di Giorgia Andrei |
“Il Sonno nella Società Tecnologica: un paradigma innovativo per salute e sicurezza” è stato il tema della decima edizione di Italia Sonno, evento dedicato alla medicina del sonno tenutosi a Roma il 2 e 3 dicembre.
Per chi si occupa di lavoro è stato interessante, tra gli altri, l’intervento di Nicola Magnavita, professore associato in Medicina del Lavoro presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Al centro, il tema del tecnostress sul lavoro e delle implicazioni di questa problematica sul sonno. Come spiega Magnavita, “ogni epoca, ogni lavoro, ha avuto problemi con la tecnologia. La stessa medicina del lavoro, che è una delle discipline mediche più antiche, giacché la sua nascita è datata alla pubblicazione del De Morbis Artificum Diatriba del 1699, trattava dei problemi causati dalla tecnologia”.
È chiaro che considerata l’epoca in cui viviamo e la pervasività della tecnologia nelle nostre professioni, oltre che nelle nostre vite in generale, la problematica sia oggi particolarmente sentita. Dice ancora Magnavita: “Naturalmente, in quell’epoca la medicina non aveva ancora acquisito il concetto di stress. Cioè di un agente che pone sotto tensione gli organismi viventi, inducendo quella reazione generale di adattamento il cui fallimento provoca lo strain. È stato quindi necessario arrivare agli anni Cinquanta del secolo scorso perché si cominciasse a parlare di stress e strain. E al 1984 perché Craig Brod, osservando le conseguenze della prima rivoluzione informatica sulle persone che avevano maggiori difficoltà di adattamento, coniasse il termine tecnostress”.
Come si inserisce il tecnostress nel testo unico sulla sicurezza D.Lgs. 81/08?
L’impostazione europea vuole che il datore di lavoro proceda alla valutazione di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori. Facendosi coadiuvare in questo compito da un tecnico, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, e da un medico, il medico competente. Oltre ai tradizionali rischi chimico, fisico e biologico, che fanno parte da sempre del patrimonio della prevenzione, egli dovrà considerare i rischi psico-sociali. Tra i quali ricordiamo la fatica, il sonno, la violenza e lo stress da lavoro.
Il tecnostress è uno dei fattori di stress dei quali occorre tenere conto. Perché potrebbe indurre nei lavoratori una condizione di strain o “tecnostrain”, che non è ancora una malattia ma, in assenza di trattamento, può causare importanti patologie.
Ci sono dei numeri della diffusione del fenomeno tra i lavoratori in Italia?
Possiamo dire che tutti i lavoratori italiani sono esposti al tecnostress, perché tutti utilizzano tecnologie dell’informazione e della telecomunicazione e queste sono in continua evoluzione. Il grado di esposizione varia, ma soprattutto varia la personale capacità di gestire il cambiamento. La “work annoyance” è il grado di disagio che ciascuno sente per alcune caratteristiche del lavoro. Questa variabile oggi può essere misurata con uno strumento che ho elaborato. Ci sono lavoratori che sono più sensibili ai cambiamenti tecnologici, altri che soffrono per il protrarsi dell’orario di servizio o per il lavoro notturno. Il compito della prevenzione non è respingere la tecnologia, ma aiutare i soggetti che potrebbero subire conseguenze negative.
Quali lavoratori risultano essere più esposti al rischio di tecnostress?
All’epoca della prima rivoluzione informatica gli studiosi pensavano che fossero esposti al tecnostress soprattutto gli operai delle aziende che venivano automatizzate e gli impiegati dei settori che passavano al digitale. Ho trovato un mio articolo del 1981 “Industrializzazione e disadattamento. Osservazioni sull’evoluzione dell’atteggiamento verso il lavoro condotte nell’arco di dieci anni” e un volume del 1986: “Bancariomat. Indagine sulla condizione di lavoro nella banca informatizzata” che trattavano dello stress legato alla trasformazione tecnologica.
