Quando il dibattito politico e istituzionale si focalizza sul mondo del lavoro, ecco l’ombra di quella comune percezione di “scollamento” tra i decisori e le reali condizioni dei protagonisti.
Basterebbe concentrarsi di più sulla persona? Un ulteriore sforzo di immedesimazione nelle situazioni reali di ogni contesto, azienda o lavoratore? Il puntualissimo “Bollettino Adapt” può certamente rispondere a questi quesiti con ulteriori riflessioni, valutazioni e statistiche. Ma la nostra intervista a Emmanuele Massagli, presidente dell’associazione fondata da Marco Biagi nel 2000, vuole abbracciare una visione d’insieme. Quella quotidianamente applicata, in ottica internazionale e comparata, dai ricercatori che animano le attività divulgative, formative e consulenziali di Adapt.
Verso il tramonto della società del lavoro? Il titolo scelto per il XIII convegno internazionale, in programma a Bergamo a fine novembre schiude diversi filoni connessi al senso stesso del lavorare.
Il tema ricorrente, oggi, è l’impatto delle tecnologie sul lavoro. Ovvero quanto un’innovazione che corre così veloce possa “deprimerlo” o “esaltarlo”. In un’epoca che sta davvero mettendo in discussione il concetto di occupazione in relazione alle mutate esigenze della società e, in prospettiva, dei suoi modelli economici. Lo conferma anche la sperimentazione di misure di sostegno al reddito che vanno oltre il lavoro. Il futuro potrebbe riservarci settimane corte e nuovi strumenti sostitutivi.
Insomma, l’obiettivo è davvero quello di liberarsi dal lavoro, inteso come fatica e sacrificio? Ci resta il dubbio che valga davvero la pena liberarsi da questa fatica. Proponiamo dunque un’occasione interdisciplinare e internazionale per discutere di queste tendenze. Senza partire da tesi prefissate e senza banalizzazioni, con la consapevolezza e il ragionamento supportati da solide basi di studio. Il lavoro, infatti, è intrinsecamente connesso all’identità della persona e rimanda agli aspetti culturali e sociali del suo coinvolgimento in un contesto di vita sfidante. Siamo davvero aperti e curiosi di conoscere i pareri, anche discordanti, degli esperti che interverranno al convegno.
Il 14 febbraio 2023 la Legge Biagi ha compiuto 20 anni. Sebbene il contesto sia notevolmente cambiato, quanto è stato raggiunto e quanto resta ancora da fare? Quali parole chiave connettono l’eredità di Marco Biagi alle attuali sfide per aziende, lavoratori, formazione e politica?
La legge ha compiuto 20 anni a febbraio, ma il suo decreto attuativo più importante risale al mese di settembre 2003, dunque siamo ancora nel pieno delle iniziative e delle riflessioni a essa dedicate. L’eredità più significativa, a nostro avviso, rimane quella dell’approccio promozionale e non ordinatorio alla norma. Un’idea culturalmente importante, nonché un valido esempio di legislazione sul lavoro, riguarda infatti l’incentivazione di atteggiamenti responsabili da parte dei singoli. Promuovendo le diverse forme di lavoro e le iniziative delle persone anziché puntare prioritariamente sulla sanzione dei comportamenti errati.
Ritenuta da molti “fautrice” della precarietà, la Legge n. 30 partiva invece da un presupposto moderno e concreto. L’instabilità del mondo del lavoro non è dovuta alle sue norme, bensì al rapido mutamento degli scenari macro-economici che lo circondano. Da qui, la volontà di assumere questo concetto e di difendere pragmaticamente il lavoratore rimanendo all’interno della flessibilità. I successivi provvedimenti – per esempio Legge Fornero e Decreto Dignità – hanno invertito la rotta. I dati ci dicono che non ha funzionato, in quanto l’aumento dei contratti a termine o del lavoro sommerso non si è fermato. Sarebbe stato probabilmente più utile trovare tutele per i lavoratori all’interno di tutte le forme contrattuali, rispondendo comunque ai tempi ormai cambiati. Come nel caso dell’eliminazione dei contratti a progetto, che ha riportato in auge forme collaborative peggiori. Insomma, Marco Biagi ci ha lasciato un principio di realismo davvero attuale, pur nelle condizioni nettamente trasformate dalla digitalizzazione e dello smart working.
