria sfera personale, ora esposta al rischio di tutt’altro che agili “conciliazioni” tra vita e lavoro.
Su questo aspetto il dibattito pubblico ha tralasciato l’esame di molte ricerche che pure ci sono.
Verissimo. Spesso si è trattato di “dimenticanze” volute perché le evidenze della ricerca, quella scientifica e non quella autoreferenziale, ci raccontano di esiti non sempre allineati alle rosee premesse (e promesse) di partenza. Il libro, ci auguriamo, sarà utile alla comprensione del fenomeno proprio perché amplia la riflessione al contenuto delle più importanti ricerche scientifiche nazionali e internazionali che hanno affrontato l’argomento.
Emerge così un panorama che dimostra che ciò che è stato salutato come una “rivoluzione” o come l’avvento, quasi messianico, di un rivolgimento tanto atteso (peraltro dovuto a una tragedia come la pandemia) non è e non sarà “un pranzo di gala”. Perché in gioco ci sono numerose e complesse trasformazioni che riguardano, in primis, lo stesso impianto culturale di manager e lavoratori. Che nell’autentica modalità “agile” di lavorare dovranno trovare equilibri, allo stato attuale del tutto assenti nella maggior parte delle organizzazioni, il cui raggiungimento è però il presupposto perché una reale trasformazione del lavoro possa realizzarsi. Un aiuto per districarsi su questi temi potrà venire anche dalle “case- history” delle importanti aziende che nel libro hanno raccontato la loro esperienza.
La remotizzazione ci ha però dimostrato che la tecnologia per immaginare un lavoro organizzato in maniera diversa c’è e che la sappiamo anche usare. Questo non basta?
I processi trasformativi del lavoro (si pensi a tutto il tema dell’impresa “4.0” e quindi agli ambienti cyber-fisici caratterizzati dall’uso di IoT, IoS, big data, machine learning) e il passaggio da un’esecuzione del lavoro basata su mansioni standardizzate a quella resa sulla base di ruoli agìti dai lavoratori nella pienezza del loro apporto cognitivo ed esperienziale (dalla “manodopera” alla “mentedopera”) sono due dei territori (per lo più inesplorati dalle nostre aziende) sui quali si gioca la futura affermazione di un autentico lavoro che possa dirsi davvero “smart”. In organizzazioni, a loro volta, realmente “agili”.
Questo, ben sapendo che la sola evoluzione tecnologica non basta. Ma che è necessaria un’evoluzione culturale e dunque umana e professionale, che deve partire dagli imprenditori e dai manager, troppo spesso ancora legati agli schemi novecenteschi di un controllo gerarchico. Che non libera le potenzialità soggettive dei singoli, come invece già oggi il lavoro richiede per essere pienamente performante. Ne deriva la necessità di una ricostruzione del quadro progettuale del “lavoro agile”, indicando quali potranno essere i nuovi paradigmi a cui gli stessi “smart worker” dovranno riferirsi per poter pienamente partecipare alla trasformazione in atto. E proprio il tema della partecipazione dei lavoratori all’organizzazione del lavoro sembra essere una chiave di lettura corretta. Posto che il “lavoro agile” – tramite l’accordo individuale che lo istituisce – implica, di per sé, un momento di co-progettazione del lavoro capace di introdurre dinamiche del tutto differenti rispetto all’impostazione tradizionale della subordinazione. Fiducia, responsabilità condivise, delega, empowerment, discrezionalità operativa, cooperazione, focus sui risultati e ridefinizione (in meglio) della stessa struttura retributiva sono allora le reali “linee-guida” del lavoro del terzo millennio.
La rivoluzione, un po’ come il paradiso, può quindi attendere?
Prima di parlare di rivoluzione ricordiamoci sempre che fino all’irrompere della pandemia erano solo 570mila i lavoratori in Smart Working. E questo pur dopo l’entrata in vigore della legge 81 che è del 2017 e nonostante alcune grandi aziende lo avessero introdotto anche prima di quella legge. C’erano quindi quelle iniziali “minoranze profetiche” che sempre ispirano le rivoluzioni, ma fino a prima del “lavoro agile emergenziale” lo Smart Working è evidentemente rimasto una faccenda di nicchia.
Chi invece insiste nel dire che negli ultimi due drammatici anni si sarebbe compiuta una rivoluzione pecca di un certo determinismo un po’ semplicistico, che fa credere che la crisi in corso cambierà le cose e che le cambierà, per forza, in meglio, come se lo Smart Working fosse una profezia capace di autoavverarsi. Un approccio, questo, che deresponsabilizza rispetto alla necessità di progettare i nuovi scenari. Dobbiamo allora evitare di farci guidare da opinioni e “credenze” e dobbiamo invece orientarci saldamente sulle “evidenze”. Intanto usiamo un termine diverso e più realistico: “trasformazione”. Una trasformazione richiede tempo, capacità progettuale, una reale volontà di cambiamento e una sottostante, solida cultura desiderosa di realizzarla.
L’uso del termine Smart Working per definire una soluzione emergenziale (intendiamoci: benedetta, perché comunque ha consentito di conservare molta occupazione e di far andare avanti il lavoro), ma associata a un copia/incolla dell’ufficio passato tale e quale nelle case, un lavoro “appartato” (svolto appunto in “appartamenti”), è il primo fondamentale errore compiuto dal pensiero mainstream. Perché, invece di tenere ben distinto il reale Smart Working, ha favorito la confusione tra una misura di ordine pubblico sanitario ed economico – e che ancora oggi funziona come “vaccino organizzativo” – e il preteso avvenuto compimento di una definitiva trasformazione. Una rivoluzione, per l’appunto. Ora, un conto è dire che la pandemia ha accelerato i processi di trasformazione, un altro è averli voluti, progettati e realizzati. L’augurio è che si possa capitalizzare l’esperienza che abbiamo fatto in questi anni per estrarne sia le indicazioni positive, sia per porre rimedio alle tante criticità riscontrate. Tra queste quella del livello della produttività del lavoro e la condizione di reale benessere delle persone e, in particolare, delle donne lavoratrici.
Queste riflessioni non riguardano, però, solo le imprese, ma coinvolgono questioni più ampie, come quella legata al concetto di “smart city”…
La diffusione su larga scala di questa nuova modalità di lavorare, se non correttamente progettata non solo nel quadro di una complessiva reingegnerizzazione dell’impresa, ma più in generale sul piano delle politiche pubbliche (ambiente, territorio, servizi) potrà comportare rischi non trascurabili. Bon solo per i lavoratori e le stesse aziende, ma anche per altri stakeholder e altri luoghi della vita, a partire proprio dalle città. L’invito è a mettere in campo una visione multidisciplinare. Capace di tenere insieme i pezzi del “mosaico sociale” che la strutturale diffusione di questa modalità organizzativa del lavoro (e della vita) farà certamente in parte “saltare”. Ma che, come ricordiamo nel libro, non si deve perdere l’occasione di poter ricomporre lungo le linee di un disegno possibilmente più bello.
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