di Virna Bottarelli |
I Fondi Interprofessionali sono organismi di natura associativa, promossi dalle parti sociali (sindacati dei datori di lavoro e dei lavoratori) che finanziano piani formativi aziendali, settoriali e territoriali per i dipendenti delle aziende aderenti.
Il presupposto su cui si basano è contenuto nella legge 845 del 1978, che stabilisce il versamento, da parte delle imprese, del contributo integrativo per l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria. Si tratta dello 0,30% della contribuzione che viene accantonato dall’Inps. La più recente legge 388 del 2000 ha stabilito che ogni azienda possa scegliere la destinazione di questo importo aderendo a un Fondo Interprofessionale. Usandolo, quindi, per la formazione dei propri lavoratori.
Nascita e sviluppo dei fondi
Con l’istituzione dei Fondi Interprofessionali si voleva porre una base per la costruzione di un sistema nazionale della formazione continua più rispondente alle esigenze dei settori produttivi. Proprio perché gestito dalle parti sociali, che rappresentano il mondo del lavoro e della produzione. Del resto, all’inizio degli anni Duemila era pressante l’esigenza di consolidare il ricorso alla formazione degli occupati nelle imprese italiane, fino ad allora poco strutturata o, addirittura, al di fuori delle grandi realtà aziendali, inesistente. Si faceva formazione in base alla disponibilità dei fondi pubblici e alle scelte degli assessorati regionali al lavoro. Con divari territoriali ancora più marcati di quelli che, tuttora, caratterizzano il nostro Paese.
Per tutti i primi quindici anni di attività, dal 2003 al 2017, il settore dei Fondi è cresciuto, estendendo la propria platea di riferimento. Le imprese aderenti sono passate da 285 mila a quasi un milione, mentre il numero dei lavoratori è passato da poco meno di 4 milioni e 200 mila a oltre 10 milioni e 600 mila. Come ben spiegato nell’ultimo rapporto “Fondoprofessioni e la formazione continua – Anno 2023”, questa crescita ha beneficiato di alcuni provvedimenti normativi. “Dal 2009 la possibilità di adesione ai Fondi Interprofessionali si estende ai dipendenti delle aziende pubbliche e di quelle esercenti pubblici servizi. Mentre dal 2010 si includono, prima provvisoriamente e poi stabilmente, apprendisti e collaboratori a progetto”.
Negli anni della crisi economica, però, quote significative delle risorse dedicate alla formazione continua “sono state dirottate a sostenere i pagamenti delle indennità dei lavoratori sospesi o in mobilità in deroga. Nel 2013 in particolare, la quota di risorse dirottate sulle politiche passive ha toccato il picco massimo del 42% (328 milioni di euro sui circa 800 disponibili), per poi scendere, l’anno successivo, al 34% circa. Negli anni successivi non si sono registrati ulteriori storni straordinari di risorse in favore delle politiche passive. Fino al 2020, quando ha preso avvio il rifinanziamento del Fondo Sociale Occupazione e Formazione, destinato a interventi straordinari di sostegno al reddito per specifici target di aziende e lavoratori coinvolti in situazioni di crisi”.
Il mondo del lavoro chiede formazione continua
Va detto che gli ultimi vent’anni per il mondo del lavoro sono stati anni di trasformazione. Anzi, per usare un termine caro agli esperti del settore, di transizione. La globalizzazione e la digitalizzazione hanno proiettato lavoratori e imprese verso un futuro occupazionale con meno certezze. Il bisogno di apprendimento continuo dunque è cresciuto. Ecco perché, in una fase di grandi cambiamenti, dalla sicurezza sul lavoro al salario minimo, la formazione degli adulti rappresenta un punto fermo. La stessa Unione Europea la considera un elemento chiave per migliorare l’occupabilità, stimolare l’innovazione, promuovere una società più equa e colmare il divario delle competenze digitali.
Fondoprofessioni indica che, nel 2022, in Italia il 37,6% dei lavoratori ha partecipato ad attività di formazione continua. Una percentuale che ci colloca sotto alla Francia (49,9%) e alla Spagna (48,5%). Anche se rispetto al passato c’è stato un progresso – nel 2007 il tasso di partecipazione era del 20,8%, mentre la media europea toccava già quota 33,6% -, la formazione continua potrebbe essere meglio sfruttata.
Tra i fattori che concorrono a penalizzarla, la frammentazione del tessuto d’impresa, con una forte concentrazione di microimprese, e le caratteristiche socio demografiche di queste ultime. Nel confronto con gli altri Paesi europei, la forza lavoro è mediamente più anziana e meno istruita. L’incidenza del lavoro non qualificato, dunque, è più alta. Più basse, invece, sono le quote di finanziamento destinate alla formazione continua.
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