di Mario Pagano |
Le moderne tecnologie offrono sempre maggiori opportunità e possono fornire un prezioso contributo anche in relazione alla sicurezza dei lavoratori.
Per certi versi anche l’impiego di strumenti di videosorveglianza, con le moderne Ip Cam con collegamenti telematici da remoto, può essere utile in determinate circostanze come, ad esempio, nella tutela del patrimonio aziendale. Scongiurando o quanto meno dissuadendo dal compimento di furti o ulteriori reati ma anche, come detto, per garantire un pronto intervento nelle ipotesi di lavoratori impiegati su determinati macchinari in reparti isolati. Una costante sorveglianza di tali lavorazioni può garantire un soccorso tempestivo nelle ipotesi di infortunio o pericolo.
Norme e regole della videosorveglianza
L’impiego di tali strumentazioni in ambito lavorativo, tuttavia, non è privo di regolamentazione. Molto spesso i datori di lavoro ritengono che l’uso di impianti di videosorveglianza sia solo una questione di privacy e di rispetto della relativa normativa. E che, conseguentemente, l’affissione della relativa cartellonistica possa essere sufficiente ad assolvere ogni onere e obbligo a proprio carico. Diversamente l’impiego di strumenti di controllo a distanza, come possono essere le videocamere installate all’interno di un luogo di lavoro, trova una complessa regolamentazione nello statuto dei lavoratori e una tutela addirittura di natura penale.
L’articolo 4 L. 300/1970, infatti, prevede che gli strumenti audiovisivi e non solo, dai quali derivi una possibilità di controllo a distanza dei lavoratori, possono essere impiegati a condizione che ricorra una giustificazione ritenuta apprezzabile dal legislatore. Ossia un interesse meritevole di tutela. In tal senso, il comma 1 dell’articolo 4 ritiene presente tale interesse tutte le volte in cui l’impiego di tali strumenti sia giustificato da esigenze organizzative e produttive. Ancora, da ragioni di tutela della sicurezza delle condizioni di lavoro e per la protezione del patrimonio aziendale.
Il primo dato che emerge dalla semplice lettura della norma è che il generico impiego di videocamere che inquadrino il lavoratore mentre esegue le proprie mansioni risulta del tutto vietato. Il controllo a distanza dei lavoratori è, come detto, permesso solo se risulta del tutto accidentale rispetto al raggiungimento di una differente finalità che il datore di lavoro vuole ottenere. Ma che, cosa fondamentale, rientri tra quelle tipizzate dalla disposizione in questione.
L’accordo sindacale
Per certificare la reale sussistenza di almeno una di siffatte condizioni, il datore di lavoro, per il lecito impiego dell’impianto audiovisivo, dovrà siglare uno specifico accordo collettivo con le rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione o in più regioni, tale accordo potrà essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Per l’accordo non è necessaria l’unanimità, ma sarà sufficiente la sottoscrizione da parte della sola maggioranza delle rappresentanze sindacali aziendali. O meglio, da parte delle Rsa, che esprimano la maggioranza del personale.
Ciò secondo quanto spiegato dal Ministero del Lavoro con interpello n. 2975 del 5.12.2015. In quanto l’unanimità finirebbe per tradursi in un vero e proprio “diritto di veto”, utilizzabile anche dalla rappresentanza sindacale più esigua, che potrebbe, in tal modo, vanificare l’accordo raggiunto con le altre componenti aziendali. Inoltre, aspetto tutt’altro da sottovalutare, l’accordo sindacale non può in nessun modo essere sostituito dal consenso prestato all’installazione da parte di tutto il personale dipendente interessato. In altre parole una sorta di liberatoria rilasciata dai dipendenti.
La Cassazione, da ultimo con sentenza 17.01.2020 n. 1733 ha chiarito come solo le rappresentanze sindacali abbiano il potere e diritto di salvaguardare gli interessi collettivi e non individuali tutelati dall’art. 4. Una posizione del tutto differente dai singoli lavoratori che, a causa della posizione di svantaggio nella quale versano rispetto al datore di lavoro, potrebbero rendere un consenso evidentemente viziato.
Il provvedimento di autorizzazione
In difetto di accordo sindacale o, nell’ipotesi in cui in azienda non siano presenti rappresentanze sindacali, il datore di lavoro avrà ancora una possibilità. Potendo chiedere all’Ispettorato territoriale del lavoro apposita autorizzazione all’impiego dell’impianto audiovisivo. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, alla sede centrale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro.
Più di recente, con la nota 2572/2023 l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha precisato che, per le aziende con unità locali ubicate su più province, il datore di lavoro potrà indifferentemente presentare istanza presso tutte le sedi dell’ispettorato, ove è ubicata la singola unità locale o, più semplicemente, investire la sede centrale dell’Inl. Se in un’unica provincia si ritrovano più unità, invece, sarà possibile presentare un’unica istanza ed ottenere un’unica autorizzazione. A condizione che tutti gli impianti installati siano giustificati dalla medesima ragione normativa.
Inoltre, se il datore di lavoro deve installare un nuovo impianto presso una nuova unità produttiva, le aziende già autorizzate potranno semplicemente presentare un’istanza di integrazione. A condizione, tuttavia, che le ragioni giustificatrici risultino essere sempre le medesime. Esattamente come per l’accordo sindacale, anche per il provvedimento di autorizzazione la finalità è valutare la presenza effettiva di una delle ragioni normative che rende lecito l’utilizzo dell’impianto. In tal senso, ove non mutino le esigenze e sia necessario installare un nuovo impianto presso, ad esempio, una nuova unità produttiva, ovvero integrare l’impianto esistente con un ulteriore telecamera, le aziende già autorizzate potranno semplicemente presentare un’istanza di integrazione.
