di Mario Pagano |
Il contratto a tempo determinato cambia ancora una volta pelle, grazie alle modifiche introdotte dal decreto lavoro DL 48/2023, convertito con L. 85/2023.
Lo fa negli elementi essenziali per la sua validità, ossia in tema di causali. Le ragioni giustificatrici in presenza delle quali è ammissibile derogare alla regola, che vede il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato quale forma comune di rapporto di lavoro, così come previsto dallo stesso art. 1 del D.Lgs. 81/2015.
L’eccezione alla regola, costituita dall’apposizione di un termine finale alla durata del contratto a tempo determinato, è legittima (in linea con i consolidati orientamenti comunitari) in presenza di una causale, che nel tempo il legislatore ha più volte ri-modulato. Senza andare troppo indietro nel tempo, nel passato più recente il contratto a termine, come regolato dal D.Lgs. 368/2001, doveva essere supportato da ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo. Si parlava del cosiddetto “causalone” che, tuttavia, in ragione della genericità e ampiezza potenziale delle causali ha generato negli anni notevole contenzioso, finalizzato a dimostrare l’assenza concreta di una effettiva ragione giustificatrice, con la conseguente trasformazione del contratto in un rapporto a tempo indeterminato.
Così dal 2012 in poi il legislatore ha lentamente eroso la necessità di supportare il termine da una causale, introducendo da prima una “acausalità” limitata al primo rapporto e ai primi 12 mesi del contratto (L. 92/2012). Fino ad arrivare a una “acausalità” piena, che coprisse l’intera durata massima del contratto a termine, fissata allora in trentasei mesi (DL 34/2014).
Il Decreto Dignità cambia le regole del tempo determinato
Nel 2018 arriva un brusco cambio di rotta, attraverso il tanto discusso Decreto Dignità (DL 87/2018), che riduce la durata massima a 24 mesi. E, soprattutto, limita l’acausalità a soli 12 mesi, superati i quali viene reintrodotta la necessità di inserire nel contratto a tempo determinato un’apposita causale a supporto di un termine superiore alla soglia dei 12 mesi o di un rinnovo.
Per la precisione il contratto poteva avere una durata superiore ai 12 mesi. Ma comunque non eccedente i 24 mesi, solo in presenza di almeno una delle seguenti esigenze:
- temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
- connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.
A ben vedere fin da subito, ad eccezione delle ragioni di natura sostitutiva, le nuove causali si sono rivelate di difficile gestione. Lo spauracchio del contenzioso, verosimilmente ancora più incerto rispetto a quello generato dal “causalone”, ha frenato la stipula dei contratti a termine eccedenti i 12 mesi e il loro rinnovo.
La prova di ciò arriva purtroppo con la pandemia da Covid-19. Il legislatore, proprio per cercare di rilanciare l’occupazione nella fase di riapertura delle attività d’impresa, allenta la morsa del decreto dignità, introducendo in via emergenziale un regime derogatorio dalla disciplina del contratto a tempo determinato. Il quale, seppure in via temporanea ed eccezionale, cancella proprio la necessità di apporre una causale.
Più supporto al contratto a tempo determinato
Si arriva così al nuovo Decreto Lavoro che ridisegna ancora una volta lo schema normativo a supporto del contratto a termine con un ritorno al passato e con un’apertura alle parti sociali. Innanzitutto, ad eccezione di quella sostitutiva, vengono cancellate tutte le precedenti causali dal tenore incerto. Al loro posto il legislatore, oltre a mantenere, come detto, la causale sostitutiva, conferma la “acausalità” nei primi 12 mesi, aprendo alla contrattazione collettiva per l’ipotesi di un contratto superiore a tale soglia.
Il nuovo art. 19 comma 1 lett. a) del D.Lgs. 81/2015 prevede, infatti, che il contratto può avere una durata superiore ai 12 mesi, ma comunque non eccedente i 24, solo nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all’articolo 51 del medesimo decreto. Parliamo, in questo caso, dei contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. E dei contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali, ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria. In altre parole, i contratti “leader”.
Dovranno, quindi, essere le parti sociali, attraverso la contrattazione collettiva, a stabilire in quali circostanze è possibile apporre un termine al contratto di lavoro, cercando così di valorizzare le peculiarità di ciascun settore. Come detto, tale soluzione non rappresenta una novità assoluta, essendo stata già prevista in passato dall’art. 23 L. 56/1987. Secondo il quale l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro era consentita “…nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale…”.
Il ruolo della contrattazione
Peraltro, la scelta si pone in un quadro di coerenza rispetto all’intera disciplina del contratto a termine. Nella quale le parti sociali già intervengono su diverse materie quali: durata massima (art. 19 comma 2), individuazione delle attività stagionali (art. 21 comma 2), limiti numerici (art. 23 comma 1), durata del periodo di avvio di nuove attività (art. 23 comma 2 lett. a), diritto di precedenza (art. 24 comma 1).
