Il lavoro agile che verrà

Stiamo assistendo a una vera rivoluzione o si tratta solo di una trasformazione? Il tema è complesso perché riguarda non solo il “dove e quanto” lavorare,ma soprattutto il “perché” lavorare

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Lavoro agile che verrà

di Giovanni Scansani |

La cessazione del regime emergenziale che, a causa dalla pandemia, aveva introdotto il cosiddetto lavoro agile “semplificato” e l’attuale sostanziale ritorno alla sua disciplina ordinaria (1), rendono finalmente lo Smart Working padrone del suo destino.

Quest’ultimo, tuttavia, non è ancora quello di una definitiva e capillare affermazione dell’istituto (che come mostrano alcune stime, tra le quali le recentissime pubblicate da Inapp, è tutt’altro che prossima e anzi sembra accusare una battuta d’arresto. In “smart” ci sarebbe solo un lavoratore su dieci), bensì è quello – prodromico a un tale eventuale successo – della capitalizzazione, da parte di aziende, lavoratori e rappresentanti sindacali, delle numerose esperienze maturate nel “triennio Covid”. E nella loro auspicabile trasformazione in altrettanti “cantieri” di progettazione che siano diretti da quelli che sono stati definiti “gli architetti del nuovo lavoro”. Ossia imprenditori e manager realmente capaci di esprimere nuovi paradigmi destinati a innovare i contesti organizzativi e il vissuto stesso del lavoro nel suo più ampio rapporto con la vita e la realizzazione delle singole persone.

Ripartire dal senso del lavoro

Nel quadro che va delineandosi, la vera questione di fondo è, peraltro, ancora più complessa. Si tratta, infatti, di affrontare un tema che non è solo quello del “dove” lavorare (“senza precisi vincoli di luogo di lavoro” come prevede l’art. 18 della L. 81/2017) e del “quanto” lavorare (“senza precisi vincoli di orario”, come recita la norma appena ricordata alla quale, più recentemente, si sono affiancate anche le sperimentazioni – già in atto in molti Paesi, tra i quali l’Italia – di attività aziendali articolate su quattro giorni nell’ambito delle cosiddette “settimane compresse” (2)), ma anzitutto del “perché” lavorare.

Sempre più in discussione, infatti, è proprio cosa significhi il lavoro per ognuno di noi e quali valori esso sviluppi e possa rafforzare nel costrutto individuale. La possibilità di dare una risposta a una tale domanda implica una scelta tra due opzioni. Quella che predilige una visione del lavoro inteso unicamente come mera relazione economica di tipo prestazionale, oppure quella che del lavoro considera la sua essenziale natura di relazione sociale capace di produrre autentica “fioritura” umana. Atteso che il lavoro rappresenta il modo privilegiato con cui l’umano di ciascuno entra in relazione con l’altrui umanità (il lavoro è sempre svolto per e/o con gli altri).

Da qui, poi, si deve riflettere sugli impatti delle tecnologie rispetto all’organizzazione delle imprese e del lavoro. Posto che le attuali dinamiche stanno trasformando quest’ultimo nella sua stessa antropologia (è il tema, tra gli altri, dello sviluppo dell’AI e delle nuove relazioni tra uomo e macchina nel “Cyber Physical System” che ridisegna l’organizzazione produttiva). Si perviene, così, alla necessità di dover considerare un ulteriore tema, tutt’altro che secondario: quello del “come” lavorare. Perché – “agile” che davvero diventi o “tradizionale” che continui ad essere – il lavoro ci interroga oggi sulla necessità di poter lavorare meglio (piuttosto – od oltre che – di meno e “altrove”) e sulla possibilità della (ri)scoperta di una sua “grande bellezza” (3) che intanto ci è dato di apprezzare se e nella misura in cui il modo con il quale si lavora sia capace di esprimerla.

Le nuove tendenze

Di questa necessità si dice si stiano facendo interpreti numericamente rilevanti quei milioni di lavoratori che nel mondo (e anche qui da noi), stanno animando la “Great Resignation” (più verosimilmente un “Great Reshuffle” liberato dalla fine dell’emergenza pandemica). E coloro i quali vivono tristemente il lavoro sposando la filosofia del “Quiet Quitting” (stadio patologico di un lavoro che di “bello” non ha quasi mai nulla). Come si comprende si tratta di una sfida pluridimensionale, della quale lo smart working è solo un aspetto.

