di Andrea Crocioni e Mauro Meda |
“Sono un imprenditore, appartengo a una famiglia di imprenditori, rappresento la quarta generazione alla guida di un’azienda che ha alle spalle 145 anni storia e che sta iniziando oggi a coinvolgere la quinta generazione”.
Ha voluto presentarsi con queste parole, ancor prima di iniziare la nostra intervista, Gian Domenico Auricchio, Amministratore Delegato della Gennaro Auricchio SpA. Parliamo di un’impresa che ha praticamente attraversato la storia del nostro Paese, dall’Unità a oggi, portando sul mercato prodotti caseari da sempre riconosciuti come sinonimo di eccellenza e di Made in Italy. Dietro alle vicende del provolone più buono del mondo c’è il “Segreto di don Gennaro”, che fonda la sua azienda nel 1877 a San Giuseppe Vesuviano, vicino a Napoli.
Un successo, quello dell’azienda, che ha origine da un’intuizione. “Quella del giovane Auricchio venuto dalla Campania a combattere al Nord durante la Terza Guerra di Indipendenza. Questa esperienza gli ha consentito di conoscere il bacino del latte fra Cremona, Brescia e Verona. Da lì è cominciato tutto”, ci racconta con una punta di orgoglio Gian Domenico Auricchio.
La Gennaro Auricchio è un’azienda leader nel settore caseario con una grande tradizione. Rappresentate un’eccellenza italiana capace di conquistare il mondo. Qual è il fil rouge che lega la vostra storia e vi proietta nel futuro?
Non ho dubbi, il fil rouge è la qualità. Da sempre è un’ossessione della nostra famiglia. Le nostre provole sono sin dall’origine fatte a mano e non è un caso che proprio le mani siano al centro della nostra ultima campagna di comunicazione. Nel tempo abbiamo proseguito su questa strada perché il “fatto a mano” garantisce l’alta qualità dei nostri prodotti.
Avremmo potuto risparmiare sul personale, ma non c’è ancora una macchina che ci soddisfi come le mani del casaro nell’acqua bollente! Questa ossessione per la qualità l’abbiamo applicata anche alle acquisizioni che abbiamo fatto sul mercato. Dai primi anni ’90 a oggi abbiamo rilevato 11 aziende del settore, ben 9 sono state prese fra il 2010 e il 2020, in Italia, ma anche all’estero, facendoci guidare dalla ricerca dell’eccellenza.
Come state affrontando le sfide di uno scenario globale altamente complesso come quello attuale?
Lo facciamo da sempre come una famiglia. Per noi l’azienda è una famiglia. Io sono entrato qui che ancora non ero laureato e fino a qualche anno fa conoscevo il nome di quasi tutti i dipendenti… oggi sono più di 750 e non è così semplice ricordarseli tutti! Noi crediamo profondamente nel legame fra le persone. È la nostra forza e l’abbiamo sempre vissuta come un fattore di competitività. Abbiamo avuto famiglie intere che hanno lavorato con noi.
Tuttavia, è indubbio che in questi anni il livello di complessità del mercato sia cresciuto e rende necessario coinvolgere dei collaboratori presi da fuori, con un alto livello di formazione. I nostri quasi 150 anni di storia sono importanti, ma solo se hai la capacità di continuare a essere competitivo e presente nel futuro, altrimenti rappresentano solo un bell’ornamento. Siamo diventati una realtà articolata, abbiamo tanti dipendenti, un fatturato consolidato di 350 milioni di euro, 9 stabilimenti in Italia e due all’estero: per quanto grande e brava una famiglia possa essere non ce la può fare da sola. Servono collaboratori che troviamo in azienda o sul mercato. Il ricorso a manager preparati è un dovere di qualsiasi imprenditore: un precetto che noi cerchiamo di seguire.
Quali sono gli asset per rendere competitiva l’impresa italiana nel mondo?
La nostra azienda esporta almeno dal 1901, quindi possiamo dire di avere questa attitudine nel DNA. Per esportare, torno a ripetermi, credo che l’elemento chiave sia avere un prodotto di qualità. Però questo non è sufficiente. Serve anche la continuità. La qualità deve diventare uno standard. I mercati esteri premiano la costanza. Da decenni abbiamo clienti che comprano con soddisfazione i nostri prodotti in svariate parti del mondo perché ci riconoscono questa serietà. Questo significa dover dire anche qualche no, per essere coerenti e non tradire la propria missione.
