di Giorgia Andrei |
Qualcosa si sta muovendo in tema di Gender Gap. Lo dimostra l’azione della Commissione europea, che ha elaborato una strategia per la parità di genere con l’obiettivo di compiere progressi significativi entro il 2025 e ha proposto delle misure vincolanti in materia di trasparenza retributiva. Ma anche il Governo italiano, che nel Piano nazionale di Ripresa e Resilienza ha stanziato dieci milioni di euro per istituire un Sistema di certificazioni della parità di genere per le imprese italiane che mettono le donne al centro nella propria organizzazione.
Un segnale positivo è arrivato nel nostro Paese anche con l’entrata in vigore, lo scorso dicembre, della legge sulla parità salariale (legge 5 novembre 2021 n. 162, ndr). Siamo agli inizi, è vero, ma si va concretizzando l’idea che la parità di genere sia una questione sociale, culturale ed educativa e che per rilanciare le nostre imprese e l’intero sistema Paese la componente femminile sia fondamentale. Il messaggio è ribadito anche nel Quarto Rapporto dell’Osservatorio 4.Manager, dal titolo “Superare il Gender Gap: facciamo goal per ripartire”. In oltre 300 pagine, il Rapporto approfondisce il tema della parità di genere in ambito manageriale. Valorizzando i risultati dell’indagine compiuta sulla Community Think4WomenManagerNetwork e analizzando il dibattito svoltosi nel 2021 in decine di ambiti diversi.
Anche il Terzo Rapporto dell’Osservatorio era focalizzato sul contrasto alle disuguaglianze di genere e ne riconosceva “la chiara concretezza economica e sociale”. Con il Quarto Rapporto, l’Osservatorio afferma che “tutto ciò che realizzeremo per conseguire la parità di genere costituirà uno dei pilastri portanti di un nuovo paradigma di sviluppo”.
Un dibattito vivace sul tema
Nel 2021 il tema del Gender Gap ha stimolato interessanti dibattiti in numerosi ambiti e l’Osservatorio, nella stesura del suo Quarto Rapporto, ne ha tenuto conto. Particolare attenzione è stata dedicata allo studio delle implicazioni di genere connesse al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che, coerentemente al programma Next Generation EU, è orientato al recupero di ritardi storici che riguardano le donne. In particolare, la Missione 4 del Piano mira a innalzare il tasso di presa in carico degli asili (nel 2018 era pari ad appena il 14,1 per cento), prevede il potenziamento dei servizi educativi dell’infanzia (3-6 anni) e l’estensione del tempo pieno a scuola. Il Piano investe nelle competenze Stem tra le studentesse delle scuole superiori per migliorare le loro prospettive lavorative e permettere una convergenza dell’Italia rispetto alle medie europee.
Nella Missione 5, invece, è presente uno specifico investimento per sostenere l’imprenditorialità femminile e si prevede l’istituzione di un sistema nazionale di certificazione della parità di genere. La mole di risorse che sarà immessa nel sistema economico dal Pnrr non ha precedenti nella storia Paese, così come non ha precedenti il numero di riforme che ci siamo impegnati a realizzare per migliorare equità, efficienza e competitività entro il 2026. La generazione di nuove competenze e la valorizzazione di quelle esistenti è uno degli obiettivi principali sia del settore pubblico sia di quello privato, ma alla prova dei fatti, solo una quota minoritaria di organizzazioni ha effettivamente attuato piani per l’acquisizione, il coinvolgimento e la fidelizzazione dei talenti, e un numero ancora inferiore ha individuato nelle donne la fonte di queste competenze.
Altre misure per la parità di genere
Secondo il panel dell’Osservatorio 4.Manager, il Pnrr favorirà l’ingresso al lavoro e i percorsi di carriera delle donne manager. Soprattutto per l’incremento della domanda di competenze manageriali. Tuttavia, l’incremento avverrà in modo proporzionalmente inferiore a quello maschile. Sulla parità di genere è stata elaborata anche una Strategia nazionale per il quinquennio 2021-2026. Nella quale sono individuate cinque priorità: lavoro, reddito, competenze, tempo, potere. L’obiettivo è quello di recuperare, entro il 2026 appunto, cinque punti nella classifica del Gender Equality Index, che vede oggi l’Italia al quattordicesimo posto con un punteggio di 63,8 punti su 100. Inferiore di 4,2 punti alla media UE.