Ed è una sfida epocale che, come tale, riguarda tutti. Non solo manager, imprenditori, lavoratori e rappresentanti sindacali, ciascuno alle prese con non pochi sforzi da affrontare – in primis culturali -, ma anche i decision maker responsabili di scelte che riguardano, oltre che le politiche industriali e del lavoro, anche quelle sociali legate all’infrastrutturazione delle città e dei territori. Alla ridefinizione dei loro tempi e della loro organizzazione sul piano dei servizi e della salvaguardia delle relazioni e delle molte economie che animano il mondo nel quale ciascuno di noi è inserito.

Trasformazione, non (ancora) rivoluzione

Con l’augurabile definitiva cessazione dell’emergenza se ne vanno finalmente in soffitta una buona parte delle narrazioni del mainstream che ci hanno accompagnato nel lungo tunnel della pandemia e che possono ascriversi al più generale fenomeno della “Smart Working Euphoria”.

Queste narrazioni ci avevano avvertito che l’irrompere del Covid-19 era portatore, quanto all’organizzazione del lavoro e alla sua relazione con la vita di ciascuno, di novità tutte invariabilmente sempre positive (meno stress, meno inquinamento, più tempo per sé e per gli affetti familiari). Dal punto di vista dell’innovazione del lavoro la pandemia era il booster di una vera e propria rivoluzione che, da tempo, attendeva di potersi realizzare e che adesso, finalmente, poteva dirsi compiuta (4). In realtà, nelle aziende ciò che è accaduto (e sta accadendo) non è ancora una rivoluzione, ma semmai – e non è certo poco – è l’effetto di una potente accelerazione di quelle profonde modificazioni che devono inquadrarsi in quella più generale “Grande Trasformazione” del lavoro i cui segnali erano, peraltro, ben antecedenti all’arrivo della pandemia.

Che si tratti di una trasformazione e non (ancora) di una rivoluzione ce lo dice anche l’evoluzione delle descrizioni che sono state date allo smart working proprio in questo complicato ultimo periodo (nel quale di smart, almeno fino a tutto il 2021, c’è stato davvero molto poco). Per fare un po’ d’ordine sul piano terminologico possiamo allora ricordare che, anziché protagonisti di una rivoluzione, inizialmente siamo stati catapultati in una fase di lavoro semplicemente remotizzato, appartato (svolto, infatti, per lo più in appartamenti), improvviso (e spesso improvvisato) e soprattutto “forzato e di massa”. Ossia privo di quasi tutti i requisiti del reale smart working, primo dei quali la volontarietà della sua adozione in forza di un libero accordo tra azienda e singolo lavoratore, a sua volta frutto (nei casi all’avanguardia) di un previo processo di riprogettazione organizzativa.

La condizione coatta del lavoro da remoto emergenziale lo rendeva, poi, del tutto incapace di conseguire le finalità stesse del lavoro agile. La remotizzazione è stata un “vaccino organizzativo” (coerente con le necessità di “distanziamento sociale” e di salvaguardia delle attività aziendali e dei posti di lavoro). Il quale non ha generato maggiore produttività, non ha condotto a una migliore armonizzazione dei tempi e degli spazi privati con quelli professionali (anzi, ha spesso causato “work-life imbalance” e la diffusione di non poche criticità, anche di tipo psico-sociale: techno-stress e burnout) e men che meno ha avuto l’effetto di accrescere diffusamente la competitività delle imprese.

Verso la “new way of working”

All’esito di quanto accaduto durante quello che si è poi rivelato essere anche un planetario esperimento di massa e fatte le debite (e pochissime) eccezioni di aziende che erano, già da tempo, avviate lungo percorsi di innovazione organizzativa e di autentico smart working (sono quelle che sono potute passare, già nel 2020, dall’analogico al digitale su larga scala e in “tempo zero”), oggi ci troviamo in una fase di diffusione del cd. lavoro “ibrido”. Per certo liberamente organizzato sulla base di accordi individuali (spesso frutto anche di preliminari ed opportune contrattazioni collettive di secondo livello), ma tuttavia ancora e con una certa frequenza associato a modalità applicative che non si sono affrancate dall’impostazione tradizionale dell’organizzazione del lavoro. Ne consegue che non siamo ancora diffusamente giunti al lavoro agile propriamente detto, ossia quello che autenticamente possa dirsi tale (5).