Allo stesso modo, nell’ipotesi in cui vi sia una semplice modifica della titolarità aziendale, con subentro di una nuova compagine presso una realtà nella quale sia presente un impianto già autorizzato, il datore di lavoro subentrante dovrà semplicemente comunicare all’Ufficio, che in precedenza ha rilasciato l’autorizzazione, gli estremi della stessa. Attestando che il cambio di titolarità non ha comportato mutamenti nei presupposti legittimanti il suo rilascio, né sulle modalità di uso dell’impianto audiovisivo o dello strumento autorizzato.
Va, tuttavia, precisato che la strada dell’autorizzazione non è alternativa all’accordo sindacale. Bensì, come più volte chiarito dalla stessa giurisprudenza (sentenza Cassazione 50919/19), almeno al tentativo di accordo o valida in caso di assenza di rappresentanze sindacali.
Videosorveglianza e apparato sanzionatorio
Le procedure sopra esaminate, come accennato in premessa, non sono di poco conto in quanto l’art. 4 della L. 300/1970 è tutelato da un apparato sanzionatorio di natura penale. Nella prassi, inoltre, accade che il datore di lavoro proceda preventivamente ad installare le telecamere, effettuando eventualmente delle semplici prove di collaudo. E, solo successivamente, si attivi per siglare un eventuale accordo sindacale o ottenere l’autorizzazione da parte dell’Ispettorato. Tale scelta risulta del tutto errata.
Il datore di lavoro, infatti, non può procedere all’installazione dell’impianto senza prima aver siglato accordo sindacale o in subordine aver ottenuto l’autorizzazione da parte dell’Ispettorato. La violazione di tali adempimenti costituisce un vero e proprio reato di pericolo che, per definizione, si consuma con una lesione solo potenziale e non necessariamente effettiva del bene giuridico tutelato. In buona sostanza, anche la semplice installazione di una sola telecamera, eventualmente mai accesa, può costituire una violazione della norma in questione. La quale risulta punita con la pena dell’ammenda da 154 a 1.549 euro o dell’arresto da 15 giorni a un anno.
Del resto, non va dimenticato che il bene giuridico protetto dall’art. 4 è rappresentato dalla dignità e riservatezza del lavoratore. Al punto che anche una telecamera non attiva se non addirittura finta risulta idonea a realizzarne la lesione. Va detto, tuttavia, che, trattandosi di illecito di carattere penale, il personale ispettivo che ne accerti la violazione potrà procedere con un provvedimento di prescrizione obbligatoria ex D.Lgs. 758/94. Finalizzato alla regolarizzazione della violazione accertata, di norma, attraverso la rimozione dell’impianto.
Altra strada che consente un ritorno alla legalità è quella di un ottenimento, seppure tardivo, dell’accordo o del provvedimento di autorizzazione. In entrambi i casi il datore di lavoro avrà la possibilità di essere ammesso al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura di un quarto del massimo ossia euro 387,25 che permetterà di estinguere il reato in via amministrativa.
Casistiche e sentenze
Un ultimo aspetto meritevole di considerazione attiene alle casistiche in presenza delle quali il datore di lavoro è effettivamente tenuto al rispetto delle procedure sopra esaminate. Innanzitutto, come precisato dall’Inl con la citata recente nota 2572/2023, gli obblighi dell’art. 4 scattano solo nella misura in cui sia presente personale dipendente, con contratto di lavoro subordinato o assimilato. In tal categoria rientrano le collaborazioni etero- organizzate, regolate dall’art. 2 del D.Lgs. 81/2015. Nonché i lavoratori autonomi, impiegati mediante piattaforme digitale, secondo la disciplina contenuta nel Capo V-bis del medesimo D.Lgs. 81/2015.
Va considerato anche il perimetro spaziale dei locali aziendali, investiti dall’art. 4. Sempre l’Inl, con circolare 5/2019, ha ricordato l’orientamento giurisprudenziale che tende a identificare come luoghi soggetti alla normativa in questione anche quelli esterni, dove venga svolta attività lavorativa in modo saltuario o occasionale (ad esempio zone di carico e scarico merci). La Corte di Cassazione penale (sentenza n. 1490/1986) afferma, infatti, che “l’installazione di una telecamera diretta verso il luogo di lavoro dei propri dipendenti o su spazi dove essi hanno accesso anche occasionalmente, deve essere preventivamente autorizzata da uno specifico accordo con le organizzazioni sindacali ovvero da un provvedimento dell’Ispettorato del Lavoro. Sarebbero invece da escludere dall’applicazione della norma quelle zone esterne estranee alle pertinenze della ditta, come ad esempio il suolo pubblico, anche se antistante alle zone di ingresso all’azienda, nelle quali non è prestata attività lavorativa”.
Infine, dall’ambito dell’art. 4 vanno esclusi i cosiddetti controlli difensivi, ossia volti a scongiurare il compimento di reati eventualmente in danno del patrimonio aziendale. La Cassazione (sentenza n. 34092 del 12.11.2021) ha circoscritto detti controlli solo a quelli diretti ad accertare specifiche condotte illecite ascrivibili (in base a concreti indizi) a singoli dipendenti. Anche se questo si verifica durante la prestazione di lavoro.
Secondo la Cassazione, questi controlli, anche se effettuati con strumenti tecnologici, non avendo come oggetto la normale attività del lavoratore, sono da considerarsi estranei al perimetro applicativo dell’art. 4 della L. 300/70. Tuttavia, tale tipo di controllo deve essere effettuato ex post. Ossia solo a seguito del fondato sospetto del datore circa la commissione di illeciti ad opera del lavoratore.
* Mario Pagano è collaboratore della Direzione Centrale Coordinamento Giuridico dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Le considerazioni esposte sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.