In fabbrica di competenze, a scuola di lavoro

Valentina Aprea, esperta di politiche della formazione e del lavoro, lancia un messaggio concreto: "solo la maggiore integrazione tra scuola e lavoro, con una vera contaminazione tra competenze, saper fare e professioni, ci aiuteranno a fronteggiare le carenze che, già oggi, minano la tenuta economica e sociale del Paese"

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Intervista a Valentina Aprea, esperta di politiche della formazione e del lavoro

di Maria Cecilia Chiappani |

Creare ponti bidirezionali tra istruzione e impresa.

Garantire ai giovani (e non solo) le competenze e le esperienze professionalizzanti necessarie per soddisfare le proprie aspettative e non dover “fuggire” all’estero, facendo al contempo leva su imprese e pubbliche amministrazioni più preparate per attrarre e trattenere i talenti. Tutto questo richiede un impegno collettivo che dalla politica passa alle istituzioni educative, e dalle aziende entra nelle comunità.

Un approccio integrato e multilivello alla formazione e al lavoro, tra misure nazionali e territoriali, che coinvolga davvero tutti. Sia in ottica di inserimento dei giovani, sia per riqualificare persone altrimenti a rischio esclusione dai cambiamenti in atto nel mondo del lavoro. Secondo Valentina Aprea, una vita dedicata a questi temi negli anni in Parlamento e nell’assessorato di Regione Lombardia, è l’unica via per garantire all’Italia un futuro innovativo e sostenibile.

Imprese, giovani e formatori: in un recente intervento le ha definite come le tre prioritarie esigenze, nonché urgenze, del nostro Paese. Come e da dove iniziare?

Occorre puntare a strategie di più lungo respiro, per dare risposte ad almeno tre esigenze chiave della nostra società. Le prime sono quelle determinate dall’era digitale, che impongono ai lavoratori la necessità di una formazione permanente e non più concentrata nelle prime fasi della vita. Ne consegue la necessità di passare da modelli di formazione verticali e autoreferenziali a modelli circolari.

Capaci di affiancare e, in qualche caso, anticipare le innovazioni, superando la standardizzazione e la prevedibilità delle risposte. Infine, ci sono le esigenze interne ai processi della formazione, per affrontare e superare le sfide della persona che apprende in situazioni mutevoli, che rimandano a modalità gestionali bottom up e non più top down. È evidente che nessuna istituzione e nessun attore della vita sociale e produttiva possa farcela da solo.

Bisogna fare squadra: scuole, imprese e lavoro o vincono o perdono insieme, in questo cammino verso il cambiamento che passa dalla digitalizzazione. E che richiede, come si è iniziato a fare con i fondi Pnrr, di investire molto più di prima nelle discipline Stem e nel connubio tra intelligenza naturale e intelligenza artificiale.

Dalla sua esperienza nelle commissioni parlamentari all’assessorato in Lombardia: ha osservato differenze tra le esigenze formative dei territori? In che modo armonizzarle per un sistema educativo più omogeneo?

Mentre monitoriamo i modelli vincenti delle filiere orizzontali e verticali, sostenuti dalle politiche nazionali e territoriali, ci sono altre azioni strategiche necessarie per modificare alcuni “numeri” della produttività multifattoriale, che in Italia determina un contributo negativo alla crescita (es. formazione, digitalizzazione, sostenibilità, inclusione sociale), e le differenze territoriali, in particolar modo nelle aree interne.

Innanzitutto, l’orientamento deve tornare a essere leva dell’ascensore sociale. Se ogni anno 1 studente su 5 sbaglia la scelta delle superiori, abbandona la scuola o arriva all’Esame di Stato senza competenze, vuol dire che il sistema educativo accumula fallimenti rispetto alla finalità stessa che l’istruzione dichiara di voler perseguire. Cioè la promozione della conoscenza nel rispetto e nella valorizzazione delle diverse individualità. Le responsabilità sono da ricercare innanzitutto negli effetti indesiderati di un sistema che continua ad avvalorare gerarchie tra i percorsi formativi. Si sacrificano ogni anno percentuali elevate di studenti che non trovano, nella rigida offerta, la possibilità di successo formativo.