Uno de freni al Made In Italy è la contraffazione che spesso penalizza le nostre produzioni…
L’Italian Sounding nel settore alimentare è un fenomeno noto. Noi stessi abbiamo subito decine di contraffazioni, sia in Italia sia all’estero. Non sempre è possibile difendersi. Però io la voglio vedere in positivo: la contraffazione è un segno del valore del prodotto che viene contraffatto. Nessuno cerca di imitare un prodotto scadente. Ma ci tengo a dire una cosa: il grande danno che ci fanno la contraffazione e l’agropirateria non è solo economico, quello più grave è il danno di immagine.
Succede anche nel nostro settore: la cattiva formazione finisce per allontanare le persone da quella buona…
Assolutamente, funziona proprio così, ne sono fermamente convinto.
I distretti produttivi 2.0 costituiscono uno degli assi portanti della struttura industriale italiana. I caratteri sono l’elevata diffusione di pmi, la forte specializzazione nelle produzioni del Made in Italy, ma anche la stretta relazione con la comunità locale. Quali sono le luci e quali le ombre di un “ecosistema Italia” così strutturato?
Sono un sostenitore dello schema industriale italiano fatto di piccole e piccolissime aziende nell’alimentare. L’industria del food è la più democratica perché è veramente dappertutto. Ci sono zone d’Italia in cui le uniche realtà produttive sono quelle dell’alimentare. Per noi che produciamo DOP e IGP, il legame con il territorio è essenziale. I vantaggi sono evidenti: il prodotto è legato al territorio, controllato, tutelato. L’aspetto problematico riguarda invece la dimensione, anche se negli ultimi anni, grazie alla lungimiranza del sistema camerale italiano nello scovare eccellenze sul territorio, molte piccole e piccolissime aziende si sono affacciate sui mercati internazionali. È determinante l’impegno del Ministero degli Esteri, del Ministero dello Sviluppo Economico e negli ultimi anni soprattutto dell’ICE. Trovo il cambio di denominazione del Mise, diventato Ministero delle Imprese e del Made in Italy, particolarmente significativo, un segnale di grande attenzione verso un asset strategico per il nostro Paese. Il nuovo Ministro Adolfo Urso rappresenta un’ottima scelta, una persona competente che conosce bene il commercio estero, la lotta all’Italian Sounding e alla contraffazione.
È stato per sette anni Presidente delle Camere di Commercio Italiane all’Estero. Quale ruolo hanno avuto queste organizzazioni nel sostegno al Made in Italy in un momento difficile come quello della pandemia?
C’è stato chiaramente un prima e un dopo il Covid. Prima della pandemia la promozione dei prodotti italiani avveniva con la partecipazione a fiere, attraverso l’organizzazione dei testing, presenziando a tutti gli eventi. Quando è scoppiato il Covid eravamo francamente preoccupati per la tenuta del sistema. Ma devo dire che le Camere di Commercio Italiane all’Estero hanno reagito e si sono inventate davvero di tutto: dai webinar fino ad arrivare al delivery, grazie ad accordi con la distribuzione. I frutti di questa accelerazione sul fronte della digitalizzazione, unica conseguenza positiva della pandemia, rappresentano un’eredità destinata a restare nel tempo.
In questo scenario che ruolo dovrà avere la formazione?
Avrà un ruolo sempre più importante, vedo un grandissimo futuro. Proprio la digitalizzazione e la globalizzazione faranno da volano alla formazione. A maggior ragione con le piccole aziende che incominciano a guardare oltre i confini e che hanno la necessità di affrontare normative spesso complesse.
Quali sono le tre sfide che caratterizzeranno l’evoluzione della Gennaro Auricchio nei prossimi anni?
La prima è il pieno inserimento della nuova generazione in azienda. La seconda è il completamento della gamma produttiva. La terza sfida? Oggi presidiamo circa 60 Paesi, nei prossimi anni vogliamo incrementare la presenza del marchio Auricchio in alcuni mercati in cui non siamo mai entrati.
Per concludere, qual è il “segreto” della famiglia Auricchio?
Nella nostra sala riunioni campeggia una scritta in rosso ripresa da un articolo uscito negli anni ’50 sul Borghese, che il giornalista Giovanni Ansaldo aveva scritto per commemorare la figura di mio nonno. Il testo recita più o meno così: “il vero segreto è nella mentalità antica, ma che sempre guarda al futuro, nella costanza e nella serietà”.
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L’intervista è tratta dal numero di settembre-ottobre di FormaFuturi, il magazine di cultura e formazione manageriale di Asfor e Apaform.