di Virna Bottarelli |
Paolo Pascucci è professore ordinario di Diritto del lavoro all’Università di Urbino Carlo Bo. Nel suo curriculum spiccano, oltre alle esperienze accademiche, diversi incarichi istituzionali, che lo hanno visto collaborare in qualità di esperto giuslavorista con diversi governi e ministeri e gli hanno consentito di vivere in prima persona i cambiamenti intervenuti nel mondo del lavoro in Italia negli ultimi decenni.
“I modelli di produzione si sono evoluti e con loro sono cambiati il lavoro e le norme che disciplinano i rapporti di lavoro”, dice. “Alcuni periodi storici hanno dato vita a cambiamenti epocali. Gli anni Settanta, con la crisi petrolifera che ebbe ricadute importanti sui livelli occupazionali; la fine degli anni Ottanta, con l’inizio della globalizzazione, che ha esposto le imprese a una concorrenza di scala mondiale; gli anni Duemila, con l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione a definire nuovi modi di lavorare e nuovi profili professionali. In questo percorso storico abbiamo assistito essenzialmente al progressivo declino della fabbrica fordista e all’avvento di un mondo del lavoro che, oggi, è qualcosa di profondamente diverso rispetto al passato. Con forme di lavoro, contratti e profili professionali nuovi”.
Come inquadrare, anche dal punto di vista giuridico, uno scenario così diversificato? Secondo Pascucci dobbiamo chiederci “se le nostre categorie concettuali sono adeguate e sufficienti per un mondo del lavoro così cambiato, nel quale è difficile trovare un modello contrattuale prevalente”. Ma dobbiamo anche “tenere fede a quei principi costituzionali che ci impongono di vigilare sempre sul rispetto dei diritti e sulle condizioni del lavoro stesso”.
Quali sono a suo avviso le principali criticità che andrebbero risolte, oggi, sullo scenario del lavoro nel nostro Paese?
Dobbiamo tenere presente che qualsiasi riforma del diritto del lavoro non può, da sola, risolvere le criticità e che quando si decide di intervenire sul sistema delle tutele lavoristiche occorre prestare molta attenzione, perché il rischio di creare effetti non calcolati e non calcolabili è sempre molto alto. Credo che la questione ancora aperta nel nostro Paese riguardi essenzialmente la definizione e l’adozione di una seria politica industriale. Da tempo se ne avverte la necessità, ma in realtà non si è mai realmente affrontato il problema.
Nello scenario contemporaneo il vero tema è infatti, ancor prima dell’occupazione, l’occupabilità: dove sono oggi le principali prospettive occupazionali? Abbiamo bisogno innanzitutto di una politica industriale che sappia cogliere le opportunità di lavoro offerte dalla transizione ecologica dei nostri sistemi produttivi. E dobbiamo tenere presente che, per quanto cerchiamo di valorizzare e rafforzare il contratto di lavoro a tempo indeterminato, è illusorio pensare di poter tornare al paradigma del secolo scorso, nel quale la regola era la continuità dei rapporti di lavoro lungo l’intera vita lavorativa. I percorsi lavorativi sono diventati frammentati, a volte intermittenti, ed è improbabile che questa tendenza si inverta.
L’imperativo è quindi andare verso il cambiamento. Ma qual è la direzione giusta?
La crescente temporaneità dei contratti di lavoro è un dato di fatto e va affrontata investendo seriamente in due ambiti. Le politiche attive del lavoro, che non devono però essere concepite come una bandiera da sventolare ogni qual volta si cerchi il consenso, e la formazione, che è essa stessa una politica attiva. Occorrono interventi strategici e strutturali che rispondano alla questione più urgente: quella, come dicevo, dell’occupabilità. I lavoratori devono sviluppare competenze professionali che migliorino la loro attitudine a essere occupabili. La materia è complessa e serve un’azione di raccordo tra Stato e Regioni, essendo queste ultime le titolari della formazione professionale.
Qui si gioca a mio avviso la partita, e non tanto nell’adottare provvedimenti di flessibilizzazione dei rapporti di lavoro, come peraltro è già stato fatto senza grandi risultati. Il “teorema” di stampo liberista secondo cui alleggerendo i vincoli in uscita dai rapporti di lavoro si favorirebbero le assunzioni è tutto da dimostrare. Mentre è chiaro che se si rafforza il bagaglio di conoscenze dei lavoratori la loro occupabilità migliora.
La formazione ha ricadute positive anche sulla competitività delle imprese. C’è consapevolezza su questo punto?