Così pure, l’orientamento nelle scuole secondarie di primo e secondo grado deve appassionare maggiormente i ragazzi e le ragazze ai percorsi tecnici e professionali e ai corsi di laurea scientifici. Secondo il Rapporto 2023 della Fondazione Ambrosetti, l’Italia è ultima in UE per quota di laureati in discipline Ict (1,4%) con un valore di 2,8 volte inferiore rispetto alla media dei Paesi membri (3,9%). Anche per l’anno scolastico 2024-2025, la percentuale di iscritti agli istituti tecnici si è fermata al 30,9% e quella degli istituti professionali al 12,1%. Restano in testa i licei, scelti dal 57,1% dei neoiscritti.

Il Rapporto Excelsior ci dice che, mentre il mercato del lavoro ricerca profili qualificati per affrontare le rivoluzioni in atto, dal 5.0 al Green, nei prossimi anni non ci saranno tutti i tecnici richiesti. Dunque, il lavoro c’è ma, a fronte della necessità di poco più di 355 mila periti l’anno, ne avremo a stento 221 mila. Stiamo preparando 50 mila liceali in più dei fabbisogni occupazionali e 130 mila periti in meno. Si rischia, come descritto in un recente Rapporto della Banca d’Italia, che i 300 mila posti ad alto valore aggiunto creati dal Pnrr nel solo 2024 per accompagnare le transizioni digitali, ambientali ed energetiche, rimangano scoperti per mancanza di profili.

Non rassicura neppure il numero degli iscritti al sistema IeFP: nell’anno formativo 2021-2022 era pari a 228.356 ragazzi. Una percentuale sull’intera popolazione 14-18enne che va dall’11% di alcune regioni del Nord a meno del 4% in altre regioni prevalentemente al Sud. In più, in molte zone è poco presente l’offerta del quarto anno per l’acquisizione del diploma IeFP. Non avere a disposizione completa, in tutti i territori, questi percorsi pregiudica il buon esito della diffusione delle filiere tecnologico professionali e anche quello delle politiche attive per upskilling e reskilling.

La riforma degli ITS è un passo per favorire l’incontro tra istruzione e lavoro. Come coinvolgere in questa evoluzione l’intera filiera tecnologico professionale?

Nella scorsa legislatura è stato introdotto nell’ordinamento formativo terziario il Sistema di Istruzione e Formazione Tecnologica Superiore – ITS Academy. Il quale punta a completare proprio la filiera tecnologico professionalizzante introdotta con la legge n. 53 del 2003, al fine di giungere al conseguimento delle qualifiche di V e VI livello EQF, al pari delle esperienze europee più avanzate di “Vocational Education and Training”.

Allo stesso modo, il Disegno di Legge 121/2024 sulle filiere tecnologico professionali e la sperimentazione che lo anticipa sono una buona notizia. Poiché consentono di ripensare la filiera superando la distinzione tra istruzione tecnica (meglio sarebbe tecnologica) e professionale. Prevedendo l’istituzione, più che opportuna, di un nuovo assetto ordinamentale quadriennale integrato a più uscite. Attraverso moduli formativi, graduali e continui, che rilasciano titoli professionalizzanti EQF 3 e 4 dell’istruzione secondaria e 5 e 6 del segmento terziario dell’Istruzione Tecnologica Superiore, riformata in ITS Academy.

Anche in Italia, come da tempo in molti Paesi europei, si arriva a scommettere sull’armonizzazione dei percorsi in un’ottica realmente professionalizzante, facendo leva sulla quadriennalità dei percorsi e sulla verticalità fino agli ITS Academy. Soprattutto, sulla costruzione di campus con reti imprenditoriali e territoriali per una maggiore qualificazione tecnologica dei giovani e un migliore collegamento con il mondo del lavoro.

