di Mario Pagano | Una delle tipologie contrattuali spesso sottovalutate, che può offrire ottime opportunità in termini di costi e flessibilità, è senza dubbio quella del lavoro intermittente o a chiamata.
Da una parte, infatti, il datore di lavoro può garantirsi le prestazioni lavorative di un dipendente in ragione delle proprie reali e contingenti esigenze. Soprattutto in quei settori, come ad esempio la ristorazione e i pubblici esercizi in generale, dove l’afflusso di clienti può essere mutevole nel tempo e, quindi, la richiesta di forza lavoro non è costante. Dall’altra parte lo stesso lavoratore può contare su un impiego e, quindi, su una fonte di reddito meno vincolante, che può conciliarsi facilmente, in termini di tempo, con altri lavori, eventualmente principali, o altre attività, come, ad esempio, lo studio.
Senza dimenticare che il lavoratore intermittente è a tutti gli effetti un lavoratore subordinato, al quale vanno riconosciute tutte le medesime tutele contrattuali, retributive e in tema di salute e sicurezza sul lavoro.
L’intervento del legislatore
Naturalmente, a fronte di una serie di indubbi vantaggi sul piano dei minori vincoli e della flessibilità, il legislatore ha fissato una serie di regole e paletti che vanno a limitare l’utilizzo del lavoro intermittente a quelle casistiche che meglio si sposano con la filosofia sopra richiamata. Cercando, nel contempo, di arginare eventuali usi distorti in danno agli stessi lavoratori.
L’art. 13 del D.Lgs. 81/2015 definisce il contratto di lavoro intermittente come il contratto mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo discontinuo o intermittente, secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi, anche con riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno. Il primo passaggio da valutare, quindi, attiene alle condizioni che rendono legittimo l’utilizzo di tale particolare figura.
Condizioni oggettive e soggettive
In linea generale si possono distinguere due tipologie di condizioni: oggettive e soggettive. Le prime attengono alle esigenze individuate dai contratti collettivi applicati dal datore di lavoro. In buona sostanza, affinché si possa validamente stipulare un contratto di lavoro intermittente, le parti sociali devono aver preventivamente individuato le situazioni oggettive in presenza delle quali è possibile ricorrere al lavoro a chiamata.
La Cassazione, con sentenza 29423/2019, ha precisato che il Ccnl può solo individuare le esigenze senza spingersi a vietare l’utilizzo del contratto. Da ciò eventuali divieti previsti dalle parti sociali sono da ritenersi illegittimi e, quindi, non operativi. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, i contratti collettivi non hanno disciplinato tale figura e, quindi, non hanno individuato le predette esigenze. In tal senso, quindi, la condizione oggettiva è dettata del Ministero del lavoro che, con decreto, ha individuato i casi di utilizzo del lavoro intermittente.
Nello specifico occorre fare riferimento all’attività effettivamente esercitata dal datore di lavoro. La quale deve rientrare nell’elenco contenuto nel R.D. 2657/1923, la cui validità è confermata dal Decreto del 23 ottobre 2004, ancora vigente in forza dell’art.55, comma 3, del D.Lgs. n. 81/2015 (vedi Interpello Mlps 10/2016). A questo punto, è sufficiente che il lavoratore sia impiegato in una delle lavorazioni previste dal Regio Decreto per poterlo validamente assumere mediante contratto intermittente.
Se, tuttavia, il datore di lavoro non rientra nelle attività in questione, avrà comunque un’ultima possibilità rappresentata dalle condizioni soggettive, ossia l’età anagrafica del lavoratore da assumere. L’art. 13 comma 2, stabilisce, infatti, che il contratto può in ogni caso essere concluso con soggetti con meno di 24 anni di età, con prestazioni lavorative svolte entro il venticinquesimo anno, e con più di 55 anni. Va sottolineato che condizioni oggettive e soggettive sono del tutto alternative tra loro e non devono coesistere per la legittimità del contratto a chiamata. Lo precisa anche dall’Ispettorato del Lavoro con circolare 1/2021.
Aspetti pratici e operativi del lavoro intermittente
Ciò chiarito passiamo agli aspetti più pratici e operativi della figura contrattuale. Il contratto intermittente può essere stipulato con obbligo di risposta o senza. Nel primo caso il lavoratore, una volta chiamato dal datore a rendere la prestazione lavorativa, non potrà rifiutarsi e dovrà presentarsi al lavoro per svolgere la prestazione lavorativa pattuita. In altre parole, sussiste un vincolo contrattuale più forte, del tutto simile a quello previsto nel tradizionale contratto di lavoro subordinato. Tale vincolo, tuttavia, opera solo dal lato del lavoratore, in quanto il datore non è obbligato a effettuare alcuna chiamata. A fronte di ciò al lavoratore deve essere riconosciuta una specifica indennità di disponibilità, la quale viene persa, come una sorta di penale, se il lavoratore si rifiuta di rispondere positivamente alla chiamata.
Nella generalità dei casi, tuttavia, il contratto intermittente viene stipulato nella modalità senza obbligo di chiamata. Pertanto, il lavoratore potrà decidere se venire o meno a lavorare. In caso positivo potrà garantirsi la relativa retribuzione. L’art. 17 comma 2 prevede, infatti, che il trattamento economico, normativo e previdenziale del lavoratore intermittente, è riproporzionato in ragione della prestazione lavorativa effettivamente eseguita. In particolare per quanto riguarda l’importo della retribuzione globale e delle singole componenti di essa, nonché delle ferie e dei trattamenti per malattia e infortunio, congedo di maternità e parentale.
