Quante e quali iniziative di smart working caratterizzano oggi grandi aziende, Pmi e Pubblica Amministrazione? Come cambiano di conseguenza spazi e strategie? Il lavoro agile può essere sostenibile?
Secondo Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working, “non possiamo tornare indietro e abbiamo due alternative: accontentarci di un lavoro flessibile, visto come pura conciliazione di situazioni contingenti, o proseguire nel profondo ripensamento dei modelli di organizzazione del lavoro. Tutto dipenderà dalle scelte, immediate e concrete, dei prossimi mesi”. Superata la fase emergenziale, è giunta l’ora di definire il modo di lavorare del futuro, con la consapevolezza che nulla ci ricondurrà alla situazione di due anni fa. In questa fase di grande sperimentazione da parte delle aziende, impegnate nell’individuare modelli duraturi di smart working e relativi impatti sul capitale umano, il convegno di presentazione della Ricerca 2022 dell’Osservatorio Smart Working ha racchiuso lo stato dell’arte, le criticità e le tendenze di queste policy.
Lavoro e flessibilità: i driver globali
“Tra i temi centrali della vita delle imprese, oggi, c’è sicuramente lo scontro tra datori di lavoro e dipendenti che chiedono lo smart working”, spiega Umberto Bertelè, chairman degli Osservatori Digital Innovation, nella sua introduzione sui cambiamenti globali in atto. “La problematica verte su tre punti: produttività, relazioni e apprendimento. Il modo di rapportarsi delle nuove generazioni può incidere sul dibattito e cambiare i processi”.
Alla base di questa dinamica c’è sempre la pandemia: professione e sfera privata sono oggi più fluidi, quasi mescolati. Sul lato infrastrutturale e ambientale, non è semplice dimostrare vantaggi e svantaggi dello smart working. Per esempio, l’alternanza del lavoro ibrido porta il trasporto pubblico a definire un’operatività a scarto ridotto, peggiorando il servizio e incentivando l’utilizzo dell’auto di proprietà. Il necessario ripensamento dell’assetto urbano può tuttavia trasformarsi in opportunità. Basti pensare all’ascesa degli spazi di coworking più vicini all’abitazione dei dipendenti.
Come funziona il “vero” smart working?
Prima di comprendere le dimensioni del fenomeno in Italia, gli esperti invitano a riflettere su cosa sia il “vero” smart working, definendolo come “un modello di organizzazione del lavoro basato su flessibilità e autonomia delle persone a fronte di una loro responsabilizzazione sui risultati da raggiungere”. Le forme di flessibilità non si riducono al solo lavoro da remoto, bensì comprendono flessibilità oraria e adozione di una logica di lavoro per obiettivi.
Spesso, tuttavia, nel contesto emergenziale le aziende non hanno impostato un cambiamento così radicale. Proseguire su questa strada significa continuare a confondere il lavoro da remoto con lo smart working, generando impatti negativi anche sul benessere e sul coinvolgimento delle persone. Il futuro presenta l’opportunità di uscire dalla dinamica base puntando su un concetto allargato di flessibilità e sulla digitalizzazione delle attività. Ecco perché documentare il significato del “bivio” a partire dai dati.
La diffusione sul territorio italiano
Nel 2021 in Italia 4 milioni di persone lavoravano in luogo diverso dalla sede aziendale. Nel 2022 i remote worker sono diventati circa 3,5 milioni. La flessione riguarda soprattutto Pmi e PA, mentre si rileva una leggera ma costante crescita nelle grandi imprese che, con 1,84 milioni di persone, contano circa la metà dei lavoratori da remoto.
“Nelle Pmi il calo è dovuto a una cultura organizzativa spesso focalizzata sul controllo della presenza”, spiega Fiorella Crespi, direttrice dell’Osservatorio Smart Working. “A questo si aggiungono la minor necessità di ridurre il pendolarismo e una maggior difficoltà a introdurre modelli flessibili. Nelle PA la decrescita è parzialmente influenzata dalle disposizioni del Governo, che hanno riportato la prestazione in presenza. Per il 2023 emergono previsioni incoraggianti, con il leggero incremento a quota 3,6 milioni di lavoratori da remoto”.