Ma se la rivoluzione può attendere, la trasformazione certamente no. È dunque solo adesso che si dà l’occasione per una svolta la cui capacità d’innovazione sarà il tempo a restituirci nella sua esatta portata. Ciò tenendo conto che è proprio di tempo che si necessita nelle imprese perché vi si possano disegnare e poi far sedimentare quei mutamenti dei paradigmi manageriali ed organizzativi che potranno consentire di realizzare le premesse (e le molte promesse) di una “new way of working”.

Lavoro agile: a che punto siamo?

L’ultimo Report dello scorso ottobre dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano non manca di evidenziare quanto sia doveroso riflettere su cosa sia il reale lavoro agile. Posto che la maggioranza delle aziende – nonostante l’esperienza maturata durante la pandemia – “non [ha] impostato un cambiamento così profondo e radicale” e che “proseguire su questa strada significa continuare a confondere il lavoro da remoto con il ‘vero’ Smart Working”.

Nel frattempo, però, i numeri elitari ante-Covid si sono fatti decisamente diversi. Tralasciando le dimensioni della fase coatta della remotizzazione (le stime oscillavano tra i 4 e gli 8 milioni di lavoratori coinvolti), il Report prevede per il 2023 una platea di 2,950 milioni di lavoratori “agili” impiegati in aziende private e 680mila nelle Pubbliche Amministrazioni. Totale: 3,630 milioni di lavoratori. Un bel po’, ma stupisce (o potrebbe anche non stupire) un altro fatto. Rispetto al 2022, il Report annuncia per il 2023 una crescita numerica di sole 60mila unità (un modesto +1,68%). Segno evidente che, pur essendo decisamente cambiato lo scenario, la propensione alla diffusione dello smart working, almeno al momento, avrebbe trovato il suo “intorno” tra i 3 e i 4 milioni di addetti. Molti, ma pur sempre una minoranza rispetto al numero complessivo dei lavoratori dipendenti: 18 milioni.

È peraltro possibile che questa modesta crescita di un lavoro ancora solo “ibrido” più che realmente smart sia una fase di consolidamento (di “accumulo”, si direbbe in Borsa) dalla quale poi ripartire con nuovo slancio. Stavolta non più causato dalla contingenza di una tragedia, ma dalla libera decisione delle parti di innovare (realmente) le organizzazioni aziendali ed il lavoro che vi si svolge. In questa fase, quindi, il molto lavoro “ibrido” che caratterizza le condizioni nelle quali, in maniera spesso a-tecnica, si continua a parlare di lavoro agile (gli accordi fanno frequente riferimento a giornate prefissate nel loro numero massimo, settimanale o mensile, a fasce orarie coincidenti con quelle del lavoro di sede e tradiscono il permanere di procedure tipiche del lavoro as usual, sia ora pure reso “altrove”) potrebbe, nondimeno, essere l’anticamera per successive più ardite evoluzioni.

Molte le best practice

A trainare un trend di questa natura potranno essere le best practice che pure non mancano. Per quanto qualsiasi tema organizzativo (e tanto più quello del lavoro agile) non possa ovviamente adattarsi ad alcuna one best way perché ogni azienda è un mondo a sé stante che deve sempre definire una sua specifica soluzione.

Tra i casi più interessanti e innovativi cui guardare si può citare lo “Smart Working super-flessibile” di ING Bank, un raro caso di coniugazione del lavoro agile con la metodologia organizzativa “Agile” che, in precedenza, era già stata introdotta in azienda, o il “Fab Working” di Nestlè (l’acronimo sta per “Flessibile, Adattabile e Bilanciato”). Ancora, l’accordo collettivo “New Way of Working” di Enel, con il quale si realizza un nuovo sistema di lavoro(6) nel quale trovano ingresso anche nuove e più efficaci modalità di valorizzazione economica dell’efficienza e della produttività. E, infine, l’esperienza del Gruppo Veritas che ha articolato lo smart working in tre distinte formule operative. Dando così vita a specifiche modalità “agili” di esecuzione della prestazione lavorativa che tengono conto della preminenza di esigenze di conciliazione o di tipo professionale rispetto all’esecuzione delle singole attività.

