di Cesare Damiano |
All’interno delle politiche europee la questione del salario minimo è stata posta sotto i riflettori ormai da qualche anno. Già il Principio 6 del Pilastro europeo dei diritti sociali (2017) ha difatti sancito la garanzia di salari minimi adeguati ad assicurare un tenore di vita dignitoso ai cittadini europei. La svolta legislativa è poi avvenuta con la presidenza di Ursula von der Leyen che, nell’ottobre 2020, ha presentato la proposta di direttiva sul salario minimo.
Durante la pandemia la proposta ha proseguito – contro molte aspettative – il suo iter di approvazione. Pare, anzi, che l’emergenza sanitaria e la più recente guerra in Ucraina abbiano rappresentato dei propulsori a questa direttiva che, in fin dei conti, persegue lo scopo ultimo di colmare le forti disuguaglianze sociali e reddituali acuite proprio dai drammatici eventi del momento. Basti pensare che il potere d’acquisto dei lavoratori e delle famiglie europee sta subendo dei cali consistenti, la cui portata è particolarmente preoccupante nel nostro Paese. La Fondazione di Dublino rileva infatti che, tra il 2021 e il 2022, il salario minimo reale in Italia è diminuito addirittura del 4%. Limitando fortemente la capacità delle famiglie italiane di fronteggiare il picco d’inflazione cagionato dalla guerra (Eurofound 2022).
Le retribuzioni nel contesto europeo
È in questo contesto che il Parlamento UE e il Consiglio hanno raggiunto, il 6 giugno scorso, l’accordo provvisorio sulla proposta di direttiva. Anzitutto, pare necessario sgomberare il campo da qualsiasi ambiguità suscitata dal nome della direttiva e chiarire che la proposta non impone uno standard europeo di salario minimo e non ricerca l’armonizzazione dei sistemi nazionali di calcolo dei salari legali, laddove esistenti. Anzi, il testo si muove nel pieno rispetto delle tradizioni e delle prassi nazionali, senza imporre l’introduzione del salario minimo legale oppure senza prevedere l’applicazione generale dei contratti collettivi.
Il contesto europeo è in effetti caratterizzato da una consistente disomogeneità regolatoria sulla tutela delle retribuzioni. Come noto, l’Italia è uno dei pochi Paesi a non prevedere il salario minimo legale (insieme a Finlandia, Danimarca, Svezia, Austria e Cipro). Al contempo, pur prevedendolo, gli altri Stati membri hanno stabilito modalità di determinazione differenti e godono di diversi livelli di copertura della contrattazione collettiva. In Francia e in Ungheria, ad esempio, vige il salario minimo legale, ma soltanto nel primo Paese si registra comunque un’elevata copertura contrattuale. La limitata portata dell’intervento trova in realtà una giustificazione di fondo nei limiti di competenza dell’Unione imposti dai Trattati UE. Anzi, a maggior ragione, la “caparbietà” della Commissione europea nel portare avanti la proposta di direttiva si intuisce sin dal tentativo di aggirare l’impossibilità dell’Unione di intervenire direttamente in materia di retribuzioni (art. 153, par. 5, TFUE). Stabilendo come base giuridica l’art. 153, par. 1, lett. b, che permette all’UE di sostenere e completare l’azione degli Stati nel settore delle condizioni di lavoro.
In questo modo, il legislatore europeo cerca di mettersi al riparo dai molteplici detrattori della proposta che annoverano molte organizzazioni sindacali e datoriali giustamente timorose di una compressione sostanziale dell’autonomia collettiva. E infatti non stupisce che l’ostruzionismo provenga, tra gli altri, dai sindacati dei Paesi del Nord Europa, dove il ruolo della contrattazione collettiva è tradizionalmente forte. È altresì importante evidenziare che l’intervento europeo sul salario minimo non ha solo una finalità puramente sociale, ma rappresenta un modo attraverso il quale regolare la concorrenza, o meglio, contrastare le distorsioni del mercato basate sul risparmio sul costo del lavoro (dumping salariale). La proposta stessa, in effetti, evidenzia che la concorrenza nel Mercato Unico deve al contrario essere basata su standard sociali elevati e sull’innovazione (considerando 6).
Salario minimo legale e salario dignitoso
Vale tuttavia la pena scardinare la correlazione diretta, spesso fomentata da posizioni ideologiche e da informazioni mediatiche superficiali, tra salario minimo legale e salario dignitoso. In effetti, come sottolinea la Commissione europea (considerando 11), i minimi salariali statuiti per legge dagli Stati membri spesso non garantiscono un reddito elevato o addirittura sufficiente a superare la soglia di rischio di povertà. Diversamente, all’ampia copertura della contrattazione collettiva corrisponde più frequentemente la riduzione del lavoro pagato poco (Marchal S., 2020).
