Qualificare gli immigrati con la formazione

Non soltanto non dobbiamo temere gli immigrati, ma dobbiamo sostenerne la crescita in termini educativi e formativi, non essendo separabile il loro destino da quello della comunità di cui sono entrati a far parte

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Favorire la formazione degli immigrati

di Luca Cefisi |

Il discorso sulla formazione applicata al mondo dell’immigrazione dovrebbe forse per prima cosa fare i conti con la peculiarità italiana, piuttosto che con una presunta peculiarità degli immigrati.

Risulta, infatti, che l’immigrazione in Italia sia meno qualificata rispetto alla media dell’immigrazione “extracomunitaria” in Europa. Secondo il XIII Rapporto annuale. Gli stranieri nel mercato del lavoro in Italia del Ministero del Lavoro e Politiche Sociali “solo il 12% degli immigrati ha una laurea, contro il 20% dei nativi”. Si noti che nell’Unione Europea gli immigrati, intesi come cittadini nati all’estero, tra i 15 e i 64 anni, non iscritti a corsi di studio, dotati di un titolo di studio successivo al diploma di scuola media superiore, risultano al 29% rispetto al 32% dei nativi europei.

Correttamente, non si calcolano gli “stranieri” per passaporto che siano nati invece, per esempio, in Italia. Per i quali la conoscenza sin dall’infanzia della lingua locale e il percorso di studi comune agli altri cittadini non consente più di parlare di un divario di formazione in quanto immigrati. Fermi restando gli eventuali svantaggi socioeconomici, trasversali a immigrati e nativi. Questo per far notare come siano sovente esagerate e allarmistiche le denunce di un eccessivo numero di bambini “stranieri” in certe classi.

Riprendendo il filo, la media europea summenzionata va poi decodificata. Osservando per esempio che la Danimarca ha il 40% di stranieri laureati, qualcosa in più dei nativi danesi, la Germania si attesta su 26% e 30% rispettivamente, la Svezia al 40% per entrambi i gruppi, e così via.

Una immigrazione poco qualificata

Quello che appare significativo, è che il dato dell’istruzione degli immigrati in Italia sembra in qualche modo proporzionato al livello di laureati, tra i più bassi a livello europeo, e si deve ritenere che vi sia quindi una precisa correlazione. Del resto, gli immigrati il cui approdo non è stato determinato da un preciso progetto migratorio, come la riunificazione familiare, ma è dovuto a circostanze di forza maggiore (i richiedenti asilo) tendono a rifiutare di stabilirsi in Italia. Generando i conseguenti, e molto discussi, fenomeni di “migrazione secondaria”.

È insomma, ragionevole ritenere che un cattivo impiego delle risorse umane e una scarsa domanda di lavoro qualificato scoraggino i migranti qualificati dal considerare l’Italia come una buona meta. L’altra faccia di questa medaglia è nel lamentato fenomeno della fuga all’estero di giovani italiani qualificati. Ma anche degli stranieri in Italia che si trasferiscono in un Paese terzo dopo un soggiorno più o meno lungo sarebbe da studiare, e dovrebbe confermare il quadro. Dunque, un’immigrazione relativamente povera di qualifiche per un’economia, quella italiana, che non brilla per opportunità, livelli salariali, mobilità verso l’alto neppure per i nativi.

La formazione degli immigrati

Del resto, anche la parte più affluente dell’immigrazione in Italia sembra sovente disconnessa dal criterio della formazione. Soprattutto se consideriamo l’importanza che hanno nella produzione di reddito da lavoro immigrato il commercio e l’imprenditoria, dove il titolo di studio non è di norma formalmente necessario. Il che, come sappiamo, può funzionare bene nella ristorazione, nel piccolo commercio, in certi servizi, e meno bene in aree imprenditoriali a maggior valore aggiunto e avanzate tecnologicamente.

Ma, anche qui, l’imprenditoria immigrata non dev’essere troppo diversa dalla piccola impresa italiana, nel bene e nel male. Insomma, gli immigrati in Italia non sono una comunità chiusa, ma le problematiche della loro formazione per sostenerne l’accesso e il successo nel mondo del lavoro non sono facilmente, né necessariamente, separabili dalle problematiche generali che conosciamo per tutta la popolazione.

