di Laura Reggiani |
L’88% delle organizzazioni italiane fatica ad assumere nuovo personale e, in più della metà dei casi, la difficoltà è cresciuta nell’ultimo anno.
Il mismatch tra domanda e offerta di lavoro è dovuto soprattutto alla carenza di persone con competenze tecniche (57%) e soft (36%), ma anche alla mancata corrispondenza tra quanto offerto dalle aziende e quanto desiderato dalle persone in termini di stipendio, carriera, flessibilità e stile di vita. Perché il luogo di lavoro è sempre meno un posto dove le persone “stanno bene”.
Secondo i risultati dell’indagine sul lavoratore, realizzata dall’Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano, in collaborazione con Bva Doxa, solo il 9% degli italiani afferma di stare bene nell’impiego attuale considerando le tre dimensioni del benessere: fisico, psicologico e relazionale. Appena il 5% oggi è “felice” al lavoro. Un lavoratore su tre si è assentato almeno una volta dal lavoro nell’ultimo anno per motivi di stress o ansia. Ma solo un’azienda su due offre servizi a supporto.
Infelicità e malessere portano molti a cambiare lavoro. Il 42% degli italiani l’ha fatto recentemente o ha intenzione di farlo a breve. Nel 2024 per la prima volta il motivo principale è la ricerca di “benessere fisico e mentale” (36%), ma crescono anche la ricerca di opportunità di carriera e di occupabilità nel medio-lungo termine.
Fenomeni sotto osservazione
Continua così la “Great Resignation”, ma anche il “Great Regreat”: il 56% di chi ha cambiato lavoro negli ultimi 12 mesi si è già pentito, +37% rispetto al 2023. Una delle principali fonti di malessere resta l’incapacità di gestire vita lavorativa e vita privata. In un anno, raddoppiano i “Job Creeper” (13% vs. 6%), quelli che non riescono a smettere di lavorare e lo fanno in momenti che dovrebbero dedicare alla propria vita privata. Mentre è stabile il numero dei “Quiet Quitter” (12%), i lavoratori che fanno il minimo indispensabile senza essere coinvolti emotivamente nelle attività che svolgono.
Il 26% dei lavoratori ha già utilizzato soluzioni di AI generativa nell’ultimo anno, anche se pochi in maniera continuativa (solo il 3% ogni giorno e il 7% un paio di volte a settimana). A ben vedere, l’attività principale è stata la semplice ricerca di informazioni (31%), come una classica barra di ricerca. Ma l’impatto potenziale è alto. Secondo i lavoratori, il 24% delle proprie attività possono essere già svolte con il supporto di soluzioni di AI generativa. Inoltre, quasi uno su due è preoccupato delle conseguenze, non tanto per il rischio di perdere il lavoro (12%), ma per la possibilità che diventi più precario (26%) o che le proprie competenze siano meno rilevanti (22%). I più ottimisti vedono nell’AI generativa un’alleata per svolgere meglio il lavoro (29%), sviluppare nuove competenze (23%) e lavorare meno (21%).
La ricerca del “vivere bene”
“Il mondo del lavoro negli ultimi anni è stato interessato da una vera e propria rivoluzione e la ricerca del “vivere bene” è una risposta alle incertezze emergenti”, spiega Mariano Corso, Responsabile scientifico dell’Osservatorio. “Se in passato il lavoro era il centro delle aspirazioni e dei progetti di autorealizzazione per crescere anche di ruolo e status sociale, ora la fragilità del futuro sembra spingere le persone soprattutto a stare bene qui ed ora. Nel lavoro si cerca un benessere economico e mentale, in cui la flessibilità nei tempi e luoghi è fondamentale. È necessario quindi ripartire dalle basi per costruire un nuovo approccio al lavoro orientato alla felicità, che preveda insieme giusto riconoscimento, flessibilità, work- life balance, inclusione, valorizzazione, employability”.
