Una nuova organizzazione è possibile

La nostra intervista a Giovanni Scansani, co-fondatore di Bonoos ed esperto di welfare integration e organizzazioni, ci aiuta a fare una sintesi sul complesso tema del lavoro agile e delle ultime tendenze del mondo del lavoro

0
157

Giovanni Scansani, co-fondatore di Bonoos, startup che opera come Welfare Integration Partner, e co-autore con Luca Pesenti del libro “Smart Working Reloaded. Una nuova organizzazione del lavoro oltre le utopie”, ci aiuta a fare una sintesi sul complesso tema smart working e spazi di lavoro.

“Ibrido non è un bel termine: allude a qualcosa di formato con elementi eterogenei che spesso non legano bene tra loro”, afferma quando gli si chiede di dare una definizione. “Il termine, oltretutto, non è nemmeno più molto utilizzato per descrivere il lavoro agile. Anzi, a dirla tutta, sta un po’ svanendo lo stesso dibattito sullo smart working perché l’attenzione è adesso concentrata su un fenomeno forse persino più gradito: la settimana corta”.

La sbornia da smart working degli anni della pandemia, quindi, ha lasciato qualcosa di buono o, come tutte le sbornie, solo un gran mal di testa?

Giovanni Scansani, co-fondatore di Bonoos
Giovanni Scansani, co-fondatore di Bonoos

Come tutti ricordiamo, nel biennio 2020-2021, il mainstream aveva cavalcato una tragedia per dirci che essa stava coincidendo con l’apparizione, quasi messianica, di una nuova civiltà del lavoro. Basata su profezie del tipo “l’ufficio è morto”. In quel periodo, sostenere che la pandemia asse in realtà generato solo “lavoro da remoto forzato” e non un radicale cambio di paradigma organizzativo, far notare che per poter dire che il lavoro fosse stato realmente rivoluzionato occorreva molto di più della sua semplice remotizzazione e magari anche aggiungere che esso avrebbe dovuto restare comunque prevalentemente basato sulla coltivazione di relazioni dirette, fisiche e comunitarie, perché il lavoro e le stesse aziende – sul piano umano e sociale – potessero continuare a dirsi tali, erano affermazioni giudicate retrograde, fuori dal tempo.

La realtà post pandemica ha dato torto sia ai guru della new age, avevano profetizzato un lavoro subordinato svolto in borghi ameni o sulle spiagge, sia a chi riteneva che il new normal avrebbe portato un ritorno al passato. Il lavoro da remoto, alternato a quello in presenza, è ormai un fenomeno irreversibile. Ma la realtà ha dato ragione a chi, tra i due estremi, ha sempre sostenuto che la tragica occasione che ci ha condotto al più grande esperimento planetario di remotizzazione (forzata) del lavoro avrebbe dovuto essere l’occasione per ripensare in toto l’organizzazione del lavoro.

Alla condizione, però, che tutti – imprenditori, manager e lavoratori – avessero accettato la scommessa di una riprogettazione. Che avrebbe comportato la ridefinizione del lavoro dipendente su basi in buona parte diverse. Come, ad esempio, maggiori e più condivise responsabilità, focus sui risultati, libertà “nel” (non “dal”) lavoro, attraverso un allargamento degli spazi di discrezionalità operativa, e partecipazione dei lavoratori.

La situazione che si è determinata, però, non è questa, almeno nella maggior parte dei casi. In generale, infatti, il lavoro agile coincide tuttora con un “copia/incolla” delle procedure vigenti in ufficio, con i medesimi orari e le medesime modalità esecutive. Rari sono i casi in cui le aziende e le sue persone hanno colto l’occasione per ripensarsi in profondità. A questo cambiamenti si dice si siano opposti i manager e gli imprenditori. In molti casi non vi è dubbio su questo, ma non bisogna occultare il fatto che parte della resistenza arriva anche dagli stessi lavoratori. Perché non tutti hanno la necessaria “personalità organizzativa” presupposta dal lavoro autenticamente smart.

