di Virna Bottarelli |
“Erano i primi anni Duemila. Lavoravo da quasi vent’anni in banca e ricoprivo un ruolo manageriale importante. Avevo creato la prima banca on line in Italia. Dopo il trasferimento a Milano, avevo un’ottima posizione lavorativa, compensi elevati: facevo parte a tutti gli effetti della parte privilegiata della società. Ma i miei obiettivi a un certo punto sono cambiati e ho scelto di lasciare tutto per mettermi a disposizione di chi reputavo avesse bisogno di aiuto, delle persone tenute ai margini della società, dimenticate. Mi sono così avvicinata al mondo delle carceri, che credo sia un pezzo di mondo scomodo, popolato da persone che finiscono in una sorta di dimenticatoio collettivo”.
Luciana Delle Donne racconta così la scelta di vita che l’ha portata dai vertici del mondo della finanza al Terzo Settore. Originaria di Lecce, è la fondatrice della cooperativa sociale Officina Creativa, nata per promuovere il lavoro delle detenute. “Mi sono interessata in particolare alle donne. Mi colpiva il fatto che una percentuale altissima di loro erano madri e mi figuravo la difficoltà dei loro figli a vivere senza la vicinanza di un genitore, dal punto di vista affettivo e materiale. Volevo quindi fare qualcosa per dare a queste mamme la possibilità di provvedere, anche economicamente, alle proprie famiglie. Imparando un mestiere, lavorando, avrebbero potuto ritrovare fiducia in sé stesse, sentirsi utili. Così sono nate la onlus Officina Creativa e il marchio Made in Carcere”.
Nei laboratori allestiti all’interno degli istituti carcerari le detenute svolgono lavori di sartoria, confezionando manufatti come borse e gadget di vario tipo, che poi vengono venduti al pubblico. “In questo modo, si sperimenta davvero il fine ultimo della pena: il reinserimento lavorativo e sociale nel tessuto produttivo del Paese”, dice ancora Delle Donne. “Promuoviamo un modello di economia rigenerativa, riparativa e trasformativa, che fa bene a tutti: individuo, comunità e ambiente. Perché lavoriamo tessuti che le imprese del settore moda ci donano, evitando così di ingolfare i sistemi di smaltimento rifiuti”.
Le voci di costo della onlus sono essenzialmente i macchinari e i salari dei lavoratori. “Ho scelto di non ricevere alcun compenso dalla cooperativa”, precisa Delle Donne, “proprio per non gravare sul suo bilancio e poter avere per i nostri prodotti prezzi il più possibile competitivi”. Attualmente Officina Creativa dà lavoro a 45 persone e Made in Carcere è solo una delle diverse iniziative in cui è impegnata. Opera nelle carceri di Lecce, Trani, Matera, Taranto e Bari.
Cosa significa fare impresa e offrire un lavoro nel contesto degli istituti di pena?
Significa adattarsi a tempi e regole che non sono quelli del mondo in cui vivono le persone libere. Il carcere ha i propri regolamenti, le proprie tempistiche, le detenute possono essere trasferite, i rapporti interpersonali non sempre sono sereni. Sono tanti i fattori che possono ostacolare il lavoro di un laboratorio e non è semplice mantenere una certa efficienza produttiva. Nel nostro caso, inoltre, i prodotti, le lavorazioni e i flussi di lavoro dipendono dai materiali che ci arrivano. Oggettivamente, quindi, le difficoltà sono diverse, a cominciare dal fatto che il mercato non dà grandi opportunità, in termini di lavoro e di business, agli istituti di pena. C’è forse una maggiore consapevolezza della situazione delle carceri, del sovraffollamento e dei disagi, ma poco è migliorato da vent’anni a questa parte: questo mondo rimane, come dicevo inizialmente, scomodo.
Come sono inquadrate le persone che lavorano per Officina Creativa?
Le detenute, e oggi anche i detenuti, perché nel tempo si sono aggiunti anche gli uomini, sono a tutti gli effetti dipendenti della cooperativa e il rapporto di lavoro è disciplinato dal Ccnl di riferimento. Sono assunti inizialmente come tirocinanti, poi con un contratto a tempo determinato di sei mesi, e poi a tempo indeterminato per tutto il periodo della pena detentiva. La retribuzione varia dai 500 euro del tirocinio agli 800-900 euro per un impiego a tempo indeterminato. Una volta uscite dal carcere le persone hanno buone possibilità di trovare un’occupazione. In laboratorio ricevono una vera e propria formazione, acquisiscono competenze tecniche e abilità manuali. Non solo: imparano che cosa significa stare in un contesto lavorativo che ha ritmi e regole precise.
