di Romano Benini |
La legge istitutiva del Reddito di Cittadinanza ha definito questa misura come lo strumento nazionale di riferimento per il contrasto alla povertà, che agisce attraverso due leve tra loro collegate: l’erogazione di un sussidio per garantire il sostegno economico e la partecipazione a misure di politica attiva.
Questi obiettivi tra loro connessi non sono stati in realtà raggiunti, anche per via dell’impostazione stessa della misura, che è riuscita a stimolare poco l’attivazione al lavoro dei soggetti occupabili. A più di tre anni dall’avvio del Reddito di Cittadinanza si è evidenziata, quindi, la necessità di cambiarlo attraverso la promozione di uno strumento nuovo che risponda a una strategia complessiva di promozione dell’autonomia delle persone e delle famiglie in condizione di povertà assoluta. Al di là delle posizioni e delle opinioni diverse sulle politiche da adottare, è sempre importante verificare il reale impatto degli interventi, soprattutto rispetto agli obiettivi degli stessi decisori politici che li hanno voluti e promossi.
Come è andato il RdC?
Per quanto riguarda la riforma che nel 2019 ha avviato il Reddito di Cittadinanza, è il caso di considerare come questo intervento non abbia funzionato adeguatamente come misura di riferimento per il contrasto alla povertà. In quanto ha agito soprattutto come un limitato sussidio di natura assistenziale, in particolare durante il periodo della pandemia, in un contesto in cui complessivamente il livello di povertà in Italia comunque è cresciuto. In questo senso, come politica di inclusione sociale, lo strumento non è uscito dai limiti definiti dalla stessa natura assistenziale dell’intervento e non ha determinato una adeguata connessione con una più ampia strategia contro la povertà e la disuguaglianza.
In questi anni la povertà in Italia è cresciuta soprattutto al Sud e nelle famiglie con più figli a carico. E in questo senso l’impatto del Reddito di Cittadinanza, che non premia il carico famigliare, è apparso inadeguato anche per l’aspetto di inclusione e sostegno ai “care giver”. L’intervento non ha soprattutto funzionato come misura di politica attiva in quanto, nonostante l’assunzione a supporto dei tremila “navigator”, non ha determinato una attivazione significativa dei percettori tale da intervenire per il superamento della condizione di povertà.
Solo alla fine del 2022, in ragione delle indicazioni del programma Gol, si è avviato sul territorio nazionale un percorso di attivazione destinato ai percettori del reddito. In ogni caso la regola dei tre rifiuti della possibile proposta di lavoro evidenzia come l’impianto della misura originaria non fosse mirato alla priorità dell’inserimento al lavoro come obiettivo per dare autonomia alle persone beneficiarie. Va poi considerato il tema della governance: l’attuazione del Reddito di Cittadinanza non è stata accompagnata dal necessario coordinamento con le politiche attive regionali, dal potenziamento dei servizi per l’impiego, dal coinvolgimento delle agenzie per il lavoro accreditate, dalla creazione di una adeguata infrastruttura di riferimento e da una piattaforma digitale, e solo da alcuni mesi, con la messa a sistema del programma Gol, si sta avviando questo percorso.
L’impostazione dell’intervento del Reddito di Cittadinanza ha poi determinato diversi fenomeni di distorsione, che dipendono anche dalle caratteristiche stesse della misura, per esempio attraverso la costituzione di nuovi nuclei monofamiliari. E ha favorito la diffusione di lavoro nero e informale, nonché il percepimento del sussidio da parte di soggetti non disponibili realmente al lavoro. In ragione del fatto che le iniziative obbligatorie di attivazione in molti casi non sono partite, così come le proposte di lavoro non sono state fatte, nonostante l’aumento della domanda di lavoro delle imprese.
Una legge per sostenere l’inclusione
La legge di riforma presentata dal Governo abroga completamente il Reddito di Cittadinanza e non va pertanto letta come una misura di riforma, quanto invece come un intervento del tutto nuovo. Gli interventi e gli strumenti per il contrasto alla povertà presentati dal Governo nel decreto approvato dal Consiglio dei ministri il Primo Maggio scorso costituiscono delle misure di riforma che si inseriscono nel modello delle politiche sociali europee e che si pongono come obiettivo la lotta al rischio di esclusione sociale.
Si tratta infatti di un intervento di natura non assistenziale ma “condizionata”. Ossia che collega l’erogazione del sussidio (assegno di ricollocazione) o della misura di attivazione alla partecipazione ad iniziative di inclusione attiva o di formazione. Gli interventi previsti coinvolgono tutta la rete dei soggetti chiamati a occuparsi di inclusione, sia a livello istituzionale, come le Regioni e i Comuni, sia per quanto riguarda il sistema dei servizi pubblici, come i servizi sociali e i servizi per l’impiego. Sono particolarmente coinvolti nell’attivazione dei beneficiari delle misure anche le agenzie per il lavoro e tutti gli enti accreditati alla formazione.