Anche il G20 sotto la presidenza italiana ha affrontato il tema del divario nella leadership al femminile. La G20 Alliance for the Empowerment and Progression of Women’s Economic Representation ha stabilito che l’equità, l’uguaglianza di genere e l’emancipazione delle donne e il loro avanzamento a posizioni di leadership devono diventare una priorità strategica e guida per i leader del G20. Garantendo che le donne siano al centro della ripresa post pandemica e che, al pari degli uomini, possano essere motori del cambiamento. Il cosiddetto “G20 Empower” ha individuato tre linee d’azione:
- fissare obiettivi concreti e monitorare i progressi e le tendenze relative all’avanzamento delle donne in ruoli di leadership;
- guardare alle politiche di diversità e inclusione, così come alle pratiche di equità e ai fattori abilitanti come soluzioni per affrontare le barriere sistemiche che limitano l’avanzamento delle donne;
- affrontare le lacune nella disponibilità, nell’adozione e nell’attuazione di programmi volti a fornire alle donne le competenze e le qualifiche necessarie per affrontare e guidare le sfide tecnologiche, di digitalizzazione e di sostenibilità del futuro.
Anche la Cop26 di Glasgow ha affrontato il tema della parità di genere. Le donne svolgono un ruolo fondamentale nella mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici, soprattutto per merito della loro leadership naturale a livello familiare e comunitario. Non a caso la partecipazione strutturata delle donne alle decisioni politiche ha significativamente migliorato l’efficacia dei progetti e delle politiche legate al clima. La Cop26 ha anche rafforzato sia l’impegno internazionale per l’attuazione del piano d’azione di genere concordato alla Cop25, sia le attività preparatorie per la sessantaseiesima sessione della Commissione sulla condizione delle donne, in programma a marzo.
Il divario di genere in ambito manageriale
Le posizioni manageriali femminili sono il 28% del totale. Tale quota si riduce al 18% per le posizioni lavorative regolamentate da un contratto da “dirigente”. È vero che negli ultimi dieci anni la percentuale di dirigenti donne è cresciuta, ma l’incremento è stato, in media, di soli 0,3 punti percentuali per anno. L’analisi condotta su un campione di circa 17mila imprese italiane indica che l’83,5% è a conduzione maschile. Il 12,2% è a conduzione femminile e il restante 4,3% è a conduzione “paritaria”. Le imprese a conduzione femminile più elevata sono Pmi e Microimprese e si concentrano soprattutto al Sud e nelle Isole. È stata analizzata anche la composizione dei ruoli amministrativi apicali e del consiglio di amministrazione. Su 44.236 consiglieri solo il 19% sono donne. La carica di “Presidente” e di “Amministratore delegato” è affidata a una donna solo nel 12% dei casi. Per l’Amministratore unico la percentuale femminile sale al 22,5% per effetto della più ridotta dimensione aziendale.
Questi dati spiegano almeno una quota del divario retributivo di genere che colpisce soprattutto le professioni manageriali. Una quota del divario retributivo di genere è infatti spiegato dalla presenza manageriale femminile in aree aziendali a bassa remunerazione relativa. Mentre nelle aree meglio retribuite (tecnologia, ingegneria, finanza ecc.) la percentuale di manager uomini è molto superiore. Altri elementi noti sono poi l’equilibrio tra lavoro e vita privata, che penalizza le donne manager sulle scelte professionali e di crescita professionale, e “il soffitto di vetro”, ossia la posizione all’interno della gerarchia aziendale. Per invertire la tendenza, secondo i manager e gli imprenditori dell’Expert panel dell’Osservatorio, i temi più urgenti da affrontare e risolvere sono gli stereotipi di genere, il gap retributivo, il basso numero di donne nelle posizioni di potere.
Come agire?
