Un tema da affrontare con consapevolezza

Generazioni e lavoro: le cose sono più semplici oggi? Secondo il docente di psicologia del lavoro David Trotti la risposta non è lineare, perché ieri non era tutto più semplice, ma semplicemente diverso, un altro mondo in cui si applicavano criteri diversi

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Intervista psicologo del lavoro David Trotti

di Virna Bottarelli |

Non è banale ripetere semplicemente che oggi è tutto più complesso? O, meglio, dire che per i boomer è stato tutto più semplice?

David Trotti, docente nel corso di psicologia del lavoro presso l’Università Europea di Roma, che per ragioni anagrafiche può darci in prima persona il punto di vista di un boomer, dice: “Semplice significa “non complesso, non complicato”. Il tempo in cui ho vissuto, come giovane, era meno complicato di oggi?”

David Trotti, docente nel corso di psicologia del lavoro presso l’Università Europea di RomaIntanto, bisogna acquisire due consapevolezze: la prima è legata alla diversità della tecnologia tra i due tempi, la seconda è legata alla fruizione delle informazioni. Siamo in un tempo caratterizzato da dotazioni tecnologiche. Da un lato, rendono più semplice il contatto, ma allo stesso tempo hanno sostituito il contatto completo, quello che tocca tutti e cinque i sensi. Oggi i contatti non possono essere considerati “rapporti”, perché risentono della mancanza della prossimità. Le informazioni, ieri, andavano cercate attraverso spostamenti spaziali, mentre oggi ne abbiamo a profusione, in qualsiasi ora e luogo, senza però che spesso ci sia una corrispondenza con la realtà dei fatti e delle cose. Per questo oggi le informazioni richiedono un fortissimo senso critico.

Allora, le cose sono più semplici oggi? La risposta non è lineare: ieri non era tutto più semplice, ma semplicemente diverso, ci trovavamo in un altro mondo, in cui si applicavano criteri diversi. Oggi per un ragazzo è semplice entrare in contatto con il mondo, ma è molto più complesso capirlo o fare delle valutazioni critiche. Venendo al lavoro: è semplicemente diverso, perché il contatto è più semplice e la relazione molto più complessa. Lavorare è più semplice dal punto di vista operativo, ma più complesso dal punto di vista umano e della gestione delle informazioni.

In un contesto simile, flessibilità e formazione continua sono concetti che, almeno i millennial, dovrebbero avere assimilato. Ci sono le condizioni per metterli in pratica?

Bisogna prendere atto che c’è un cambio culturale in atto e che stanno modificandosi le modalità con cui viviamo. Le nuove generazioni si appoggiano non al “posto di lavoro” ma alle competenze, che crescono con ritmi logaritmici. Da qui nasce un bisogno di formazione mai visto prima. La formazione è divenuta un fatto necessario, direi fisiologico, tanto più in un mondo che si sta orientando alla produttività, a sua volta strettamente connessa con l’applicazione delle competenze.

Ma nel nostro Paese, a mio avviso, questo percorso è solo agli albori, anche perché la parte più distante è proprio la Pubblica Amministrazione. Secondo i dati del Forum PA 2023, si è abbassato, da 200 a 40, il numero dei candidati per posto di lavoro messo a concorso nella PA. Credo non ci siano le condizioni per concretizzare i concetti di flessibilità e formazione continua, perché il cambio culturale non è né seguito né percepito e il decisore pubblico non ci sta lavorando.

Ha accennato alla generazione Z: che cosa chiedono questi giovani al mondo del lavoro e che risposte stanno avendo?

Dobbiamo essere consapevoli che per i più giovani non contano solo gli elementi economici, anche se questi restano importanti. La generazione Z guarda ai valori etici, alla flessibilità, alla sostenibilità, alla parità di genere e alla retribuzione collegata alla produttività come parte del lavoro che desiderano. Ci chiedono di aiutarli a realizzarsi nel lavoro in modo che possano, con esso, costruire i loro sogni, che includono, ad esempio, anche la salute del pianeta che abitiamo.

Le risposte che stanno avendo dalla società sono poca cosa e per questo stanno cercando strade proprie, forse alternative, ad esempio andare all’estero, o, addirittura, pericolose per loro e per la società in quanto frutto dell’insoddisfazione. Rischiano di essere come l’acqua che scorre e, trovando ostacoli che non riesce ad aggirare, prorompe, spazzando via tutto quello che trova sulla strada. Il legislatore dovrebbe preoccuparsi di capire che cosa vogliono le nuove generazioni e cercare di favorire il loro sviluppo.

Oggi il mondo delle giovani generazioni è quello dei social e non possiamo pensare che questo sia una moda passeggera. Dobbiamo ascoltarli e capirli, essere coscienti saranno la generazione che verrà, con i loro pregi e i loro difetti. Nel nostro Paese ci preoccupiamo molto per gli anziani e poco per i giovani. Oggi crescere professionalmente e avere una vita flessibile sono le condizioni che i più giovani, la generazione Z, chiedono perché sanno che la vita media si sta allungando e che forse per moltissimi di loro lavorare a 70 anni sarà normale. Dobbiamo prevenire il futuro, non rincorrerlo, e capire quello che i giovani vogliono, senza proiettare su di loro le nostre certezze.

Quando si parla delle nuove generazioni, si parla anche del problema delle professionalità che non si riescono a reperire. Prima ancora che di giovani e lavoro, allora, dovremmo parlare di giovani e orientamento?