Il legislatore, tuttavia, si è opportunamente posto il problema di introdurre anche una sorta di regime transitorio. Concedendo alle parti sociali il tempo necessario per introdurre le nuove causali, senza che si venga a creare un pericoloso vuoto normativo e una conseguente paralisi alle assunzioni. È stata, infatti, inserita al comma 1 dell’art. 19 una nuova lett. b), secondo la quale, in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 30 aprile 2024, è possibile apporre un termine superiore ai 12 mesi ed entro i 24, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti.
In buona sostanza fino al 30 aprile 2024, laddove il contratto collettivo applicato dal datore di lavoro non avesse ancora individuato i casi di apposizione del termine, le parti potranno autonomamente inserirli in fase di stesura del contratto individuale. Tutto ciò a condizione che l’eccezione rientri, un po’ come avveniva ai tempi del citato “causalone”, nelle esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva. Tale formulazione consente di recuperare a livello prudenziale alcuni fondamentali principi fissati dalla giurisprudenza. Nel rispetto dei quali l’apposizione del termine, giustificato da un’esigenza concretizzata dalle parti e associata al “causalone”, può dirsi legittima.
In particolare, l’individuazione della causale dovrà essere specifica e puntuale al fine di assicurare trasparenza e veridicità delle ragioni volte a giustificare l’apposizione del termine, nonché l’immodificabilità delle stesse. Secondo la Cassazione (sentenza 31.1.2023 n. 214) il contratto a termine deve indicare in modo circostanziato le ragioni oggettive che giustificano l’apposizione del termine. La giurisprudenza richiede la specificazione delle esigenze aziendali che legittimano l’apposizione del termine al contratto di lavoro, ma anche che si tratti di esigenze temporanee o, quantomeno, non strutturali ovvero non ordinarie.
Novità per i rinnovi
Le novità introdotte dal decreto lavoro non si limitano solo al tema dell’individuazione delle causali. In fase di conversione, infatti, con L. 85/2023, sono state inserite ulteriori innovazioni, che incidono sulla disciplina del rinnovo. Come anticipato, la necessità delle causali era prevista sia per i contratti di durata superiore ai 12 mesi, anche per effetto di proroghe, nonché nelle ipotesi di rinnovo contrattuale. Mentre la proroga era, infatti, libera entro i 12 mesi, il rinnovo richiedeva sempre l’apposizione di una delle causali, previste dall’art. 19 comma 1.
In fase di conversione del DL 48/2023 il legislatore, modificando l’art. 21 comma 01, ha liberalizzato anche il rinnovo. Il quale, parimenti alla proroga, potrà avvenire entro i primi 12 del rapporto a termine tra le medesime parti, senza inserire alcuna ragione giustificatrice. A corollario di tale disposizione la medesima legge di conversione, con un nuovo comma 1-ter dell’art. 24 del DL 48/2023, ha fissato una sorta di azzeramento nel conteggio dei 12 mesi di “acausalità”. Il comma in questione stabilisce, infatti, che, ai fini del computo del termine di 12 mesi, previsto dall’articolo 19, comma 1, e dall’articolo 21, comma 01, D.Lgs. 81/2015, si tiene conto dei soli contratti stipulati a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto lavoro. Ossia a partire dal 5 maggio 2023.
Un esempio pratico
In buona sostanza, se oggi si volesse rinnovare un contratto a termine tra due soggetti, che hanno intrattenuto un precedente rapporto nel 2021 e 2022, lo si potrà fare anche per 12 mesi. E senza necessità di apporre alcuna causale, in quanto non si dovrà tenere conto dei rapporti a termine, intervenuti tra le medesime parti prima del 5 maggio 2023. Occorre, tuttavia, sottolineare che tale azzeramento, a parere di chi scrive, vale solo per quanto riguarda le nuove causali (art. 19 comma 1) e la disciplina dei rinnovi (art. 21 comma 01). Senza incidere sul limite di durata massima del contratto a tempo determinato. Il quale, come stabilito dal comma 2 dell’art. 19, anche per effetto di una successione di rapporti, per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale e indipendentemente dai periodi di interruzione tra un contratto e l’altro, non può superare i 24 mesi.
Ritornando all’esempio, se il rapporto intervenuto in passato nel 2021 e 2022 ha già raggiunto i 14 mesi, l’eventuale rinnovo stipulato dopo la data del 5 maggio 2023, per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale, pur potendo essere “acausale”, non potrà comunque superare i 10 mesi. In quanto dovrà rispettare il termine complessivo di durata, pari a 24 mesi.
* Mario Pagano è collaboratore della Direzione Centrale Coordinamento Giuridico dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Le considerazioni esposte sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.