di Mario Pagano |
Alcune recenti prese di posizione della giurisprudenza di merito hanno riacceso l’attenzione verso un tema in parte dimenticato e sottovalutato: le dimissioni del lavoratore.
Il tutto in tempi di crisi economica delle imprese e di difficoltà occupazionale alle quali fa da contraltare la disperata ricerca infruttuosa di operatori, in particolare nel settore turistico, caratterizzato da stagionalità ma non solo. Più in particolare, uno degli aspetti di maggior criticità è rappresentato dalle cosiddette dimissioni per fatti concludenti e il suo rapporto con ulteriori istituti come quello del licenziamento e degli strumenti di integrazione salariale, di sostegno alla disoccupazione.
La disciplina che regola le dimissioni del lavoratore
Prima di prendere in esame la posizione della giurisprudenza, occorre comprendere a pieno quale sia l’attuale quadro normativo e, quindi, la disciplina che regola la procedura di dimissioni del lavoratore. Un adempimento indubbiamente di natura recettizia, ma che in passato richiedeva di norma la forma scritta. Tuttavia, al fine di arginare il triste fenomeno delle cosiddette “dimissioni in bianco”, con l’articolo 1 comma 6 lett. g) della legge 183/2014 il Governo è stato delegato, tra le altre cose, a prevedere modalità semplificate per garantire data certa nonché autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro. Anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore.
Tuttavia, in fase di attuazione della delega, l’art. 26 co. 1 D.Lgs. 14.9.2015 n. 151 ha unicamente previsto che, al di fuori delle ipotesi di cui all’articolo 55, co. 4, del D.Lgs. 151/2001 (dimissioni della lavoratrice durante il periodo di gravidanza o della madre o del padre lavoratore durante i primi tre anni del bambino) le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro fossero fatte, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali attraverso il sito www.lavoro.gov.it e trasmessi al datore di lavoro e all’Ispettorato del Lavoro con le modalità individuate con decreto del Ministro del lavoro (DM 15.12.2015), con possibilità di revoca entro i successivi sette giorni.
Lo stesso articolo 26, nei commi successivi, ha chiarito che la trasmissione dei moduli di dimissioni o risoluzione consensuale può avvenire anche per il tramite dei patronati, delle organizzazioni sindacali, dei consulenti del lavoro, delle sedi territoriali dell’Ispettorato nazionale del lavoro nonché degli enti bilaterali e delle commissioni di certificazione di cui agli articoli 2, co. 1, lettera h), e articolo 76 del D.Lgs. 276/2003. Inoltre, sempre per espressa previsione di legge, la procedura telematica di dimissioni non è prevista per i lavoratori domestici e neppure per i dipendenti pubblici, che possono dimettersi, pertanto, esattamente come le lavoratrici e i lavoratori padri durante i primi tre anni di vita del bambino, secondo il sistema tradizionale, con comunicazione scritta, ricettizia, in carta semplice al datore di lavoro.
La modalità telematica
In buona sostanza, escluse le sopra indicate eccezioni, a partire dal 12 marzo 2016 (data di effettiva operatività delle modalità telematiche) a tutt’oggi, l’unico valido sistema per rassegnare le dimissioni volontarie sembra essere per legge quello telematico. In altre parole, a stretto rigore e in ragione di quanto stabilito dall’articolo 26, qualsiasi altro sistema non dovrebbe avere alcuna efficacia, ivi compreso un comportamento concludente che, nei fatti, esprimesse la volontà di dimettersi. Per quest’ultima ipotesi, considerando che la procedura è prevista a pena di inefficacia delle dimissioni o della risoluzione consensuale, il datore di lavoro, teoricamente, non avrebbe altra soluzione che il licenziamento per assenza ingiustificata. Soluzione che, va ricordato, comporta il versamento del contributo per la risoluzione del rapporto a tempo indeterminato, di cui all’articolo 2 comma 31 della legge 92/2012 (ticket licenziamento).
Il parere della giurisprudenza: qualche caso
Su questo apparentemente chiaro quadro normativo si innestano i punti di vista della giurisprudenza. Un primo intervento degno di nota si ha con la sentenza n. 106/2020 del Tribunale di Udine, secondo la quale il lavoratore che manifesta la volontà di dimettersi, ma non formalizza telematicamente le dimissioni e, non presentandosi più al lavoro, costringe il datore di lavoro a licenziarlo, può essere chiamato a risarcire quest’ultimo delle conseguenti somme versate come ticket licenziamento. Nel caso di specie, esaminato nella sentenza, il lavoratore aveva comunicato al proprio datore di lavoro l’intenzione di rassegnare le dimissioni per problemi personali, chiedendo tuttavia di essere formalmente licenziato dalla società al fine di poter beneficiare del trattamento di Naspi. Di fronte al rifiuto, il lavoratore minacciava di assentarsi dal lavoro, costringendo, così, il datore a un licenziamento per giusta causa.