Per parlare di giovani e orientamento dobbiamo prima ricordarci che siamo in un Paese in cui la sostituzione generazionale è in deficit. Stanno nascendo sempre meno bambini e bambine e non esiste un percorso di orientamento al lavoro e alle competenze nell’età dell’apprendimento. Queste carenze sono sistemiche e il legislatore le dovrà affrontare e supportare perché, da un lato, avremo sempre meno persone di cui disporre per la sostituzione dei lavoratori che terminano il ciclo del lavoro e, dall’altro, si dovranno aiutare le aziende a dotarsi di competenze professionali sempre più evolute e specializzate. Per questo è necessario ripensare la formazione scolastica includendo percorsi di orientamento, mentre le politiche attive devono essere oggi l’investimento principale da parte del Governo. Abbiamo sempre meno risorse e se quelle che abbiamo non vengono supportate nell’orientamento dovremo importarle dall’estero o vedere morire le nostre imprese.

Aiutare una persona da giovane a trovare la propria vocazione lavorativa è semplice, mentre formare un adulto è complesso e dispendioso, come ha dimostrato la rivoluzione tecnologica ed informatica. Per questo credo che sarebbe utile inserire nell’organico scolastico anche la figura dell’orientatore, che dovrebbe essere psicologo del lavoro o pedagogista, per far scoprire agli studenti le materie per cui sono portati, a partire dalle scuole medie e dai primi anni delle superiori, per poi aiutarli a scegliere il percorso scolastico e a costruire le proprie competenze (in ambito universitario). Tutto questo dovrebbe permettere ad ogni ragazzo o ragazza di trovare il proprio lavoro o, ancora meglio, di scegliere il lavoro in base alle proprie attitudini.

Le persone che popolano il mondo del lavoro oggi sembrano appartenere a vere e proprie “ere” differenti. C’è un modo per valorizzare questo tipo di diversità?

Valorizzare le diversità, che sarà un elemento strutturale del futuro, è una necessità, non un obiettivo. I boomer hanno l’esperienza del loro vissuto e la generazione Z ha la creatività, frutto della continua trasformazione e di una contaminazione costante. Il modo di valorizzare questa diversità è quello emotivo, della condivisione del vissuto e dell’ascolto, facendo in modo che si lavori insieme e ci si contamini reciprocamente. Condivisione e incontro devono essere gli elementi base del passaggio generazionale delle competenze, la cui trasmissione deve fungere da collante tra le generazioni attraverso la formazione. Lo Stato dovrebbe favorire al massimo esperienze di formazione e di inserimento in azienda, in modo che le generazioni si conoscano e si contaminino reciprocamente. Dovrebbe essere un percorso costante che, partendo dalla scuola, arriva al primo giorno di lavoro.

In questa visione, l’addestramento, per brevità chiamo così il periodo che ora corrisponde all’alternanza scuola lavoro e tirocinio curriculare, si dovrebbe preoccupare di far vedere a chi studia i riflessi pratici delle nozioni che impara. Il tirocinio extracurriculare, invece, dovrà essere il periodo in cui si iniziano a sperimentare le proprie conoscenze in un’organizzazione. Cercando di capire se quest’ultima corrisponde alle proprie peculiarità e al proprio percorso di competenze e di orientamento. Così, finita l’università, la scuola superiore o un ITS, il tirocinio deve essere un’esperienza formativa che permette di conoscere il mondo del lavoro. Di confrontarsi e di contaminare e contaminarsi con le generazioni che già ci sono o, meglio, che sono il mondo del lavoro. In questo contesto i tutor dovrebbero essere non solo sulla carta, ma avere un ruolo attivo, quasi di coaching, ed essere messi a disposizione dalla struttura pubblica.

Sostiene che il lavoro ha a che fare “con la propria felicità, non con il denaro”. Ma è un dato di fatto che i lavoratori più giovani oggi guadagnino molto meno di quanto guadagnassero i loro genitori alla stessa età. Si può correggere questa tendenza?

Oggi le risorse economiche sono più scarse del passato perché i consumatori, in particolare coloro che guadagnano meno, vogliono pagare meno beni e servizi. E affinché un bene o servizio abbia un prezzo più contenuto, occorre ottimizzare e comprimere tutte le componenti di costo, incluse quelle legate al lavoro. Questo è il problema e anche qui occorre un cambio culturale. Un’azienda vive sul fatto che i costi siano inferiori ai ricavi e che, a parità di costi, si possano avere più risorse economiche solo se si aumenta la produttività. Si possono aumentare gli stipendi netti o abbassando il costo del lavoro o aumentando la produttività.

Questo è possibile passando, dalle logiche del sinallagma legato allo scambio di tempo e lavoro, alle politiche di gestione delle organizzazioni che facciano della produttività un elemento centrale. Per il costo del lavoro la soluzione potrebbe essere quella in cui la remunerazione diminuisce nella componente di supporto alla fiscalità generale (i contributi per come sono oggi non possono essere compressi, in quanto nel regime contributivo producono direttamente la pensione). Bilanciando le necessità sociali attraverso il supporto verso la famiglia e la conciliazione vita-lavoro, che devono essere centrali.

In quest’ottica il lavoro agile e il welfare devono essere pensati come elementi strutturali. Il welfare (con il correlato abbattimento del costo del lavoro) deve diventare un elemento della retribuzione al pari degli elementi monetari (modificando l’art.51 del Tuir e l’articolo 2099 del c.c.). Il legislatore deve fare in modo che le aziende, attraverso la retribuzione (esente perché a scopo sociale), eroghino strumenti relativi al benessere, alla previdenza complementare e alla salute. La produttività, in via alternativa o complementare, deve partire da accordi sindacali che formano una base minima valida per tutti. Quando la produttività, come concordata tra lavoratori e imprese, si azzera o è negativa, si fermano gli aumenti, quando invece cresce, gli stipendi aumentano, magari ogni anno.


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