A più di 40 anni, sappiamo che il tecnostress riguarda tutti. I più esposti sono i lavoratori anziani e quelli con minori risorse culturali. Mentre i lavoratori con una formazione adeguata hanno tratto grandi vantaggi dal tecnostress, giacché le Ict sono state per loro fonte di occupazione. Non dimentichiamo però che la tecnologia non si ferma e che i suoi più recenti sviluppi, ad esempio l’Intelligenza Artificiale, pongono tutti gli informatici di fronte all’esigenza di imparare le nuove tecnologie, o di uscire dal mercato del lavoro. Anche gli esperti di Ict, quindi, oggi sono molto esposti al tecnostress.
Come si arriva alla diagnosi di un disturbo di questo tipo?
Per identificare i lavoratori che si trovano in uno stato di tecnostrain si può facilmente indagare la loro percezione, mediante un questionario. Mentre diagnosticare correttamente l’origine di una patologia psichiatrica o fisica è tutt’altro che facile, perché il tecnostress è solo uno dei mille fattori di rischio professionale. E non è possibile distinguere nel singolo caso la quota di ansia o di insonnia o di mal di stomaco o di mal di testa che è da attribuire alle nuove tecnologie e non ad altri fattori. Può accadere di leggere studi approssimativi, che misurano un solo rischio (il tecnostress) e attribuiscono qualsiasi disturbo osservato a quest’ultimo.
Per capire quali possono essere gli effetti del tecnostress bisogna dedicare molta attenzione al disegno epidemiologico. Realizzando ad esempio un confronto tra lavoratori esposti al tecnostress e lavoratori non esposti, che non sono facili da trovare visto che il cambiamento tecnologico è pervasivo. Oppure bisogna misurare le condizioni di salute prima del cambiamento tecnologico e seguire i lavoratori per un tempo sufficiente a vedere eventuali danni per la salute, cosa che è molto costosa, perché impegna i ricercatori per lungo tempo.
Gli studi migliori ci consentono oggi di affermare che l’uso delle tecnologie digitali è associato a specifiche esigenze psicosociali (ad esempio carico di lavoro più elevato, complessità, conflitti tra lavoro e altri ambiti della vita) con conseguenti reazioni di stress psicobiologico. Non è però ancora chiaro se questo tipo di tecnostress causi disturbi mentali. Un numero crescente di studi suggerisce che un lavoro digitale ben progettato può promuovere una buona salute se ottimizza l’organizzazione del lavoro, o consente una maggiore flessibilità, e aumenta il controllo e l’autonomia sul lavoro. Quando gli strumenti Ict sono pianificati e utilizzati strategicamente, possono arricchire l’esperienza dei dipendenti, influenzando positivamente il livello individuale e organizzativo.
Quali sono le conseguenze sulla salute? Quale la relazione con i disturbi del sonno?
L’individuo che non ha sufficienti risorse per gestire il cambiamento tecnologico può trovarsi in una condizione di “distress”. Che, se troppo prolungata o associata ad altri eventi, potrebbe causare problemi di salute mentale (insonnia, ansia, depressione, fatica mentale eccessiva, burnout) o fisica, che interessano sistema digerente, cardiovascolare, neurosensoriale, endocrino-metabolico e immuno-ematologico. I disturbi del sonno sono spesso il primo segnale negli individui che hanno subito uno stress troppo intenso o prolungato.
La relazione tra stress e sonno è complessa e ha certamente una polarità binaria. Il lavoratore che subisce uno stress eccessivo potrà avere disturbi del sonno, ma è anche vero che il lavoratore che soffre di insonnia sarà meno resistenteallo stress e più facilmente cadrà in uno stato di distress. I nostri studi hanno dimostrato che l’associazione di stress lavorativo e problemi del sonno moltiplica il rischio metabolico e cardiovascolare e stiamo conducendo indagini per valutare se mettono in atto anche alterazioni epigenetiche che potrebbero aprire la porta a patologie neoplastiche.
Le generazioni dei “nativi digitali” hanno coscienza del problema?