Un percorso verso la legalità

Ciò detto, alcune specificità vanno rimarcate. Una molto importante, che tocca, prima ancora che le competenze, la partecipazione alla cittadinanza, è l’insegnamento dell’italiano, che dovrebbe tenere ben presente sia certi immigrati anziani, sia certi settori lavorativi. Si pensi alle migliaia di donne impegnate nel lavoro domestico, dove possono sussistere condizioni di segregazione sociale, e dove quasi mai le famiglie richiedono particolari qualifiche e anzi si assiste frequentemente a una rincorsa verso il basso. In questo senso, il tema del lavoro domestico qualificato, in particolare in ambiti delicati quale l’assistenza agli anziani, appare come un terreno ancora trascurato.

In generale, le ampie aree di lavoro illegale, nel lavoro di cura come in agricoltura, non possono che essere affrontate con l’affermazione rigorosa della legalità. Questo, pur ammettendo l’ampiezza di un fenomeno che può essere descritto così: famiglie e piccole aziende, “soffrendo”, per così dire, il sistema dei flussi così come strutturato sin dal 1990, che prevede un sistema di quote numeriche troppo complesso, hanno ricercato la conoscenza diretta con l’eventuale collaboratore o collaboratrice immigrata. Assunti “in prova” senza badare a permessi di soggiorno e contratti, per poi magari, una volta rassicurate, affidarsi volentieri alle periodiche sanatorie per mettere in regola chi nel frattempo era diventato una persona con un nome, una storia, e con cui si era stretta una relazione più o meno fiduciaria.

La soluzione evidente, per guadagnare spazi di legalità, è nel permesso di soggiorno per ricerca di lavoro. O nella regolarizzazione come opportunità sempre aperta a titolo individuale, a certe condizioni. Una soluzione per cui non si è mai trovato un consenso politico, risultando regolarmente preferita la soluzione dell’ennesima sanatoria, sempre annunciata come ultima e finale.

Esiste poi il tema, particolare e urgente, della formazione dei richiedenti asilo, rifugiati e portatori di un permesso di protezione speciale. L’offerta formativa, in primo luogo linguistica, è cruciale, poiché parliamo di persone che non hanno effettivamente scelto, tanto meno pianificato, di rifugiarsi in Italia. Vogliamo qui citare anche il tema di un riconoscimento legale della figura del mediatore culturale, che non trova per ora una definizione adeguata di criteri professionali condivisi a livello nazionale. Se non, in modo decisamente insufficiente, in certe gracili previsioni a livello regionale.

La necessità di lavoro immigrato

Rimane poi da liberarsi del tema degli stranieri che portano via il posto agli italiani. Se questo ben difficilmente avviene nei non pochi settori corporativamente protetti (avete mai visto, in Italia, al contrario che in quasi tutto il resto del mondo, un tassista immigrato?), può avvenire nei settori del commercio dove vige una maggiore concorrenza. In effetti, l’imprenditoria immigrata ha aperto piuttosto nuovi settori di mercato con benefici a cascata. Si pensi per esempio alla ristorazione “etnica”, nel quadro di città dove l’offerta deve necessariamente rispecchiare la globalizzazione. Il fatto è che mai come oggi c’è stato bisogno di lavoro immigrato.

È il dato demografico a essere evidente. Se l’immigrazione a fine anni Novanta e primi Duemila ancora bilanciava il deficit demografico, oggi non è più così. Vediamo come la popolazione residente in Italia, nonostante l’immigrazione, sia ormai in costante diminuzione. Ben vengano le politiche sociali a sostegno della natalità, ma anche da questo punto di vista una contrapposizione tra incentivi alla natalità e nuova immigrazione appare ideologica e irrealistica.

La partita è quindi non soltanto nel non temere gli immigrati, ma nel sostenerne la crescita in termini educativi e formativi. Non essendo separabile il loro destino da quello generale della comunità nazionale di cui sono entrati a far parte, nel quadro evidentissimo di una sola comunità di destini.

Chi è Luca Cefisi

Luca Cefisi ha diretto interventi di accoglienza e rimpatrio per diverse ong italiane. Inoltre, è stato consulente del governo per gli aiuti agli sfollati dell’ex Jugoslavia. Ha scritto “Bambini Ladri”, sulla condizione dei rom balcanici in Italia, e ha partecipato a ricerche sulla situazione degli immigrati nel Paese. Ha tenuto corsi presso università italiane e corsi di formazione per operatori del settore presso Formez e Scuola Superiore del Ministero dell’Interno. Attualmente coordina progetti di promozione sociale per Unipromos ed è consigliere del Centro Studi di Unsic, Unione Nazionale Sindacale Imprenditori e Coltivatori.

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