D’altra parte, come ha sostanzialmente ammesso il Pnrr, non ci potrà essere modernizzazione se non si creerà in tempi brevi una nuova generazione di tecnici e tecnologi con le competenze per trasformare, con le tecnologie più avanzate (dalla robotica all’intelligenza artificiale), i settori della vita pubblica e privata. Inoltre, è fondamentale accrescere la contaminazione tra competenze, formazione e lavoro, affinché le scuole diventino “fabbriche di competenze” e non solo di cittadinanza, e le imprese “fabbriche di conoscenze” e non solo di prodotti.

Da qui, e da una spinta alle discipline Stem, possono giungere soluzioni al talent shortage?

La spinta verso le discipline Stem è centrale nel dibattito sull’istruzione e il mondo del lavoro. Questa tendenza è motivata da diversi fattori, tra cui la crescente digitalizzazione, l’innovazione tecnologica e la necessità di affrontare sfide globali come cambiamento climatico e salute pubblica. Innanzitutto, la domanda di lavoratori qualificati. Molti settori, dall’informatica all’ingegneria, stanno vivendo una crescita rapida e richiedono professionisti adeguatamente formati. La domanda supera spesso l’offerta, portando a un talent shortage significativo.

C’è poi il tema della competitività, poiché le economie moderne dipendono fortemente dall’innovazione. Investire in formazione Stem è essenziale per sviluppare nuove tecnologie e idee che possano guidare la crescita economica. Le professioni Stem, inoltre, offrono salari più elevati e maggiore stabilità lavorativa, rendendo queste carriere attraenti per i giovani. Né si può trascurare il fatto che queste materie sono cruciali per affrontare questioni globali urgenti, come energie rinnovabili, gestione delle risorse idriche e tecnologie sanitarie.

Fatte queste premesse, ci sono alcuni fattori che contribuiscono al deficit di talenti Stem. Nel nostro sistema educativo, gli studenti mancano di competenze e, spesso, di motivazione per intraprendere queste carriere. In più, esistono pregiudizi di genere e di altro tipo che scoraggiano molti studenti dall’intraprendere questi percorsi. I professionisti altamente qualificati vengono poi attratti a lavorare all’estero. Come se non bastasse, l’evoluzione delle tecnologie richiede aggiornamento e la formazione continua è spesso difficile da implementare in modo efficace.

Tra le possibili soluzioni, investire in programmi scolastici che promuovano l’interesse per le Stem fin dalla giovane età, oppure offrire programmi di mentoring per incoraggiare i giovani a perseguire queste carriere con un orientamento mirato. Fondamentale, poi, la partnership tra pubblico e privato. Collaborare con le industrie per garantire che i curricula rispondano alle esigenze del mercato del lavoro e facilitare l’accesso a corsi di aggiornamento e riconversione per professionalizzare chi già lavora. In modo da colmare il gap di competenze, possono essere buone pratiche nella prospettiva Stem.

Cosa si richiede invece alle aziende, private e pubbliche, per venire incontro alle mutate esigenze dei lavoratori? E per attrarre in particolare le nuove generazioni?

Le aziende possono e devono adottare diverse strategie. Alcune delle principali aspettative dei lavoratori rimandano alla flessibilità, quindi serve offrire opzioni di lavoro da remoto od orari flessibili, per consentire un migliore equilibrio vita-lavoro. Occorre altresì investire in programmi di formazione e sviluppo professionale, per aiutare i dipendenti a crescere internamente. Questo è particolarmente importante per i giovani, così come è per loro fondamentale creare un ambiente di lavoro attento a diversità e inclusione, dove tutte le persone si sentano rispettate e valorizzate.

