Creare certezze nell’instabilità permanente

Grandi dimissioni, quiet quitting, talent shortage… fenomeni isolati o sintomo di un’evoluzione profonda? L’Osservatorio HR Innovation Practice 2023 rinnova ai direttori del personale la sfida di saper interpretare, con azioni concrete, un cambiamento ormai strutturale

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L’Osservatorio HR Innovation Practice 2023

di Maria Cecilia Chiappani |

Nulla tornerà come prima, nemmeno nelle risorse umane.

Vale la pena ripeterlo, guardando con lucidità ai dati sul mondo del lavoro post pandemia e alle opportunità che le aziende possono cogliere solo scalfendo la “tradizionale” cultura italiana della gestione HR. Le sfide non riguardano solo la capacità di motivare e di coinvolgere le persone, arginando le grandi dimissioni, ma anche la loro attrazione con valori e programmi solidi, poiché la mancanza di competenze fa quasi più paura della crisi economica. Con la consapevolezza, appunto, che le aspettative dei lavoratori sono diverse da quelli di tre anni fa, ma che le aziende hanno a disposizione strumenti e buone pratiche per attrezzarsi.

Il convegno “Vita, lavoro, felicità: disegnare una nuova relazione tra organizzazione e persone”, presentazione dell’Osservatorio HR Innovation Practice 2023, si è concentrato proprio su questa evoluzione. “Un titolo ambizioso e impegnativo, che riflette lo stato del mercato del lavoro nel nostro Paese” esordisce Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio promosso dalla School of Management del Politecnico di Milano. “Possiamo confermare l’instabilità come costante: l’equilibrio è ancora lontano. Anzi, la fluidità e la dinamicità del contesto italiano sono ben rappresentate dall’acronimo Bani (Brittle Anxious Non Linear Incertus), che incarna la volatilità del contesto nel quale ci muoviamo, considerando fattori esterni e interni alle aziende”.

Da Great Resignation a Great Regret?

Ne abbiamo già parlato ampiamente, ma le note trimestrali del Ministero del Lavoro non lasciano dubbi: sono quasi 2,2 milioni le dimissioni volontarie del 2022. Un dato in crescita del 13,8% rispetto al 2021 e del 27,6% rispetto al 2019. Allarme confermato dall’Osservatorio: il 46% dei lavoratori, in linea con lo scorso anno, ha cambiato lavoro negli ultimi mesi o ha intenzione di farlo a breve. La percentuale sale al 77% per la generazione Z, sottolineando l’ulteriore problema di dialogo tra giovani e aziende.

Tra i settori più colpiti manifatturiero e servizi, con il mondo finanziario che conta un 30% di “intenders”. In generale, il 55% dei propensi sta già facendo colloqui. L’8% dei lavoratori italiani ha cambiato volontariamente lavoro nell’ultimo anno per aver ricevuto un’offerta, il 3% lo ha fatto senza un’alternativa. Il 12%, invece, ha intenzione di farlo da qui a sei mesi e un altro 23% nel medio periodo (8-12 mesi).

Le motivazioni? Abbiamo imparato a conoscerle: la ricerca di migliori condizioni economiche e benefit vince con il 43%. Seguono flessibilità degli orari lavorativi (21%) e salute fisica e/o mentale, con il 19% delle preferenze. Al di là del diffuso stato di ansia individuale, pesano i problemi relazionali con capi, colleghi e collaboratori. Emerge inoltre l’insoddisfazione per la conciliazione vita-lavoro, connessa soprattutto a distanza della sede e smart working. Cresce anche la volontà di perseguire interessi personali: si cambia perché il contenuto del lavoro non soddisfa più o per trasformare una passione privata in professione. Il movimento Yolo (You Only Live Once) riflette proprio la propensione a mettere i propri interessi davanti alla sicurezza del posto fisso.

Ed ecco all’orizzonte una nuova tendenza: il “grande pentimento”. Non tutti i dimissionari, infatti, hanno trovato ciò che cercavano: il 41% rimpiange la scelta. Il Great Regret, partito anche stavolta dagli Usa, riguarda soprattutto le persone di sesso maschile e gli over 50. Le motivazioni sono legate alla difficoltà di ricollocarsi, dopo aver abbandonato il posto senza un’altra offerta, e alla rivalutazione in positivo del vecchio lavoro.

Tendenze del bilanciamento vita-lavoro

L’incapacità di gestire l’invasione del lavoro nella vita privata, particolarmente sentita in questa fase, è fonte di insoddisfazione e voglia di cambiamento. La reazione è duplice:

  • work-life integration: il 43% dei rispondenti trova nel lavoro una componente significativa della soddisfazione personale ed è portato a integrare i due aspetti;
  • work-life separation: il 57% dei lavoratori trova soddisfazione personale prevalentemente nel contesto privato e cerca di mantenere le due vite ben separate.