Il Giudice, al fine di verificare la sussistenza del credito dell’azienda per le spese sostenute in conseguenza del licenziamento, tra le quali anche il ticket, si è interrogato sulla provenienza della volontà risolutiva del rapporto dall’una o dall’altra parte. In tal senso il Tribunale giunge alla conclusione che l’iniziativa di porre fine al rapporto lavorativo era stata presa esclusivamente dal lavoratore, il quale, a fronte del rifiuto oppostogli dal datore, si è in seguito assentato dal lavoro deliberatamente al fine di farsi licenziare. Da ciò deriva, conclude la sentenza, che le spese sostenute dal datore di lavoro per dare involontariamente corso alla decisione di recesso assunta dal lavoratore non possono che essere addossate a quest’ultimo, compreso il ticket per il licenziamento, il quale è, infatti, un onere derivante dalla circostanza che il lavoratore, anziché dimettersi, senza costi per l’azienda, l’ha deliberatamente posta nella necessità di risolvere il rapporto lavorativo.
Più di recente, tuttavia, con sentenza 20/2022, lo stesso Tribunale di Udine ha fatto un passo ulteriore nel proprio ragionamento, arrivando, di fatto, a riproporre la tesi, sostenuta in passato dalla giurisprudenza, ma in vigenza del precedente quadro normativo, circa il valore delle dimissioni per facta concludentia (cfr. Cassazione 9.7.2019 n. 25583). Anche in tale ultimo caso la fattispecie riguarda la condotta di una lavoratrice assentatasi volontariamente da lavoro nonostante ripetuti inviti di parte datoriale a fornire giustificazione e successivamente a rassegnare le proprie dimissioni, mediante le ricordate modalità telematiche. La lettura, attribuita dal Giudice ai fatti in questione, lo porta a ritenere che, pur in difetto di una corretta formalizzazione delle dimissioni, nel comportamento concretamente tenuto dalle parti, l’una nei confronti dell’altra, è chiara ed evidente la sintomatica manifestazione di una reciproca e convergente volontà di non dare più seguito al contratto di lavoro, determinandone così la risoluzione per fatti concludenti. Ad essere valorizzati sono proprio i comportamenti della lavoratrice che, oltre ad assentarsi dal lavoro, aveva più volte esternato la propria intenzione di non tornare a lavorare e, quindi, di non proseguire il proprio rapporto di lavoro. Di fatto, ingenerando nella controparte un valido affidamento di tale volontà dimissionaria.
Particolarmente interessante, proprio in chiave evolutiva dell’orientamento giurisprudenziale, quanto il Tribunale sostiene circa il rapporto tra dimissioni telematiche e, quindi, a forma tipica, e dimissioni per facta concludentia. Secondo il Giudice, essendo rimasta immutata la facoltà di libero recesso prevista dall’art. 2118 Cod. Civ., le dimissioni possono continuare a configurarsi come valide, almeno in ipotesi specifiche, anche per effetto di presupposti diversi da quelli della avvenuta formalizzazione telematica. L’art. 26 del D.Lgs. n. 151/2015, invero, non può che disciplinare, per logica coerenza, la sola eventualità in cui la volontà del lavoratore si concretizzi in una manifestazione istantanea, ove vi è l’esigenza di incardinare la stessa in un atto formale al fine di prevenire ogni tipo di abuso e, in particolare, il fenomeno delle cosiddette “dimissioni in bianco”, al quale la novella aveva inteso porre rimedio.
Si deve ritenere, di contro, che non sia affatto riconducibile all’ambito applicativo dell’esaminato art. 26 il diverso caso in cui la volontà risolutiva del lavoratore dipendente si sia sostanziata in un contegno protrattosi nel tempo e palesatosi in una serie di comportamenti – anche omissivi – idonei ad assicurare un’agevole verifica della sua genuinità. Ma vi è di più. Il Giudice esprime anche una valutazione sui rischi di utilizzare lo strumento del licenziamento per le condotte, di fatto, dimissionarie per fatti concludenti, anche in rapporto alla questione “diritto Naspi”. Muovendo dall’art. 38 della Costituzione, il Tribunale sottolinea come la situazione determinerebbe una ingiusta sottrazione di risorse che, per principio, dovrebbero essere destinate solo a vantaggio di quei lavoratori effettivamente colpiti da disoccupazione involontaria. Da ciò, attraverso un licenziamento strumentalmente sollecitato e, di fatto, indebitamente imposto al datore, si darebbe luogo, a favore del licenziato, a un esborso di provvidenze pubbliche per la tutela di un fittizio stato di disoccupazione, in realtà costituente l’esito di una scelta libera e in alcun modo involontariamente subita dall’ex dipendente.
In conclusione, appare evidente come gli orientamenti della giurisprudenza, se pur non risolutivi, non possono certo essere ignorati. Risulta ormai sempre più necessario per il legislatore, una volta per tutte, dare attuazione piena a ciò che era stato previsto nella delega del 2014, fornendo un’adeguata copertura normativa alle condotte dimissionarie per fatti concludenti. Ciò fornirebbe maggiori certezze ai datori di lavoro nelle fasi di risoluzione dei rapporti di lavoro e garantirebbe risorse di tutela contro la disoccupazione a chi effettivamente versa nelle condizioni previste e secondo lo spirito della normativa che le accorda.
Mario Pagano è collaboratore della Direzione Centrale Coordinamento Giuridico dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Le considerazioni esposte sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.