Spazio a Social Impact Manager e responsabili della sostenibilità

Sostenibilità, responsabilità sociale, solidarietà: concetti alti, nobili, che hanno però bisogno di qualcuno che aiuti le imprese a metterli in pratica

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social impact manager

di Virna Bottarelli |

Abbiamo visto il ruolo importante dei consulenti del lavoro, ma ci sono anche figure interne alle aziende che sono strategiche in questo senso.

“Scandagliando il mondo dalle aziende, emerge la necessità di un profilo professionale che inglobi la gestione di tutte le tematiche collegate alla sostenibilità e all’impatto sociale, ben oltre il solo aspetto ambientale”, ha detto Manuela Brusoni, docente della Sda Bocconi School of Management. Brusoni ha recentemente curato una ricerca sulla figura del Social Impact Manager, promossa da Asfor insieme a Cottino Social Impact Campus e SAA-School of Management di Torino.

Il Social Impact Manager che verrà

Come spiega Mauro Meda, Segretario Generale di Asfor, il Social Impact Manager “avrà un ruolo strategico nel tradurre dalla teoria alla pratica le azioni di sostenibilità sociale delle organizzazioni e nel costruire una nuova cultura di relazione e condivisione”. In sostanza, è il profilo che all’interno delle aziende si occupa di gestire e di rendicontare, con attenzione specifica, le tematiche di natura sociale connesse con l’attività d’impresa.

“La consapevolezza della propria capacità trasformativa e dell’impatto positivo sono oggi prioritari per le imprese che devono integrare responsabilità sociale e sostenibilità nella loro strategia. Dalla ricerca è emerso quanto sia necessario contemperare le competenze manageriali tradizionali con quelle di leadership nel plasmare la cultura organizzativa e nell’integrare l’impatto in tutte le funzioni aziendali, per definirne gli obiettivi e realizzarlo. Cosicché abbiano effetti positivi verso la società, l’ambiente e gli stakeholder interni ed esterni”, aggiunge Cristina Di Bari, Ceo del Cottino Social Impact Campus.

Anche il responsabile della sostenibilità conta

Altri dati interessanti arrivano da una recente ricerca di Deloitte, che ha scandagliato la figura del responsabile aziendale della sostenibilità nelle imprese italiane. In particolare, sono stati intervistati, da un lato 41 responsabili della sostenibilità che lavorano in aziende con più di 50 dipendenti, di cui 15 in aziende con oltre 250 dipendenti, e dall’altro un campione rappresentativo di 500 imprese. Solo nel 7% dei casi le aziende italiane dispongono di un responsabile della sostenibilità, inquadrato come dirigente (38% dei casi), quadro (30%) o impiegato (27%).

Come dice Franco Amelio, Deloitte Sustainability Leader: “Sarà importante assegnare a queste figure una chiara collocazione della struttura organizzativa. Affinché possano disporre delle leve necessarie a svolgere una funzione di assoluto rilievo”. Per le aziende, la spinta principale verrà dalle aspettative degli stakeholder, siano essi clienti, fornitori o azionisti e non tanto dall’evoluzione normativa. I responsabili intervistati, invece, identificano proprio in quest’ultimo aspetto l’elemento che più inciderà nella crescita di importanza del loro ruolo. In effetti, le statistiche danno loro ragione. Tra le imprese che dispongono già di tale figura nell’assetto organizzativo, quasi 1 su 2 dichiara di averla introdotta per assicurare l’adempimento di requisiti normativi.

Imprese di buona volontà

In conclusione, le imprese hanno un ruolo primario nel dare concretezza ai temi della sostenibilità sociale e ambientale e sembra lo stiano interpretando con impegno. Stando all’ultimo rapporto di Osservatorio Socialis per l’Italia, infatti, le attività in ambito Csr e sostenibilità, intesa come ogni genere di progetto di responsabilità sociale all’interno dell’azienda, compresi quelli per il benessere dei dipendenti e per la responsabilità e/o sicurezza ambientale, sono costantemente in crescita.

La cifra investita dalle imprese italiane in iniziative di questo tipo è in aumento dal 2013. Siamo nell’ambito di quello che viene chiamato “Corporate Giving”. Una sfera che include quattro principali modelli di volontariato:

  • di emergenza, che prevede interventi temporanei e mirati all’interno di un’azienda no profit per tamponare e risolvere questioni sociali urgenti;
  • professionalizzante, rivolto soprattutto ai giovani per offrire loro un percorso di crescita attraverso tirocini nelle Ong;
  • educativo, ossia iniziative nelle quali i lavoratori si impegnano come mentori o modelli di ruolo nei confronti di bambini e ragazzi;
  • di consulenza, una formula collegata al saper fare e alle abilità tecniche di chi la compie, praticata da manager o quadri che mettono a disposizione il proprio tempo per
  • aiutare un’associazione o un’impresa sociale.

Sulla base dei dati raccolti da Osservatorio Socialis, il vantaggio più tangibile nelle imprese che hanno introdotto attività di responsabilità sociale è il miglioramento della reputazione e dell’immagine aziendale. Seguono l’aumento della motivazione del personale, il miglioramento del clima interno, la crescita delle opportunità di mercato, la fidelizzazione della clientela. E, da non trascurare, i vantaggi di natura fiscale. Il volontariato d’impresa è una forma di erogazione liberale fatta dall’azienda verso una organizzazione di Terzo Settore con qualifica di Onlus. Consente la deduzione, nel limite del 5 per mille, delle spese relative all’impiego di lavoratori dipendenti per prestazioni di servizi di questo tipo.

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