C’è un processo di selezione per individuare le risorse che possono lavorare nei laboratori?
In carcere opera un’equipe di educatori che conosce i detenuti e individua chi tra loro può lavorare in laboratorio. I posti non sono illimitati ed è importante sia capire chi ha l’attitudine per collaborare in un contesto lavorativo, sia chi più ne ha bisogno, magari perché in una situazione di particolare fragilità. Capisco bene che non è semplice interagire con persone che hanno problematiche di vario tipo, seguono particolari terapie, sono emotivamente instabili, ma sono convinta che sia fondamentale sforzarsi di coinvolgere anche queste persone. Perché rivedere la luce nei loro occhi grazie alla possibilità che hanno di lavorare e di riacquistare una propria dignità è una soddisfazione enorme.
Il lavoro, così, acquista il suo significato più profondo…
Per un detenuto la condanna più atroce è passare le giornate senza un obiettivo, attendendo passivamente lo scorrere del tempo. Ma avere un’attività lavorativa quotidiana non è solo un modo per riempire le giornate: è una vera e propria opportunità per costruirsi un’identità. Nel nostro caso, inoltre, poiché lavoriamo scarti di produzione delle aziende tessili e ridiamo vita a materiali che andrebbero altrimenti al macero, abbiamo anche un obiettivo di sostenibilità sociale e ambientale. Un ulteriore motivo di orgoglio per le persone che lavorano con noi. Dalla detenzione, quindi, si creano valori come la rieducazione personale, l’abbattimento della recidiva e la sostenibilità ambientale.
Ha citato la formazione come aspetto chiave della vostra attività. Come si svolge?
Normalmente sono le colleghe più esperte che danno una mano a quelle meno esperte, ma l’apprendimento in laboratorio è continuo. Soprattutto, le persone imparano a essere autonome e responsabili, cosa che alimenta la loro autostima e la fiducia in loro stesse. Anche il fatto di poter decidere gli accostamenti cromatici nel confezionare un prodotto è per loro una soddisfazione. Possono scegliere qualcosa in autonomia in un contesto, il carcere, nel quale non ci sono molte possibilità di scelta.
Quali competenze servono per lavorare con persone detenute, che hanno un vissuto sicuramente non facile?
I detenuti e le detenute, che hanno un grande bisogno di relazionarsi con l’esterno, con persone diverse da quelle che ogni giorno vedono in carcere, non hanno le sovrastrutture mentali che una persona libera si costruisce vivendo in un contesto di normali interazioni sociali. Di fatto, è come se loro sensi fossero particolarmente acuiti: per questo percepiscono immediatamente se l’altro è lì davvero per supportarli o meno. Lavorare a contatto con queste persone è una palestra di vita: entriamo in un universo che ha valori propri e l’empatia è fondamentale. Come dico sempre, in ambienti come quello del carcere, ma anche fuori, per scontrarsi e litigare ci vuole poco. È certamente più impegnativo entrare in sintonia e saper perdonare.
Quanto è stato importante il suo passato da manager nell’avviare e condurre questa attività di volontariato?
Diversi fattori mi hanno aiutata. In primis, da manager conoscevo i volumi di denaro che muovevano le multinazionali, quindi quando ho iniziato a fare volontariato e a chiedere alle aziende un supporto per progetti benefici, sapevo su che cosa fare leva per coinvolgerle nelle mie iniziative. Cifre che, per queste realtà, sono minime, possono essere un sostegno importante per un progetto no-profit. In secondo luogo, nella mia vita professionale ho imparato, tra le altre cose, quanto sia importante avere dei flussi di lavoro che funzionano, saper distinguere tra priorità, emergenze e urgenze. Sono conoscenze determinanti anche in un’impresa sociale, che deve essere ben organizzata e gestita.
Lei ripete spesso che “dare e darsi è la nuova frontiera della ricchezza”. Cosa intende dire?
Ho capito in prima persona che il benessere non è dato solo dal denaro che si possiede. Mi sono resa conto che la soddisfazione di aiutare una persona a riacquistare fiducia in sé e ad essere felice di quello che fa, non è paragonabile a nessuno dei benefici che si possono trarre dalla ricchezza materiale.
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