Inoltre, lo stesso art. 17 ricorda come il lavoratore intermittente non debba ricevere, per i periodi lavorati e a parità di mansioni svolte, un trattamento economico e normativo complessivamente meno favorevole rispetto al lavoratore di pari livello. Tale ultimo inciso conferma come, sul piano delle tutele, il lavoratore intermittente goda dei medesimi diritti di tutti gli altri lavoratori, compresi quelli afferenti i profili di salute e sicurezza.
La novità del decreto trasparenza
Dal punto di vista formale, l’art. 15, come novellato dal decreto trasparenza 104/2022, che ha introdotto nuovi obblighi informativi a carico del datore di lavoro, richiede forma scritta ai fini della prova e ulteriori elementi in aggiunta a quelli già previsti per la generalità dei lavoratori.
Occorre infatti specificare nel contratto di lavoro intermittente:
- natura variabile della programmazione del lavoro, durata e ipotesi, oggettive o soggettive, che consentono la stipulazione del contratto stesso;
- luogo e modalità della disponibilità eventualmente garantita dal lavoratore;
- trattamento economico e normativo spettante al lavoratore, compreso l’ammontare delle eventuali ore retribuite garantite al lavoratore e della retribuzione per il lavoro in aggiunta alle ore garantite, con relativa indennità di disponibilità (ove prevista);
- forme e modalità con cui il datore di lavoro è legittimato a richiedere l’esecuzione della prestazione di lavoro e del relativo preavviso di chiamata del lavoratore
- modalità di rilevazione della prestazione;
- tempi e modalità di pagamento della retribuzione e dell’indennità di disponibilità;
- misure di sicurezza necessarie in relazione al tipo di attività dedotta in contratto;
- eventuali fasce orarie e i giorni predeterminati in cui il lavoratore è tenuto a svolgere le prestazioni lavorative.
I divieti al lavoro intermittente
Altro aspetto da considerare nella fase genetica del rapporto riguarda i divieti alla stipula del contratto, fissati dall’art. 14. È vietato, infatti, il ricorso al lavoro intermittente per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero. O presso unità produttive nelle quali si è proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi che hanno riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto. Ovvero presso unità produttive nelle quali sono operanti una sospensione del lavoro o una riduzione dell’orario in regime di cassa integrazione guadagni che interessano lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro intermittente. Vale anche per i datori di lavoro che non hanno effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della normativa della sicurezza dei lavoratori.
La violazione di almeno uno di tali divieti, secondo quanto più volte precisato dall’INL da ultimo con nota 1148/2020, comporta la trasformazione del contratto in un normale contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato. Con il conseguente venire meno di tutte le prerogative di flessibilità che tale figura garantisce, soprattutto al datore di lavoro. La Cassazione, con sentenza 378/2024, ha tuttavia espresso un principio del tutto differente. Sottolineando che la violazione dell’art. 14 comporta unicamente la caducazione non retroattiva del contratto, ai sensi dell’art. 2126 c.c., senza la riqualificazione ab origine del rapporto di lavoro.
Obblighi e sanzioni
Dal punto di vista del corretto uso di tale tipologia contrattuale, il legislatore ha inserito una serie di paletti ulteriori rispetto a quanto indicato dal citato art. 14. Innanzitutto, per preservare la natura intermittente del contratto e, quindi, la discontinuità della prestazione, ontologicamente prevista dal comma 1 dell’art. 13, il comma 3 del medesimo art. 3 pone un tetto massimo alle giornate di chiamata pari a 300 nell’arco del triennio. Con la sanzione civilista della trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno a partire dal giorno di superamento delle 300 giornate. Tale limite, tuttavia, non si applica ai settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo.
Inoltre, per evitare che il lavoratore venga chiamato e successivamente non venga registrata sul libro unico del lavoro la prestazione lavorativa resa, rendendola “sommersa”, l’art. 15 comma 3 richiede, prima dell’inizio della prestazione lavorativa o di un ciclo integrato di prestazioni non superiore a trenta giorni, che il datore di lavoro effettui una comunicazione. Al fine di rendere nota la prestazione di lavoro intermittente in modo trasparente, la comunicazione può essere fatta online, via Pec o via Sms.
Tale obbligo comunicazionale è del tutto distinto da quello relativo all’instaurazione del rapporto di lavoro mediante Unilav, inviato un’unica volta in avvio del contratto. La comunicazione di cui all’art. 15 si fa ogni volta che datore si avvale del lavoratore intermittente. In caso di mancata comunicazione, accertata dall’organo ispettivo, si applica la sanzione da 400 a 2.400 euro in relazione a ciascun lavoratore non “comunicato”. Non potendosi applicare la procedura di diffida di cui all’articolo 13 D.Lgs. 124/2004, la sanzione in concreto sarà pari a 800 euro.
Infine, nell’ipotesi in cui la comunicazione venga effettuata, ma non annullata entro le 48 ore successive a quando la prestazione doveva essere resa, la prestazione si ritiene come effettivamente resa. Con i conseguenti obblighi di natura retributiva e contributiva.
* Mario Pagano è collaboratore della Direzione Centrale Coordinamento Giuridico dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Le considerazioni esposte sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere impegnativo per l’amministrazione di appartenenza.