In generale, le grandi imprese si confermano le più orientate allo smart working. La percentuale passa dall’81% del 2021 al 91% del 2022. In giornate di lavoro, una media di 9,5 al mese. Nelle Pmi, che passano dal 53% al 48%, la frequenza di lavoro da remoto si limita a circa 4,5 giorni. Nella Pubblica Amministrazione (in calo da 67% a 57%) prevale un approccio non orientato alla revisione complessiva del modello organizzativo. Qui, le giornate smart sono in media 8 al mese.
Chi sono e come stanno i lavoratori da remoto?
L’Osservatorio li identifica in tre profili:
- on-site worker: persone che operano stabilmente presso la sede di lavoro;
- remote non smart: lavoratori da remoto che non godono di altre forme di flessibilità;
- smart worker: persone che hanno flessibilità di luogo e orario e lavorano per obiettivi.
Analizzando il benessere fisico e relazionale delle 1.000 persone intervistate, emerge che gli smart worker stanno meglio rispetto sia agli on-site worker sia ai lavoratori non smart. Inoltre, il 27% del campione soffre di “tecnostress” derivante dall’uso diretto e indiretto della tecnologia. Mentre il 12% parla di “overworking”, la tendenza a dedicare troppo tempo al lavoro. Paradossalmente, i remote non smart sembrano essere meno impattati da queste criticità, confermando la necessità di ripensare, in meglio, anche le altre due.
“Nel complesso possiamo dire che il telelavoro, se non inserito in una più ampia revisione dei processi, non porta benefici a livello personale e organizzativo”, spiega la ricercatrice dell’Osservatorio Smart Working Dora Caronia. “Certo, tornare a un modello tradizionale on-site può incontrare resistenze, mentre fermarsi a un’applicazione superficiale rischia di peggiorare la situazione anche rispetto al lavoro in presenza. I dati dimostrano che il “vero” smart working va ulteriormente implementato nell’ottica di una maggiore autonomia delle persone, al fine di migliorare produttività e benessere”.
Lo smart working è sostenibile?
Eccoci all’ultimo tassello, quello della sostenibilità ambientale ed economica dello smart working. Partendo dalla seconda voce, i ricercatori presentano alcune simulazioni. Assumendo che le persone lavorino da remoto per due giorni a settimana, la riduzione dei costi di commuting è mediamente pari a 1.000 euro/anno a persona. Risparmio parzialmente compensato dall’aumento dei costi dei consumi domestici: circa 400 euro/anno a persona. In sostanza, un taglio di circa 600 euro/anno per ogni lavoratore da remoto.
Le aziende con dipendenti fuori sede per 2 giorni a settimana riescono invece a ottimizzare gli spazi, riducendo i consumi di circa 500 euro/anno per postazione. Se decidono anche di ridimensionare l’area utilizzata, per esempio del 30%, il risparmio tocca i 2.500 euro/anno per lavoratore. In un momento di tensione economica, questi risparmi potrebbero essere impiegati per sostenere redditività aziendale e potere d’acquisto dei lavoratori.
Interessanti anche gli esempi ambientali. L’applicazione dello smart working potrebbe ridurre le emissioni di CO2 di circa 450 kg annui per persona. Risultato del taglio del commuting (350 kg di CO2 ) e delle minori emissioni nelle sedi (400 kg di CO2 ) al netto di quelle addizionali dovute al lavoro da casa (300 kg di CO2). Considerando i 3.570.000 lavoratori smart di oggi, l’impatto sul sistema-Paese condurrebbe a circa 1.500.000 tonnellate annue di CO2. La quantità assorbita da una superficie boschiva 8 volte più grande di Milano.
“Le organizzazioni devono decidere se fermarsi allo smart working “di facciata”, concedendo il lavoro da remoto con l’unico obiettivo di migliorare il work-life balance, oppure intraprendere un percorso proficuo ma complesso”, conclude Fiorella Crespi. “Quest’ultimo richiede un coinvolgimento più esteso di tutta l’azienda, un approccio manageriale che porti risultati concreti, duraturi e sostenibili nel tempo”.