Per rispondere alle esigenze delle persone è cruciale progettare nuovi modelli organizzativi incentrati su un purpose capace di dare al lavoro un nuovo significato, aggiunge Martina Mauri, Direttrice dell’Osservatorio. “Ad esempio, attraverso l’impegno nella sostenibilità: la percentuale di felici al lavoro sale al 24% nelle aziende in cui le persone sono coinvolte in iniziative sostenibili. Inoltre, per rispondere ai cambiamenti del mercato del lavoro attuale, l’intelligenza artificiale può essere un alleato prezioso. Da un lato può mitigare il problema della mancanza di personale automatizzando compiti ripetitivi e riducendo la dipendenza da competenze specialistiche. Dall’altro può contribuire a ridisegnare ambienti organizzativi, migliorando il benessere e rendendo le organizzazioni più attrattive”.
La sfida dei talenti
La principale sfida per il 2024 per il mondo HR è rappresentata dal talent shortage. Le figure più difficili da reperire sono i profili digitali, gli operai specializzati, le professioni sanitarie e i tecnici delle costruzioni civili. Per attrarre più candidati il 51% delle aziende sta aumentando i canali di ricerca, il 45% richiede il supporto di società specializzate per la ricerca di personale e il 40% offre salari più alti.
Soprattutto per i profili digitali è in corso una “guerra al rialzo dei salari”, con conseguenze negative per l’intero mercato. Le Pmi sono infatti tagliate fuori da questa competizione economicamente insostenibile e si crea iniquità interna di politiche retributive. Una soluzione è il reskilling e upskilling per formare queste figure all’interno. Ad esempio accompagnando le persone a rischio perdita lavoro in un processo di riqualificazione in ruoli maggiormente richiesti. La trasformazione digitale, oltre ad aumentare la richiesta di nuove professioni, sta velocizzando l’obsolescenza di alcuni ruoli. Secondo le direzioni HR, già l’8% dei lavoratori va riallocato o riqualificato in quanto a rischio obsolescenza.
Il ruolo dell’Intelligenza Artificiale
Il 32% delle aziende utilizza almeno una soluzione di AI a supporto dei processi HR. Nella maggior parte dei casi si tratta di Chatbot o Assistenti Virtuali, a supporto di attività amministrative, navigazione degli applicativi aziendali o processo di onboarding. Oppure sistemi di elaborazione del linguaggio naturale, prevalentemente per lo screening dei CV e sistemi di recommendation, per suggerire i contenuti/ percorsi formativi più adatti in base alle esigenze della singola persona.
Le aziende stanno iniziando, inoltre, a investire nei talenti in ambito Intelligenza Artificiale. Il 54% cerca profili in questo campo (+25% rispetto al 2023) e il 62% ha iniziato a sperimentare soluzioni di AI generativa a supporto delle attività lavorative. Anche se solo il 12% con una guida diretta da parte dell’organizzazione e linee guida sull’utilizzo. Per le direzioni HR, il principale impatto di soluzioni AI nei prossimi 5 anni sarà l’evoluzione dei ruoli e delle competenze, più che la riduzione dell’organico. Secondo il 62% l’ascesa dell’AI generativa porterà a un arricchimento di competenze e per il 34% una riqualificazione di ruoli in declino.
Per comprendere la portata di questa rivoluzione, bisogna però partire dall’analisi dei dati. Il 17% delle organizzazioni sta effettuando un’indagine sull’impatto dell’AI generativa, il 25% l’ha in programma nei prossimi mesi. Per affrontare i cambiamenti di ruoli e competenze, sono previste soprattutto azioni di formazione. Nel 2024 il 33% delle aziende potenzierà i percorsi di upskilling e il 28% introdurrà per la prima volta percorsi di reskilling. A fianco, stanno emergendo innovazioni di processi e modelli: il 43% delle aziende automatizzerà attività e processi ripetitivi e standardizzabili, il 39% rivedrà il modello organizzativo per favorire la condivisione e lo sviluppo delle competenze, il 25% introdurrà o potenzierà l’utilizzo di strumenti digitali avanzati per eseguire compiti per cui internamente non avrebbero le competenze necessarie.