Il risultato è che, oggi, quelli che potevano essere degli outcome del lavoro agile sono diventati la sua principale ragion d’essere. Una misura di benessere organizzativo, di conciliazione vita-lavoro e di welfare aziendale.

La diffusione del lavoro da remoto ha comunque indotto le grandi aziende a rivedere gli spazi delle sedi, meno frequentate rispetto al passato. Si possono già delineare le conseguenze della nuova organizzazione del lavoro? 

L’adozione di formule stabili di remotizzazione dei lavoratori è stata utilizzata dalle aziende anche come leva per generare importanti risparmi su voci di costo come locazioni, spese generali e servizi collettivi. In un buon numero di aziende quasi nessuno ha più una postazione fissa, pur avendo un “posto fisso” (di lavoro).

Doversi prenotare la scrivania con un’app e magari scoprire che il proprio nominativo è in overbooking, alla lunga, come impatta sul senso di appartenenza al team?

Il lavoro agile implica certamente dei vantaggi, ma quello introdotto senza riprogettazione organizzativa potrebbe spostare l’ago della bilancia verso alcuni aspetti negativi. Le criticità, in questi casi (e sono la maggioranza), vanno attentamente soppesate. Una di queste è legata al mantenimento (se non all’accrescimento) dei sistemi di controllo che smentiscono la grande narrazione sulla fiducia e sulla cessazione del controllo visivo. Altra criticità, la polarizzazione che si registra, soprattutto nelle realtà produttive, tra lavoratori che possono lavorare “in smart” e coloro che invece non possono farlo (come gli addetti alle linee di produzione).

Qui le aziende hanno trovato delle formule compensative per placare gli animi perché l’introduzione del lavoro agile, ancora una volta, non è avvenuta riconfigurando complessivamente l’organizzazione del lavoro nell’impresa. Su tutte queste criticità, poi, sta il rischio più grande. La distruzione dell’armonico collettivo e del senso comunitario nelle aziende (che sono una delle formazioni sociali nelle quali si sviluppa la personalità), corre il rischio di essere il riflesso dell’atomizzazione e dell’anonimizzazione delle persone, illuse da libertà immaginarie, che gioca in realtà sempre più a loro sfavore.

Torniamo su un tema accennato all’inizio: la settimana corta. È questa, allora la nuova frontiera?

Di settimana corta, una modalità organizzativa che non crea distinzioni tra i lavoratori, si discute ormai in quasi tutto il mondo e in molti Paesi, incluso il nostro, è stata positivamente sperimentata. È un’aspirazione più che logica: lo sviluppo tecnologico e organizzativo ha sempre condotto l’umanità verso carichi di lavoro sempre meno faticosi e meno estesi temporalmente. Siamo ovviamente lontanissimi dal sogno di John Maynard Keynes che negli anni Trenta del secolo scorso profetizzava che di lì a cento anni, ossia oggi, avremmo lavorato solo tre ore al giorno. Ma le sperimentazioni e le stesse indicazioni della contrattazione collettiva volte a produrre sensibili riduzioni dell’orario di lavoro sono ormai numerose.

Una ricerca di Aidp ha rilevato che questa ipotesi è gradita al 93% dei direttori del personale perché migliora qualità della vita e del lavoro, motivazione e, forse, produttività. Varie analisi ci informano che è una soluzione gradita anche dai lavoratori. Ma, come rileva opportunamente Michele Tiraboschi, giuslavorista attento alle trasformazioni del lavoro, il fatto di concentrare il dibattito sulla riduzione quantitativa delle ore lavorate, e non sul ripensamento complessivo che il tempo ha nel lavoro e nella misurazione del suo valore economico, non è ancora una volta una prova del nostro ancoraggio a modelli superati?

Tuttavia, è un bene che ci siano queste sperimentazioni. Soprattutto quando associate alla volontà di (ri)scoprire la cosa più preziosa che i numerosi nemici del lavoro e del suo valore, umano e sociale, cercano di sottrarci: il suo senso e il suo significato individuale e collettivo. È questa la vera sfida che le trasformazioni organizzative e tecnologiche, quali che siano, chiamano tutti ad accettare e possibilmente a vincere.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here