Sempre a febbraio, l’Istat dice che gli occupati a tempo indeterminato sono cresciuti di 515mila unità sull’anno precedente. Buona notizia, ma c’è il rischio di una polarizzazione tra profili qualificati, quindi “blindati” dalle imprese, e profili poco appetibili e senza prospettive?
Sì, il rischio è reale. Non è legato all’età dei lavoratori, bensì alla spendibilità delle competenze acquisite. Basta guardare i dati: aumentano le “grandi dimissioni” e, al contempo, i contratti a tempo indeterminato. Viene da chiedersi il perché di questo paradosso a fronte di un mercato così vivace. Oltre un milione di persone occupate e sicure scelgono di dimettersi e trovano immediatamente un altro impiego e le aziende preferiscono battagliare su profili in continuo movimento invece di provare a “pescare” nel bacino dei Neet (Not in Education, Employment or Training). Migliaia di giovani promettenti, ma non immediatamente spendibili in termini di competenze. Per evitare l’acuirsi di questa polarizzazione si deve intervenire alla base, rafforzando i percorsi di formazione dei ragazzi, ma anche la riqualificazione delle competenze dei meno giovani.
Dopo lo “spacchettamento” previsto nella Legge di Bilancio continua il dibattito sul Reddito di Cittadinanza. Che scenari si vanno delineando?
Una delle principali critiche al Reddito di Cittadinanza riguardava il dualismo tra misura di contrasto alla povertà e misura di promozione dell’occupabilità. Nella riforma, in discussione proprio in queste settimane (ndr: durante l’iter di pubblicazione della rivista il DL è stato approvato), si torna alla differenziazione. Stando alle dichiarazioni del Governo, la componente di contrasto alla povertà dovrebbe rimanere all’incirca invariata, mentre si attendono grandi novità in tema di politiche attive del lavoro. Qui il terreno è delicatissimo, a cominciare dall’individuazione della platea, ovvero delle persone realisticamente occupabili, difficilmente identificabili tramite una definizione univoca. Per esempio, una persona idonea per avviare un percorso di inserimento nel mercato del lavoro lombardo potrebbe invece non esserlo per quello laziale. Le Regioni, finora poco coinvolte, dovranno intervenire nelle modalità più corrette, ma ancora tutte da valutare.
C’è un secondo aspetto di natura sociale. Togliere di colpo il sostegno alle persone occupabili, ma attualmente disoccupate, significa approdare a un’azione sanzionatoria. Mi spiego meglio: se eliminiamo l’aiuto reddituale ai disoccupati, bisogna subito potenziare le politiche attive, pena la sostanziale mancanza di equità. Dunque, ritengo giusto scindere il supporto alla povertà dalle Pal, ma accanto a questa mossa è fondamentale strutturare velocemente i servizi di accesso a nuove opportunità lavorative. Onde evitare che anche le persone ritenute occupabili, invecchiando, passino dall’altro lato della platea e si trovino appunto costrette a richiedere il Reddito di Cittadinanza.
Quale direzione potrebbe (o dovrebbe) prendere, invece, il tema del salario minimo?
A mio avviso siamo di fronte a una battaglia politica e identitaria che ha perso la sua dimensione tecnica rilevante. Gli stessi dati Inps e Inapp dicono che, per non mettere fuori mercato le imprese, il salario minimo andrebbe oggi a coprire una bassissima fetta di aventi diritto. Ritengo dunque più efficace partire dalla rimodulazione dei contratti collettivi nazionali non adeguati e dalla valorizzazione di quelli che già lo contemplano. Questo modus operandi schiude tuttavia un altro tema. L’idea di misurare la rappresentanza e di mappare i contratti collettivi siglerebbe, di fatto, l’“ingresso” dello Stato nell’autonomia collettiva. Un cambio di direzione della politica del lavoro di cui pochi parlano e che va tenuto in considerazione.
Le politiche attive, come concepite oggi, riescono ad affrontare le criticità del sistema?