Entrambi gli atteggiamenti hanno vantaggi e svantaggi. Una integrazione vita-lavoro non correttamente incanalata porta al cosiddetto “job creeping”. I job creeper sono 1,1 milioni (6% dei lavoratori italiani): non riescono a smettere di lavorare, anche nei momenti da dedicare alla vita personale. Cercano autonomia e flessibilità, si sentono particolarmente coinvolti, ma i ritmi e i carichi di lavoro sovrastano la sfera privata. Esagerare nella separazione, invece, conduce al quiet quitting. Il 12% dei lavoratori si limita a fare il minimo indispensabile per portare a casa lo stipendio. Queste persone non sono emotivamente coinvolte nelle attività lavorative e molto molto spesso rinunciano a cercare nuove opportunità, adagiandosi su una situazione cronica di apatia.

Contro il quiet quitting, che tocca 2,3 milioni di dipendenti, serve agire su mobilità interna e riconoscimento degli interessi e dei talenti. Per supportare invece gli “appassionati”, si possono promuovere iniziative che orientino a una più sana e matura integrazione work-life. In entrambi i casi, è basilare investire su una leadership di qualità, capace di ascoltare e fornire feedback tempestivi e personalizzati.

I numeri del talent shortage

Altra grande sfida per le direzioni HR, la mancanza di personale. I dati dicono che, nel 2023, il 59% delle organizzazioni prevede una crescita dell’organico ma il 94% ha difficoltà ad assumere. Per il 74% dei rispondenti, sta andando peggio rispetto al 2022. Addirittura, la situazione costringe il 12% delle imprese a rinunciare a parte del fatturato. La carenza riguarda in primis le professionalità digitali, ma servono anche profili tecnici, operai e manutentori.

Secondo il Rapporto sul mercato del lavoro del Cnel, nei primi nove mesi del 2022, su quasi 420 mila nuove assunzioni 170 mila (40,3%) sono risultate di difficile reperimento: nel 2019 erano il 28,2%. Il male è comune ad altre nazioni, ma l’Italia paga anche la sua “vecchiaia”. L’incidenza degli under 30 non arriva al 28%, valore peggiore in Europa. La quota di laureati della fascia 30 – 34 anni è inferiore al 27%, contro una media Ue del 40% e siamo ultimi per numero di iscritti a corsi Stem rispetto alla popolazione. Il bilancio tra fuga dei cervelli e arrivo di talenti stranieri resta negativo e il numero di Neet è il più alto a livello europeo. Alla situazione, già drammatica, si unisce la mancanza di competenze digitali, quando circa 1 posizione aperta su 4 riguarda questo tipo di professionalità. Le figure più ricercate sono per Big Data & Analytics, Intelligenza Artificiale e Cyber Security.

Un nuovo ruolo (tecnologico) per la direzione HR

Abbiamo parlato di reputazione e attrazione di nuovi talenti, ma l’altro lato dell’evoluzione HR riguarda upskilling e reskilling dei dipendenti. Negli ultimi 5 anni, il 63% delle professioni ha visto l’automazione di almeno una parte delle sue attività. Il 76% dei lavoratori ha dovuto apprendere nuove competenze e il 17% è stato riqualificato, internamente o esternamente, in un’altra professione. Tuttavia, solo il 48% delle persone dichiara di avere a disposizione strumenti e tecnologie adatte ad aggiornare efficacemente le proprie competenze.

Gli investimenti in transizione digitale delle direzioni HR crescono media del 2,8%, in continuità con il 2022, ma la diffusione di queste tecnologie riguarda meno del 10% delle organizzazioni. Altrettanto scarso, l’utilizzo avanzato dei dati relativi ai processi HR. Solo il 16% del campione, infatti, analizza le informazioni raccolte per agire di conseguenza. “Il mercato HR Tech si è evoluto a un ritmo straordinario, ma le applicazioni più innovative faticano a diffondersi” conclude Martina Mauri, direttrice dell’Osservatorio HR Innovation Practice. “Ne sono un esempio le soluzioni di intelligenza artificiale, che permettono di personalizzare l’esperienza offerta alle persone, dai processi di recruiting ai percorsi di crescita. Tra le principali difficoltà, c’è anche la comprensione delle competenze necessarie nei prossimi 3-5 anni per pianificare le attività di riqualificazione delle persone. Solo il 15% ne ha chiara consapevolezza”.

La percezione dei lavoratori circa l’utilizzo dei propri dati è stimolante: il 65% li ritiene utili a migliorare l’attività e il 62% ne valuta positivamente l’impatto sullo stile di leadership dei capi.

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