Le rispondo facendo riferimento al contratto di apprendistato, che è definito “a causa mista” perché prevede non solo lo scambio tra prestazione lavorativa e retribuzione, ma anche l’obbligo formativo del giovane lavoratore/lavoratrice. C’è sempre stato un dibattito sul sotto-inquadramento retributivo dell’apprendista, che la norma legittima. Secondo alcuni la minore retribuzione del soggetto viene giustificata con il fatto che dovendo lui/lei frequentare corsi di formazione, l’azienda deve sostenere degli oneri, ma a mio avviso è più corretto imputare il sotto-inquadramento retributivo alla minore produttività del lavoratore, in quanto ancora in fase di formazione.
L’impresa, infatti, non ha solo oneri nel formare l’apprendista, ma anche un vero e proprio interesse in tal senso. La formazione deve essere vista come un patrimonio fondamentale del contratto di lavoro. L’impresa che oggi opera in un certo modo, nel prossimo futuro potrebbe dover adottare nuove modalità di lavoro, per questo sarebbe importante formare il personale in modo che sia flessibile, aperto ad apprendere. Estendere l’obbligo di formazione in tutti i rapporti di lavoro, non solo circoscriverlo all’apprendistato, sarebbe la vera rivoluzione copernicana di cui abbiamo bisogno.
Un altro nodo da sciogliere riguarda le pensioni. Qual è la via più sostenibile, a suo avviso, per riformare il sistema pensionistico?
I fattori di cui dovrebbe tenere conto un legislatore previdenziale attento sono diversi: l’allungamento della vita media, che è un dato di fatto, la frammentazione dei contratti di lavoro, che produce carriere previdenziali non lineari, i lavori usuranti. E un concetto di “usura” che va riconsiderato anche alla luce della maggiore attenzione al benessere psico-fisico dei lavoratori.
Non c’è dubbio che siano da caldeggiare interventi che privilegino una certa flessibilità nell’uscita, tenendo conto ovviamente degli oneri, ma sullo sfondo ci si dovrebbe interrogare anche sul ruolo che le persone, una volta terminata la propria vita lavorativa, assumono nella società. Si può valorizzare in qualche modo l’attività di questi cittadini, che, nonostante non siano più nel mondo del lavoro, spesso sono persone ancora valide dal punto di vista fisico e mentale, con un prezioso bagaglio di esperienza? Credo serva una riflessione politica adeguata su questo tema nell’ottica della sostenibilità dell’intero tessuto sociale.
Si è occupato molto di sicurezza sul lavoro: quali sono, ancora oggi, le lacune da colmare per garantire a tutti i lavoratori di operare senza compromettere la propria salute e incolumità?
Bisogna comprendere che il tema della sicurezza sul lavoro è intimamente legato al livello di organizzazione dell’azienda. Purtroppo, in Italia, scontiamo il fatto che, mediamente, le nostre aziende hanno dimensioni molto ridotte e, soprattutto, strutture organizzative non sempre adeguate a gestire la sicurezza sul lavoro. Dati alla mano, incidenti e morti sono maggiori laddove non c’è adeguata organizzazione e sul tema della sicurezza non sono coinvolti tutti i lavoratori.
Del resto, la sicurezza in azienda non può essere improvvisata, non è una questione marginale o un costo da affrontare solo perché in caso di violazioni sono previste delle sanzioni. L’idea della sicurezza dovrebbe essere intimamente connessa all’agire imprenditoriale, così come prevede la nostra stessa Costituzione. Se non si cambia, alla base, la concezione della sicurezza, ponendola in stretta correlazione con l’organizzazione, continueremo ad avere i tre morti al giorno che purtroppo abbiamo registrato anche negli ultimi anni.
Chi è Paolo PascucciNato a Pesaro nel 1954, ha conseguito la laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Urbino e il perfezionamento in Diritto del lavoro e della sicurezza sociale presso l’Università di Bologna. Paolo Pascucci è oggi professore ordinario di Diritto del lavoro nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Urbino Carlo Bo, del quale è stato anche direttore. Ricopre anche il ruolo di presidente della commissione tecnico-scientifica di “Olympus”, Osservatorio per il monitoraggio permanente sulla legislazione e giurisprudenza sulla sicurezza del lavoro, istituito presso la stessa Università. Ha inoltre collaborato con vari Ministeri e con la Commissione di garanzia della legge sullo sciopero nei servizi essenziali. Fra le sue numerose pubblicazioni scientifiche si segnalano quelle su sciopero nei servizi essenziali, sicurezza sul lavoro, retribuzione, mercato del lavoro e formazione. |