La storia, però, ci consegna anche qualche insuccesso e qualche grande ripensamento. Sono a tutti ben noti i casi di alcune Big-Tech americane, dapprima lanciatissime verso formule di Wfh (Working from home) anche “forever” e poi tornate sui loro passi (come Twitter con i diktat di Elon Musk, ma anche Apple, Google e altre). Anche da noi alcune esperienze innovative non hanno superato la prova pratica: è il caso dell’accordo interconfederale “For Working” con il quale, nel settore chimico-farmaceutico, si diceva addio alla classica giornata di lavoro. Questo accordo doveva trasferire i suoi effetti nel nuovo Ccnl, ma non è stato recepito.

Nella conclusiva parte di questo intervento, che verrà pubblicata sul prossimo numero della rivista, l’attenzione si focalizzerà sulla natura delle trasformazioni organizzative in atto. Nelle quali lo smart working si trova inserito e sul ruolo essenziale che dovrà assumere la partecipazione dei lavoratori nella (e per la) riuscita di queste trasformazioni. Ciò sulla premessa che, senza la condivisione dei progetti di ridefinizione dell’organizzazione del lavoro da parte di coloro che li dovranno animare e portare a compimento, è impossibile immaginare che si possano davvero realizzare reali trasformazioni. Più in generale, diventa improbabile cogliere appieno le potenzialità dell’evoluzione tecnologica che di quelle trasformazioni è uno dei pilastri.

NOTE DELL’AUTORE

(1) Ora contenuta – oltre che nella legge 81/2017 – anche nel “Protocollo” del 7 dicembre 2021 (per il lavoro privato) e nelle “Linee-guida” del 30 novembre 2021 (per il pubblico impiego).

(2) Tutta da verificare la reale portata di questa novità che, però, potrebbe avere una maggiore capacità di armonizzazione dei tempi vita e di lavoro anche per la sua minore “intermittenza” rispetto all’in-out dagli uffici per due o tre giorni alla settimana (come accade nella maggior parte degli attuali casi di lavoro “ibrido”). Questa formula di compressione delle giornate di lavoro sembra poi porsi, in qualche misura, persino in concorrenza con lo smart working, tant’è che in qualche azienda si parla già apertamente di “smart week”.

(3) Il riferimento è al recente articolo di Giuseppe Soda, Sociologo dell’Università Bocconi, intitolato “Non dimentichiamo la grande bellezza del lavoro”, L’Economia del Corriere della Sera, 16 gennaio 2023.

(4) Non va dimenticato che prima della pandemia e pur dopo alcuni anni non solo dalla pubblicazione della legge 81/2017, ma anche dall’avvio di talune pionieristiche esperienze aziendali antecedenti quella stessa disciplina (si pensi agli accordi Nestlè Italia del 2012, Axa del 2016, Enel del 2017, per fare alcuni esempi), il complessivo numero di lavoratori “smart” si limitava ad un’élite di soli 570mila addetti (fonte: Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano), segno evidente che, intorno al lavoro agile, non sussisteva (sino a tutto l’inizio del 2020) alcuna diffusa cultura organizzativa capace di assicurarne una vasta applicazione. Illusorio quindi credere che, nel pieno della pandemia e della sua lunga emergenza, una tale cultura possa essersi formata e possa esser stata condivisa, accettata ed applicata. E soprattutto che possa aver modificato sistemi e organizzazioni di lavoro che si sono creati lungo il corso di una storia plurisecolare.

(5) Per una comprensione dei necessari presupposti generali, delle premesse culturali e della complessità progettuali che nel loro insieme qualificano il lavoro agile autentico sia consentito rimandare a: Luca Pesenti, Giovanni Scansani, “Smart Working Reloaded. Una nuova organizzazione del lavoro oltre le utopie”, Vita e Pensiero, 2021.

(6) Pilastro di tale nuovo sistema è lo “Statuto della Persona” (29 marzo 2022) la cui prima preoccupazione è quella di porre le basi per “Benessere, partecipazione e produttività”.


L’autore dell’articolo, Giovanni Scansani, è Corporate Welfare Advisor e docente a contratto presso l’Università Cattolica di Milano.

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