Il modello di intervento, per la presa in carico del beneficiario e la gestione degli interventi, si avvale anche di una specifica piattaforma digitale e di una connessione con i servizi informatici dell’Inps. La riforma prevede due distinte misure, destinate a persone e a contesti famigliari che si trovano in una diversa condizione.
L’assegno di inclusione
La prima misura (assegno di inclusione) è destinata ai nuclei famigliari con componenti considerati in condizione di fragilità, ossia che abbiano al loro interno persone disabili, minori o anziani di età superiore ai sessant’anni di età. Il valore dell’Isee di riferimento per l’accesso al beneficio è fissato in 9.360 euro.
Questa prima misura consente l’accesso a un assegno che viene erogato per diciotto mesi, che possono essere rinnovati dopo la sospensione di un mese per altri periodi di dodici mesi. Il sistema di computo dell’assegno prevede il cumulo con l’assegno unico e pertanto determina l’erogazione di una prestazione economica in genere superiore a quanto previsto finora dai precedenti interventi di contrasto alla povertà (dal Reddito di Inclusione al Reddito di Cittadinanza) nei confronti dei nuclei famigliari con la medesima situazione di fragilità. L’intervento verso i nuclei fragili è quindi potenziato dalla riforma sia per quanto riguarda l’ammontare dell’assegno sia per quanto attiene la platea di riferimento. Se per esempio si considera un nucleo famigliare “tipo” composto da genitori e due figli minori, l’importo dell’assegno erogato è intorno ai 1.480 euro. Circa il dieci per cento in più di quanto sarebbe stato erogato dal Reddito di Cittadinanza.
Vanno anche considerate altre due novità. L’estensione tra i “fragili” che possono accedere all’assegno anche dei nuclei con un anziano di età superiore ai sessant’anni (in precedenza il limite era quello di 67 anni fissato per la pensione di cittadinanza). Si sono quindi considerati difficilmente occupabili e non da destinare a percorsi obbligatori di attivazione al lavoro anche gli ultrasessantenni. Inoltre, l’abbassamento a cinque anni della residenza in Italia richiesta per l’accesso al beneficio da parte di nuclei di immigrati, come richiesto dalla Commissione Europea, contribuisce ulteriormente ad allargare l’area dei beneficiari. Un’altra novità di questo modello di intervento rispetto al precedente è quella che prevede la possibilità per i componenti del nucleo famigliare con componenti “fragili” che non si trovano in condizione di fragilità (per esempio genitori, figli maggiorenni, under sessanta e non disabili) di accedere alle opportunità dello strumento di attivazione e alla relativa indennità.
L’assegno viene in ogni caso erogato all’interno di un sistema di servizi destinati a migliorare l’autonomia e a sostenere l’inclusione dei destinatari dell’intervento. I nuclei familiari beneficiari dell’Assegno di Inclusione devono infatti sottoscrivere un patto di attivazione digitale e sono tenuti ad aderire a un percorso personalizzato di inclusione sociale o lavorativa. Il percorso viene definito nell’ambito di uno o più progetti finalizzati a identificare i bisogni del nucleo familiare nel suo complesso e dei singoli componenti e chiama in gioco il sistema dei servizi sociali e del lavoro del territorio.
Il sistema di sanzioni rispetto all’assegno di inclusione è particolarmente rigoroso e rafforzato e prevede, tra l’altro, che il nucleo familiare che percepisce l’Assegno di Inclusione decada dal beneficio in questi casi:
- se un componente del nucleo tenuto agli obblighi non si presenti presso i servizi sociali o il servizio per il lavoro competente nel termine fissato, senza un giustificato motivo;
- non sottoscriva il patto per l’inclusione o il patto di servizio personalizzato;
- non partecipi, in assenza di giustificato motivo, alle iniziative di carattere formativo o di riqualificazione o ad altra iniziativa di politica attiva o di attivazione nelle quali è inserito ovvero non rispetti gli impegni concordati con i servizi sociali nell’ambito del percorso personalizzato;
- oppure non accetti, senza giustificato motivo, una offerta di lavoro, relativamente ai componenti del nucleo attivabili al lavoro.
Dal sussidio alla misura di attivazione
La seconda misura è lo strumento destinato all’attivazione. Si tratta di una specifica misura di attivazione al lavoro, mediante la partecipazione a progetti di formazione, di qualificazione e riqualificazione professionale, di orientamento, di accompagnamento al lavoro e di politiche attive del lavoro, tra cui anche il servizio civile universale. Questo programma di attivazione è utilizzabile dai componenti dei nuclei familiari, di età compresa tra 18 e 59 anni in condizioni di povertà assoluta, con un valore dell’Isee familiare, in corso di validità, non superiore a euro 6.000 annui, che non hanno i requisiti per accedere all’Assegno di Inclusione.
Anche questo intervento prevede l’accesso tramite il patto di attivazione digitale. Nonché la dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro e la presa in carico da parte dei servizi per il lavoro competenti. Nel caso di partecipazione a iniziative di formazione o a lavori di pubblica utilità il beneficiario dello strumento di attivazione accede a una indennità di partecipazione, che consiste in 350 euro mensili, erogati per non più di 12 mensilità non rinnovabili. A questo intervento, coordinato da un programma nazionale gestito da Anpal Servizi, si collegano le misure del programma Gol e le politiche attive promosse dalle Regioni. E si prevede la collaborazione con le Agenzie per il Lavoro, che accedono alle liste di disponibilità al lavoro dei disoccupati.
