Disoccupazione involontaria: definizione e criticità

È necessario ripensare la nozione di “disoccupazione involontaria” in un’ottica più equa e bilanciata, che trovi una maggiore rispondenza tra la propria definizione legislativa attuale e quella ideale cui la legge aspira

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Nozione di disoccupazione involontaria

di Luigi Beccaria |

La discussione, antecedente all’emanazione del Decreto “Lavoro”, simbolicamente promulgato il 1° maggio, relativa al possibile inserimento di una previsione di legge che avrebbe qualificato il comportamento del lavoratore assente in modo ingiustificato per un certo periodo di tempo come sintomatico della volontà di dimettersi (dunque di recedere volontariamente dal rapporto di lavoro, senza conseguentemente percepire l’ammortizzatore sociale – id est: la Naspi – che trova il suo fondamento proprio nella perdita involontaria dell’occupazione), pur non concretizzatosi in alcun provvedimento avente valore di legge, ha riacceso il dibattito in ordine alla nozione di disoccupazione involontaria, estremamente cruciale nel nostro ordinamento.

È evidente che tale discussione prevede un’intersezione tra questioni eminentemente giuridiche ed altre di natura più politica-generale. Ed è complesso svolgere un’analisi evitando di esondare da un campo all’altro.

Disoccupazione involontaria: una norma ambigua

Innanzitutto, a parere di chi scrive, ben ha fatto il Governo a non inserire una norma così ambigua e che avrebbe certamente generato distorsioni anche di natura paradossale.

Infatti, se tale previsione (la cui ratio appare, ad ogni modo, sostanzialmente condivisibile) fosse stata effettivamente inserita, si sarebbe giunti al paradosso per cui i lavoratori (e certamente non si tratta di un numero esiguo, a dispetto dell’aumento del fenomeno della cosiddetta “Great Resignation”) che intendono far cessare il rapporto di lavoro in essere, percependo i sopra citati ammortizzatori sociali per la disoccupazione involontaria, e che allo stato attuale certamente pongono in essere il discutibile comportamento di non presentarsi più al lavoro sino a farsi licenziare, avrebbero potuto ottenere il medesimo obiettivo non già assentandosi pacificamente, ma realizzando altri comportamenti così gravi da far troncare con effetto immediato il rapporto di lavoro. Tra questi comportamenti, che avrebbero consentito – ed effettivamente continuano a consentire – di percepire il sussidio, per assurdo vi sono anche il furto, il danneggiamento o altre condotte aventi anche rilievo penale.

Un paradosso evitato

Questo paradosso è stato evitato, ma ciò non significa naturalmente che il problema sia risolto. Si assiste semplicemente al perpetuarsi dello status quo ante, che, tradotto nella quotidianità operativa e fuori dai denti, si sostanzia semplicemente nella seguente, lineare, dialettica. Il lavoratore smette, talvolta ex abrupto, talaltra comunicando esplicitamente le sue intenzioni, di presentarsi al lavoro. E il datore di lavoro, pur di avere certezze in ordine alla propria organizzazione, accetta (più o meno volentieri) di sottoporre il dipendente assente ingiustificato alla procedura disciplinare di cui all’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori. Licenziandolo poi per giusta causa (e sostenendo, dunque, il pagamento del cosiddetto “ticket di licenziamento”, ormai superiore all’importo di 1.500 euro per lavoratori con più di tre anni di anzianità), e consentendogli dunque di conseguire l’obiettivo di beneficiare della Naspi.

Talvolta il licenziamento viene addirittura impugnato (magari adducendo a questioni esterne al recesso in sé, come ad esempio differenze retributive). Più frequentemente invece il dipendente si vede corrispondere le spettanze di fine rapporto e non ha nulla più a che pretendere dall’ex datore di lavoro. Va da sé che tra gli effetti collaterali di questa previsione, vi è anche una possibile correlazione (su base aneddotica, ma credo che sia un fenomeno osservabile con frequenza) con un aumento del lavoro nero.

Naturalmente questo fenomeno è sintomatico di profonde distorsioni, che nelle intenzioni del legislatore che intendeva procedere alla (poi abortita) novella della norma dovevano essere corrette. Ma, proprio in virtù dei paradossi che ho sopra evidenziato, tale intervento avrebbe significato guardare il dito e non la luna. Fuor di metafora, ciò che occorre fare, almeno secondo l’opinione di chi scrive, è ripensare in un’ottica più equa e bilanciata la nozione di disoccupazione involontaria. La quale dovrebbe trovare una maggiore rispondenza tra la propria definizione legislativa attuale (cioè quella post “Jobs Act”) e quella ideale cui la legge aspira.

Perimetri e accertamenti

Se è certamente giusto che il lavoratore dimissionario per giusta causa (ad esempio perché oggetto di molestie o più in generale di mobbing, o perché pagato in modo discontinuo e non puntuale), a dispetto della formalità per cui l’atto del recesso promana dalla sua persona, sia e debba essere trattato a tutti gli effetti come un disoccupato involontario, in quanto la sua volontà di perdere l’occupazione è condizionata da comportamenti irrituali o illegali del datore di lavoro, allo stesso modo occorrerebbe riflettere se, specularmente, il lavoratore che subisce un licenziamento per giusta causa (ad esempio per aver rubato beni aziendali, ma anche, potenzialmente, per reati che attentano a beni giuridici ben più importanti del patrimonio, tra cui l’incolumità fisica, la salute e persino la vita) debba essere, sempre e comunque come avviene ora, considerato un disoccupato involontario.

Sicuramente non può essere fatta un’equazione totale tra licenziamento per giusta causa e insussistenza dello stato di disoccupazione involontaria. Questo finirebbe col privare di una tutela, ad esempio, quei lavoratori ingiustamente licenziati, che verrebbero magari privati di un reddito di sussistenza sino a che non fosse accertata l’eventuale illegittimità del licenziamento subìto. Bisognerebbe, almeno de jure condendo, riflettere su delle sfumature, ad esempio valorizzando il profilo relativo all’elemento soggettivo (dolo o colpa) del lavoratore che subisce il recesso. È evidente che un lavoratore che avesse perso l’occupazione a causa di una negligenza commessa in buona fede non dovrebbe essere privato di un supporto da parte dello Stato. Così come è evidente che un lavoratore di cui è accertata la commissione di comportamenti dolosi gravemente contra ius, finalizzati ad ottenere strumentalmente soldi erogati dallo stato, non dovrebbe essere considerato un disoccupato involontario.

Rivalutare la disoccupazione involontaria

Chiaramente svolgere accertamenti del genere, e soprattutto svolgerli con celerità, è impresa tutt’altro che semplice. Nessuno ha una risposta certa e definitiva in tasca, neanche sul perimetro che sarebbe giusto presumere debba avere la nozione giuridica di disoccupazione involontaria. Eppure, i punti di criticità esposti, peraltro a titolo meramente esemplificativo, restano di tutta evidenza.

Credo che debbano essere posti più ad ampio respiro nelle riflessioni del Governo e in particolare del Ministro Marina Calderone, che meglio di chiunque altro conosce queste problematiche.


Luigi Beccaria è avvocato e partner di Studio Elit. Collabora con l’Università degli Studi di Milano e con l’Università Cattolica del Sacro Cuore.

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