In Italia gli uomini inattivi tra i 30 e i 69 anni sono 3,6 milioni. Si tratta del 23% della popolazione maschile in questa fascia d’età, più di 1 su 5.
Un dato decisamente più alto rispetto alla media europea, che si configura come un problema strutturale dovuto a una serie di fattori. Dalla difficoltà di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro al numero di pensionati già a partire dai 50 anni, fino all’alto ricorso alla CIG e alla disoccupazione di lungo termine.
Altrettanto determinanti, il ritardo nella formazione continua e il precariato, che rendono le persone poco occupabili in un contesto di ristagno dell’economia. Questi i temi chiave del rapporto “Le isole degli uomini inattivi” di Randstad Research, che ha tracciato un profilo di queste figure in Italia analizzandone le cause e un possibile futuro.
Chi sono gli uomini inattivi italiani
Il problema colpisce soprattutto il Sud e le Isole, dove il 28,5% degli uomini è inattivo (1,5 milioni). Contro il 19,2% al Nord Ovest, il 19,4% al Nord Est, il 20% al Centro, con una particolare incidenza sui giovani. In sostanza, il 63% degli inattivi tra i 30 e i 34 anni e quasi il 70% degli inattivi tra i 35 e i 39 anni vivono nel Mezzogiorno. Complessivamente, il 43% degli inattivi tra i 30 e i 69 anni è nel Sud e nelle Isole.
Ma quanto, per un uomo, l’inattività è una scelta? 1,2 milioni, il 42% del totale, vorrebbero lavorare ma sono scoraggiati e hanno di fatto rinunciato alla ricerca di un lavoro. Siamo ben oltre la media europea (26%). “I perché vanno ricercati nei tanti ritardi che hanno penalizzato l’economia italiana negli ultimi trent’anni”, spiega Daniele Fano, Coordinatore del Comitato Scientifico Randstad Research. “Oltre al ristagno della produttività e alla mancata espansione dei sistemi di istruzione terziaria e della formazione continua. In quest’ottica il Pnrr potrebbe essere l’occasione per investire veramente sullo sviluppo delle competenze degli inattivi. Da un altro punto di vista, però, proprio le scarse competenze e l’incapacità di espandere le frontiere della coesione sociale rischiano di non farci cogliere queste opportunità”.
Troppi pre-pensionati?
Nella ricerca si evidenzia come uno dei problemi italiani, a cui l’inattività è collegato, è quella della bassa produttività del lavoro e della scarsa crescita economica. A questo si lega anche l’alto numero di pensionati, soprattutto in fasce di popolazione ancora relativamente giovani. Il 16% dei pensionati italiani ha tra i 50 e i 59 anni e un altro 27% ha tra i 60 e i 64 anni. Si tratta molto spesso di persone coinvolte in crisi aziendali, risolte con scivolamenti verso la pensione, anche anticipata. Se si fosse optato per una riconversione professionale, molti di questi uomini avrebbero potuto ancora lavorare.
Politiche attive e formazione
Sul fronte della disoccupazione, l’Italia presenta dati più elevati della media europea. E la disoccupazione di lungo periodo è spesso l’anticamera dell’inattività. I disoccupati, aumentati durante la pandemia, perdono dimestichezza con il lavoro e diventano progressivamente meno occupabili. Inoltre, anche il largo uso fatto della Cassa Integrazione rischia alla lunga di sovvenzionare rapporti di lavoro tenuti in vita solo dai sussidi. Mentre si dovrebbe investire nella formazione dei lavoratori.
Senza considerare il lavoro precario. Secondo l’Istat, tra tempo determinato e part time involontario, oltre il 25% del totale degli occupati risulta in condizioni di insicurezza. Inattività, disoccupazione prolungata, lavoro poco qualificato possono generare la perdita di competenze. Perdita tanto maggiore quanto minore è il livello di conoscenze accumulato in precedenza.
Sul fronte della formazione continua l’Italia ha tassi più bassi della media europea in tutte le classi d’età. Nella fascia 35-44 anni il tasso di partecipazione maschile alla formazione continua è al 6,4%. Contro il 12,4% della Francia e il 10% della Spagna. Nella fascia successiva, dai 45 ai 54, l’Italia si ferma al 5,5%, contro il 10,1% della Francia e l’8,1% della Spagna.
Uomini inattivi: possibili soluzioni
Il mare degli inoccupati esprime un bacino di potenzialità inespresse. Opportunità che si potrebbero cogliere grazie alle occasioni offerte dal Pnrr. Il piano consente infatti investimenti importanti, che potrebbero migliorare le competenze di base, favorire l’accesso qualificato al lavoro con politiche attive e formazione professionale, sviluppando attività innovative.
Secondo gli esperti, occorre un vero e proprio “Piano Marshall” per l’istruzione che colmi i nostri ritardi rispetto al resto dell’Europa. Un salto di qualità che guardi alle politiche in senso ampio, non solo con riferimento al binomio “occupati-disoccupati”. Ma anche con lo sviluppo delle competenze degli inattivi, insieme a quelle dei disoccupati di lungo termine e dei precari.