C’è anche da dire, tuttavia, che nei Paesi in cui i salari sono regolati dalla contrattazione collettiva il rischio di esclusione dalla copertura contrattuale diventa sempre più elevato. In Italia, ad esempio, si aggira attorno al 20% (Inapp, 2019). Al netto però di probabili sottostime causate dal mancato conteggio di alcune categorie di lavoratori. Proprio per questo, la proposta tenta anzitutto di valorizzare il ruolo della contrattazione collettiva nel processo di universalizzazione delle tutele salariali, tant’è che le disposizioni dedicate alla sua promozione sono rivolte a tutti gli Stati membri (art. 4). In particolare, a dir il vero in modo alquanto generico, gli Stati membri sono chiamati ad aumentare la copertura della contrattazione collettiva attraverso una serie di iniziative (art. 4, co. 1). E, in modo un po’ più preciso, a definire un piano d’azione a tal scopo nel caso in cui la copertura sia inferiore all’80% dei lavoratori (art. 4, co. 2).
Se è dunque chiara la “soglia d’allarme” che deve far scattare l’intervento nazionale, è pur vero che la disposizione è talmente “leggera” da non contenere neanche una serie di misure minime atte a costituire questo piano d’azione. Sul punto, comunque, vale la pena precisare che la proposta contiene, come ormai consuetudine, una definizione ampia di “lavoratore” destinatario delle tutele che, secondo l’interpretazione della Corte di giustizia europea, include anche alcune categorie di “atypical workers” (come i lavoratori intermittenti, domestici, su piattaforma, falsi lavoratori autonomi ecc.). Dalla disposizione successiva, la proposta diventa a “doppio canale” perché introduce una serie di disposizioni rivolte esclusivamente agli Stati membri che hanno stabilito un salario minimo legale (Capo II, artt. 5-8). In questa ipotesi, gli Stati devono stabilire “in modo stabile e chiaro” i criteri di determinazione e aggiornamento dei salari minimi legali dovendo necessariamente comprendere quelli elencati all’art. 5: potere d’acquisto dei salari minimi legali; livello generale dei salari lordi e loro distribuzione; tasso di crescita dei salari lordi; andamento della produttività del lavoro. Si tratta di criteri ben noti alle scienze economiche e già utilizzati nelle raccomandazioni semestrali UE ai singoli Paesi.
L’adeguatezza del salario minimo deve altresì essere valutata utilizzando i valori di riferimento indicativi “come quelli comunemente utilizzati a livello internazionale”. Il richiamo implicito è soprattutto all’indice di Kaitz e ai due indicatori canonici ricordati nel considerando 21, ossia il 60% del salario lordo mediano e il 50% del salario lordo medio. Si tratta di indicatori che costituiscono già l’indice Arop (At risk of poverty), acquisito nel regolamento (CE) n. 1177/2003, relativo alle statistiche comunitarie sul reddito e sulle condizioni di vita (EU-SILC). E che tiene conto della povertà relativa riferita ai livelli dei redditi mediani in uno Stato membro. Non rileva, ed è un aspetto assai critico, la povertà assoluta da cui si desume la capacità del soggetto di soddisfare i propri fabbisogni primari. In secondo luogo, la direttiva impone una “stretta” sulle variazioni salariali minime e sulle trattenute, che devono essere limitate, giustificate, proporzionali e non discriminatorie (art. 6). Ad ogni modo, le parti sociali devono essere coinvolte “in maniera tempestiva” ogniqualvolta i salari minimi legali siano determinati, aggiornati e oggetto di variazione (art. 7). Inoltre, la cooperazione delle parti sociali è imposta per l’adozione delle misure di enforcement, a garanzia dell’accesso effettivo dei lavoratori al salario minimo, come il rafforzamento delle attività ispettive e la diffusione delle informazioni al pubblico (art. 8). Seguono poi una serie di misure orizzontali e finali (Capi III e IV).
Salario minimo e ruolo della contrattazione collettiva
Delineando qualche breve considerazione a scenario regolatorio invariato, l’Italia sarà tenuta a rispettare esclusivamente le disposizioni sulla promozione della contrattazione collettiva di cui all’art. 4, par. 1. Al momento, infatti, il nostro Paese non ricade nell’obbligo di adottare un piano d’azione (art. 4, par. 2) visto che il livello nazionale di copertura contrattuale si aggira attorno all’80% (Bergamante et al., 2021). L’elevata copertura, in realtà, è ampiamente sostenuta dalla legislazione nazionale che individua “nella retribuzione di fonte sindacale il parametro esterno idoneo a determinare il trattamento economico minimo spettante al lavoratore” (Proia, 2021), con tanto di sanzioni amministrative e penali. C’è anche da dire, tuttavia, che alcuni lavoratori sono esclusi dal calcolo che determina i livelli di copertura contrattuale. Basti pensare ai falsi lavoratori autonomi oppure, con incidenza maggiore, alla vasta platea dei lavoratori irregolari che operano nel nostro Paese. Si tratta, in fin dei conti, degli stessi lavoratori che rappresentano una fetta consistente di “poor workers”, a causa di salari bassi, di una ridotta intensità lavorativa o di vero e proprio sfruttamento lavorativo.