La conoscenza del problema non è in generale elevata e c’è da temere che non sia diffusa tra i nativi digitali. Ritengo che l’educazione scolastica possa fare ben poco se somministrata con la consueta modalità delle lezioni accademiche e dei libri da leggere. Per raggiungere una popolazione abituata a nutrirsi di “reel” occorre produrre messaggi brevi e accattivanti, di fruizione immediata.
Che cosa suggerisce per limitare “i danni” da un uso eccessivo e non corretto della tecnologia?
Gli studiosi dell’evoluzione della specie umana hanno notato l’associazione tra la complessità della corteccia cerebrale e la tecnologia. Ma non sanno dire se è stata la crescita del cervello a determinare la nascita di nuova tecnologia o la tecnologia a stimolare il cervello alla crescita. È probabile che i due fenomeni vadano di pari passo. Per gestire correttamente la tecnologia abbiamo bisogno di cultura, di meditazione e di ascolto. Ascoltare i lavoratori, pensare alle possibili soluzioni adatte al caso specifico, sviluppare nuove conoscenze.
La parola a Sergio GarbarinoPresidente e responsabile scientifico di Italia Sonno, Sergio Garbarino è intervenuto al convegno di Roma parlando di disturbi del sonno emergenti. “Stanno emergendo sempre più i potenziali rischi associati all’invasione digitale e alle abitudini digitali scorrette. Che possono rivelarsi dannosi sulla salute e favorire l’insorgere di disturbi del sonno con conseguenti ricadute negative sulla performance psicofisica e sulla sicurezza”, dice. Per quale ragione esiste un forte legame tra sonno, tecnostress e stress lavoro-correlato?Quando si vive una condizione di distress sul lavoro, soprattutto se associata a Ict, può essere difficile lasciare il lavoro in ufficio. Il lavoro può occupare il nostro cervello mentre guidiamo, mangiamo e stiamo con la famiglia o gli amici. Ma la battaglia per controllare la nostra mente può intensificarsi proprio quando la sera cerchiamo di addormentarci. ln sostanza, “sonno e stress sono concorrenti”. Il distress attiva continuamente una parte del cervello che altrimenti verrebbe utilizzata per dormire. Infatti, secondo l’American Academy of Sleep Medicine, lo stress lavorativo può essere causa di insonnia da adattamento, che può durare settimane o mantenersi per più tempo. Ed è caratterizzata da pensieri ruminativi. Come quando ci soffermiamo costantemente sugli stessi pensieri sdraiati a letto a fissare il soffitto, incapaci di smettere di pensare al lavoro. Ci sono evidenze scientifiche a riguardo?Negli Stati Uniti, secondo l’Istituto nazionale per la sicurezza e la salute sul lavoro, i disturbi del sonno sono un segnale di allarme precoce di distress occupazionale. Il tipo di distress lavorativo può influenzare il sonno in diversi modi. In uno studio pubblicato sull’International Journal of Behavioral Medicine, l’insonnia è stata correlata a tre fattori: elevate esigenze lavorative, scarsa influenza sulle decisioni e alta competenza professionale. Un altro studio pubblicato sulla rivista Social Science Medicine ha collegato il sovraccarico di lavoro alla scarsa qualità del sonno. Avere conflitti di ruolo sul lavoro era legato a un sonno non ristoratore e a difficoltà all’addormentamento. I lavoratori che svolgono compiti ripetitivi su device elettronici avevano maggiori probabilità di faticare ad addormentarsi o a mantenere il sonno. Fra i fattori studiati per comprendere la relazione fra distress lavoro-correlato e sonno, la genetica ha ricevuto una notevole attenzione. Sono stati infatti identificati diversi fattori genetici come i genotipi dei geni PER3 e 5HTR2A. I quali hanno effetti combinati con il distress lavorativo sulla qualità del sonno. Sebbene i risultati di queste ricerche migliorino la nostra comprensione della relazione fra distress lavorativo e qualità del sonno, esistono ancora dei limiti che dovremo affrontare nel prossimo futuro. |