Ai destinatari di entrambe queste misure è attribuito un importante sistema di incentivi per accompagnare il loro percorso di attivazione, formazione e accompagnamento al lavoro. Le aziende che assumono i percettori dell’assegno di inclusione o dello strumento di attivazione accedono a un forte sgravio contributivo fino a 8.000 euro (4.000 euro se con contratto a termine o stagionale). Mentre le Agenzie per il Lavoro che provvedono all’accompagnamento al lavoro hanno a loro volta una specifica remunerazione a risultato occupazionale. Per i percettori dell’assegno che decidono di avviare una attività in proprio è concesso un contributo all’autoimpiego, pari a sei mensilità dell’assegno.
Un diverso modello di intervento
Il modello di riferimento definito dalla riforma approvata dal Governo prevede una logica diversa da quella del Reddito di Cittadinanza e tende a ispirarsi a questi principi di fondo:
- sistema di inclusione attiva obbligatorio, destinato a sostenere percorsi di rafforzamento dell’autonomia personale e famigliare;
- rafforzamento (assegno di inclusione) dei benefici per le famiglie in condizione di maggiore difficoltà per la presenza di componenti non occupabili;
- previsione per gli “attivabili” di percorsi obbligatori di rafforzamento dell’occupabilità ed inserimento al lavoro, con il beneficio di una indennità condizionata alla partecipazione a queste attività.
Il rafforzamento dei controlli e delle sanzioni in caso di mancata attivazione conferma l’impostazione di un intervento che agisce come una vera e propria azione di sistema che coinvolge tutti i soggetti pubblici e privati, nazionali e territoriali, nello sforzo di contrastare la povertà attraverso il rafforzamento delle capacità individuali e il sostegno alle difficoltà e al disagio famigliare.
Le differenze sostanziali
La capacità di attuazione di questa nuova misura è particolarmente collegata al funzionamento della sua “governance” e alla reale partecipazione dei destinatari agli interventi di attivazione e di formazione proposti. L’intervento della riforma, infatti, se da un lato rafforza le tutele rispetto alle condizioni di maggiore fragilità, escludendo peraltro gli over 60 e i disabili dagli obblighi di attivazione al lavoro, dall’altro vincola tutte le altre situazioni e condizioni a percorsi di inclusione e di attivazione.
La differenza sostanziale con il precedente intervento sta nell’aver trasformato il sussidio per gli “occupabili” (ossia coloro che nel Reddito di Cittadinanza erano destinatari del patto per il lavoro) in una vera e propria misura di politica attiva. Che prevede una mera indennità per la partecipazione all’attività formativa e ai lavori di pubblica utilità, solo per la durata di questa attività e comunque per un periodo non superiore ai dodici mesi. La prova del funzionamento di questa riforma sul fronte dell’uscita della povertà è collocata a un livello di maggiore responsabilità. In quanto, da un lato, si chiede l’impegno obbligatorio dei destinatari ad attivarsi per il lavoro e dall’altro si deve costruire un sistema di accompagnamento che si basa su una governance complessa. Da un lato i soggetti istituzionali (Ministero, Regioni e Comuni) e dall’altro tutti gli attori del mercato del lavoro e della formazione, con le Agenzie per il Lavoro e gli enti formativi accreditati pienamente coinvolti.
Si tratta di una sfida difficile, ma necessaria, perché è la stessa sfida che riguarda il funzionamento delle politiche attive e delle misure di rafforzamento delle competenze. Per questo motivo dopo questa riforma diventa piuttosto logico che il governo definisca un successivo e conseguente intervento legislativo in grado di superare quel modello di governo del mercato del lavoro definito dal “Jobs Act” nel 2015, con il decreto 150. Il quale ha promosso un modello che va oggi in buona parte rivisto. Le difficoltà nella capacità di spesa delle risorse comunitarie destinate all’occupazione ed all’inclusione (su 13 miliardi di fondi della precedente programmazione ne sono stati spesi solo 5 a pochi mesi dalla chiusura delle misure) ed il ritardo con cui da almeno cinque anni è atteso il fascicolo elettronico del lavoratore evidenziano gravi problemi di fondo che il Governo e le Regioni devono affrontare, per dare gambe al programma Gol e alla nuova riforma per l’attivazione delle persone in condizione di povertà assoluta.
Questa riforma serve anche a evitare che la nuova programmazione 2021-2027 abbia le stesse difficoltà della precedente e che le risorse del Pnrr sul lavoro (4 miliardi ancora da spendere in buona parte) vadano a buon fine.
Romano Benini è professore straordinario di sociologia del welfare alla Link Campus University e docente a contratto presso La Sapienza. Svolge attività di consulenza sulle politiche del lavoro per diverse istituzioni. È esperto della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, autore del format di Rai 3 “Il posto giusto” e di diversi testi in materia di lavoro.