Insomma, l’attendibilità circa la percentuale di copertura rimane un dilemma, perché rimane il fatto che, al contrario di altri Stati in cui i salari sono regolati dalla contrattazione (ad esempio Danimarca e Svezia), in Italia i contratti collettivi non godono di una applicazione “erga omnes”. Potrebbe per questo essere utile monitorare l’attuazione delle disposizioni orizzontali che, tra le altre cose, impongono agli Stati membri di sviluppare strumenti efficaci di raccolta dati per evidenziare il tasso di copertura della contrattazione collettiva e il livello salariale dei lavoratori non coperti (art. 10, co. 2, lett. b)). Difficile, al riguardo, attuare tale obbligo senza intraprendere una seria riflessione sulla proliferazione della contrattazione collettiva “pirata” nel nostro Paese. Sia perché rende difficile tenere conto dei contratti collettivi vigenti e della copertura sortita, sia perché la “pirateria” contrattuale si fonda soprattutto sul dumping salariale oltreché normativo.
Su questo aspetto, tra l’altro, la direttiva non è particolarmente utile, perché le soglie salariali regolate dai contratti collettivi non sono soggette alla valutazione di adeguatezza come lo sono i salari minimi legali. È pur vero, tuttavia, che l’attuazione della direttiva potrebbe rappresentare l’occasione per intervenire su una serie di versanti. Oltre alla questione spinosa della contrattazione pirata, è infatti necessario affrontare l’urgenza dei rinnovi contrattuali in scadenza così come il tema della revisione dell’indennità di vacanza contrattuale, a oggi così bassa da scoraggiare i rinnovi.
Il contrasto alla povertà lavorativa
Il contesto italiano è attualmente in fermento. Oltre alle diverse proposte presentate in Parlamento, il Ministro del Lavoro ha istituito il Gruppo di lavoro “Interventi e misure di contrasto alla povertà lavorativa”. Che ha ipotizzato di sperimentare la fissazione di un salario minimo legale in quei settori dove si concentrano molti lavoratori con fragilità salariale. Lo stesso Gruppo ha inoltre sollecitato la creazione di sistemi di monitoraggio digitalizzati, a sostegno dell’attività ispettiva, che esperiscano quella “vigilanza documentale” finalizzata a identificare le presunte irregolarità contributive. Si tratta di percorsi regolatori che si pongono a latere della proposta di direttiva, molto meno incisiva, ma in egual modo capace di sollecitare un intenso dibattito sulla opportunità di introdurre o meno il salario minimo legale e, comunque, sulla necessità di innalzare i livelli salariali esistenti per via contrattuale. Le strade da percorrere sono molteplici, senza contare che rimane ancora sul tavolo un intervento d’urto sul cuneo fiscale per abbassare effettivamente la tassazione sul costo del lavoro e accorciare le distanze tra il salario netto e quello lordo.
Rimane il fatto che l’intervento sul salario minimo pare ormai improcrastinabile, anche alla lettura del Rapporto annuale Istat 2022, presentato l’8 luglio scorso, che rappresenta una consistente crescita del lavoro non standard cui sono correlati livelli retributivi mediamente bassi. Nel dettaglio, la combinazione tra bassa retribuzione oraria e contratti di lavoro di breve durata e intensità spinge circa 4 milioni di dipendenti del settore privato al di sotto di una retribuzione teorica lorda annua di 12 mila euro. In buona sostanza, un terzo dei dipendenti ha una retribuzione bassa, soprattutto tra le categorie di lavoratori più vulnerabili (giovani, donne, stranieri). A livello settoriale, l’Istat rileva che la piaga del lavoro povero (e atipico) insiste soprattutto nei servizi, dalle organizzazioni associative alle attività di servizi per la persona, alla riparazione di beni per uso personale e per la casa, ai servizi di supporto alle imprese e di intrattenimento, sino a quelli di alloggio, ristorazione e istruzione privata.
Quelli del Rapporto Istat sono dati preziosi e, viene da dire, suggeriscono al legislatore a partire da quali settori potrebbe avviarsi la sperimentazione del salario minimo legale proposta dal Gruppo di lavoro.
Chi è Cesare DamianoNato a Cuneo nel 1948, è stato Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale nel secondo Governo Prodi ed è ricordato per essere l’artefice del Testo Unico sulla Sicurezza sul Lavoro. Dal 2006 al 2018 è Deputato della Repubblica eletto nelle liste del PD e dal 2013 al 2018 è presidente della Commissione Lavoro della Camera. Cesare Damiano svolge oggi attività di ricerca, formazione e consulenza in materia di sicurezza, diritto del lavoro, politiche dell’occupazione, relazioni industriali, contrattazione collettiva, welfare e previdenza. Ed è presidente dell’associazione Lavoro&Welfare e del Centro Studi Mercato del Lavoro e Contrattazione. È anche componente del Consiglio di Amministrazione di Inail. |