Le soluzioni prospettate ruotano in larga misura intorno a nuovi stili di leadership, nuovi paradigmi organizzativi, people management e welfare aziendale. Più nel dettaglio, si richiede di incrementare la flessibilità lavorativa, facilitare la cura dell’infanzia, migliorare il work-life balance e rispettare la parità nelle procedure di recruiting. C’è poi un altro aspetto di cui tenere conto. Quello della transizione verso nuovi modelli organizzativi, sostenibili e innovativi, che è stata accelerata indubbiamente negli ultimi due anni.
Le imprese italiane si stanno accorgendo che il mix di competenze manageriali necessario a guidare i processi di transizione è ibrido ed è composto da una buona dose di soft skill. Il 34,5% del panel dichiara di avere già adottato misure per la transizione. Il 20,5% di aver inserito nuove figure professionali (tecniche, scientifiche o manageriali) per affrontarla. In quest’ambito, un fenomeno ancora statisticamente irrilevante che tuttavia potrebbe indicare un interessante trend, è la tendenza di alcune aziende a privilegiare “manager della sostenibilità” di genere femminile. Questa figura manageriale “generalista”, e dai contorni ancora non perfettamente delineati, deve possedere un notevole bagaglio di competenze tecniche. Ma anche una dose molto elevata di competenze trasversali, molte delle quali sembrerebbero essere tipiche dei profili manageriali femminili. Sono però ancora molto poche le imprese che si sono cimentate con il tema delle differenze di genere in ambito manageriale.
Parità di genere nei manager: le iniziative
Tra le principali misure adottate dalle imprese italiane che hanno un qualche impatto sulla disparità di genere si osservano: lo Smart Working (45,1%), la flessibilità (32,2%), percorsi formativi di aggiornamento professionale (14,9%) e supporti a servizio della genitorialità (5,9%). Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di iniziative non specificatamente destinate alle donne, ma a tutti i lavoratori.
Per analizzare le misure esplicitamente rivolte ai manager è stato realizzato un monitoraggio continuativo delle best practice che ha coinvolto circa 700 aziende. Le cui attività a favore delle donne manager sono state suddivise in 10 categorie. Solo il 31% delle imprese monitorate ha realizzato almeno una delle attività oggetto di osservazione. Ma fortunatamente il dato è in crescita di quasi 10 punti percentuali rispetto al 2020. Va evidenziato che la maggioranza di queste imprese ha dimensione grande e/o carattere multinazionale. Le aree d’intervento più frequenti sono: genitorialità (15,7%); formazione continua (13,9%); parità dei ruoli apicali (13,0%); parità salariale (8,3%).
Spunti di riflessione
Anche se in teoria tutti riconoscono lo spreco di talenti e competenze che il divario di genere comporta, solo una esigua minoranza di imprese è focalizzata sul talento femminile, e una quota ancora inferiore cerca di valorizzare le competenze manageriali femminili. Questo dato di fatto, soprattutto se letto alla luce del Pnrr e delle trasformazioni in atto, dovrebbe condurre a investire ancora di più negli incentivi per l’assunzione di donne. La legge di bilancio 2021 prevede, infatti, che – in via sperimentale – per le assunzioni di donne svantaggiate effettuate nel biennio 2021-2022 sia riconosciuto alle imprese un esonero contributivo nella misura del 100 per cento nel limite massimo di importo pari a 6.000 euro annui.
L’Osservatorio 4.Manager invita però ad andare oltre. E a favorire non solo l’occupazione di “donne svantaggiate” ma anche quella di donne che hanno scelto di accrescere le proprie competenze in aree nelle quali il mercato del lavoro è particolarmente inefficiente. Si potrebbe, secondo l’Osservatorio, introdurre nel sistema universitario in cui si formano gli aspiranti manager corsi di diversità e inclusione. Destinare a corsi di questo tipo una quota delle risorse dedicate alla formazione aziendale. O, ancora, attivare una maggiore sinergia tra attori pubblici e privati per favorire la prospettiva di genere nella progettazione dei piani previsti dagli enti locali per rispondere al Pnrr.
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