Vorrei offrire uno spunto di miglioramento legato alla validità del sistema dotale, esplorato al momento solo in Lombardia e in altri contesti locali. Partendo dal presupposto che non è più efficace proporre soluzioni uguali per tutti, in un mercato così dinamico diventa strategico permettere alla persona stessa di costruire il proprio percorso nel mercato del lavoro, in autonomia o accompagnata dai corpi sociali (sindacati, scuole, comunità, associazioni, ecc.). Una direzione già intrapresa con successo in Danimarca e Olanda, che sarebbe utile importare nelle politiche attive italiane. La personalizzazione e l’adattabilità della misura, nella sua declinazione almeno territoriale e attitudinale, permetterebbero di rispondere meglio alla flessibilità dell’attuale mondo del lavoro.
La nuova edizione della sua guida pratica “Fare welfare in azienda” esplora le mutate esigenze delle persone e l’operatività per creare progetti efficaci. Quanto è importante mantenere il legame tra lavoro e welfare?
La guida nasce come strumento operativo per aiutare imprese, sindacati e lavoratori a costruire piani di welfare aziendale. Il successo di tali programmi, infatti, non è dato solo dal corretto utilizzo delle misure pubbliche, perché il rapporto di lavoro odierno non rappresenta il mero scambio di lavoro/salario. Le persone oggi chiedono di più, le relazioni all’interno delle aziende stanno radicalmente cambiando. Per esempio, quando sindacato e datore di lavoro collaborano nella formulazione di piani di welfare, scegliendo beni e servizi utili a incentivare atteggiamenti virtuosi anche per il futuro della persona, si ottengono soluzioni vincenti. In generale sta diventando strategico – e non opportunistico – potenziare strumenti di welfare mirati e validi anche dal punto di vista sociale.
Individualizzazione e rappresentanza: c’è ancora spazio per la dimensione collettiva del lavoro?
Assolutamente sì, la tendenza all’individualizzazione è innegabile, ma assume un valore generale e sociale. Dunque, è importante che i corpi intermedi e anche le associazioni di categoria senza dimensione sindacale riescano a dare risposte nuove a dinamiche nuove, evolvendosi costantemente. Sperimentare la dimensione comunitaria, a tutti i livelli, anche dirigenziali, può essere proficuo e soddisfacente, purché si offrano le esperienze giuste.
Cito in questo ambito una recente iniziativa della Cisl, che sta raccogliendo le firme per una proposta di legge di iniziativa popolare, in attuazione dell’art. 46 della Costituzione. A prescindere dalle possibilità di successo o meno della proposta, ritengo interessante leggerne i motivi, che riflettono proprio il principio del diritto a partecipare alla decisione aziendale in armonia con le necessità produttive dell’azienda stessa. Insomma, lo spazio c’è: va aggiornato e condiviso.
I nodi del Pnrr stanno arrivando al pettine. Cosa è mancato nella sinergia tra stato, territorio e parti sociali? Ritiene ancora possibile correre ai ripari?
Purtroppo, temo che perderemo qualcosa. Vorrei piuttosto spostare la riflessione sulle basi del Pnrr. Avevamo davvero così bisogno di tutti questi fondi in tutti questi settori, sapendo che la gestione delle pratiche e delle tempistiche oggettivamente non fa parte della nostra cultura istituzionale? Forse sarebbe stato meglio chiedere meno e in modo mirato. Il senno di poi chiaramente non aiuta, mentre diventa importante iniziare a pensare a una indicazione delle priorità, nel caso non sia possibile implementare tutti i progetti. I primi temi potrebbero essere proprio lavoro e formazione. Non sono i capitoli centrali del piano, ma proprio per questo sono alla nostra portata e vanno assolutamente sviluppati per il bene del Paese.
Innovazione e sostenibilità stanno davvero rivoluzionando l’approccio al lavoro. Qui si gioca il mismatch tra domanda e offerta e competenze?
Sicuramente rappresentano un futuro dalle dimensioni inevitabili, in termini di competenze di base e non solo a livello di settore o di mansione. Per esempio, 40 anni fa l’inglese non era un pre-requisito di accesso ad alcuni ambiti lavorativi, poi è diventato un titolo preferenziale, oggi viene quasi dato per scontato. Penso accadrà lo stesso con la digitalizzazione e le professioni green. Servono certamente profili qualificati – tecnico AI o energy manager per citarne alcuni -, ma la dinamica formativa deve partire dai bambini, dall’inizio della scolarizzazione, per mettere tutti nelle condizioni di operare in un mercato così diverso rispetto al passato.
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