Serve poi implementare politiche per promuovere la salute mentale e fisica e il benessere sul lavoro. Nonché assicurarsi che le retribuzioni e i benefit siano competitivi, tenendo conto del costo della vita e del settore, pianificando un efficace welfare aziendale. Soprattutto rispetto ai giovani, bisogna offrire percorsi di avanzamento ben definiti per incentivare le persone a impegnarsi e a rimanere in azienda. Sicuramente vincente, poi, il coinvolgimento dei lavoratori in iniziative di responsabilità sociale. Implementare queste misure può generare un ambiente di lavoro positivo e attrattivo, capace di soddisfare le esigenze dei giovani e meno giovani.

Come valuta l’efficacia delle politiche attive del lavoro a livello nazionale e la loro ramificazione negli attuali soggetti coinvolti anche a livello locale?

Le politiche del lavoro influenzano profondamente le dinamiche occupazionali. A livello nazionale, le politiche includono misure come regolamentazione del lavoro, incentivi fiscali, programmi di formazione professionale, politiche attive del lavoro e sostegno all’occupazione per categorie svantaggiate. Se le leggi sul lavoro stabiliscono le condizioni minime per assunzioni, dimissioni, retribuzione e diritti dei lavoratori, queste norme variano notevolmente e influenzano la competitività delle imprese a livello locale. Le politiche come sgravi fiscali e finanziamenti per le start-up possono incentivare le imprese a creare posti di lavoro, soprattutto in aree economicamente svantaggiate.

Non c’è dubbio che i programmi di formazione professionale mirino a sviluppare le competenze richieste dal mercato del lavoro. Allo stesso modo, misure come sussidi di disoccupazione, programmi di reinserimento lavorativo e servizi di orientamento professionale sono fondamentali per supportare i lavoratori disoccupati e facilitarne il rientro. Infine, interventi per l’occupazione giovanile e femminile, con incentivi a categorie specifiche e sostegno alla conciliazione famiglia-lavoro, rappresentano un valore aggiunto nelle politiche attive che il nostro Paese sta sperimentando già da qualche anno.

Ogni territorio, però, ha specificità economiche, sociali e culturali che possono influenzare l’efficacia delle politiche del lavoro. Ad esempio, il divario tra Nord e Sud viene accentuato se le politiche non sono adattate alle esigenze locali. Per essere efficaci, pertanto, le politiche del lavoro devono essere implementate in collaborazione con enti locali, associazioni di categoria, istituzioni educative e agenzie per il lavoro. Così pure, le politiche locali che favoriscono l’occupazione possono ridurre l’emigrazione di giovani, mentre la mancanza di opportunità porta alla fuga dei cervelli. Investimenti in infrastrutture possono, altresì, migliorare l’accessibilità ai luoghi di lavoro e, di conseguenza, aumentare le opportunità occupazionali.

Insomma, le politiche del lavoro nazionali hanno certamente un impatto diretto sulle dinamiche locali, ma la loro efficacia dipende dalla capacità di adattarle alle specifiche esigenze dei territori. Un approccio integrato e multilivello con tutti gli attori, che tenga conto delle disparità regionali, è fondamentale per promuovere un mercato del lavoro inclusivo e sostenibile. Non possiamo trascurare il tema delle competenze digitali, che sottende ogni livello di problematica, dai Neet alla riqualificazione delle persone inoccupate.

Le competenze digitali rivestono un ruolo cruciale non solo per i giovani Neet, ma anche per la riqualificazione delle persone inoccupate. Sono diventate, infatti, un requisito fondamentale per molte posizioni lavorative. La denuncia degli imprenditori è ormai nota: per le grandi transizioni occorrono softwaristi, progettisti, esperti del linguaggio dei dati, degli algoritmi, dell’intelligenza artificiale che non si trovano neppure in Lombardia. E che invece arrivano spesso dalle università dell’India. Inoltre, le competenze digitali non si limitano agli aspetti tecnici, bensì includono abilità trasversali come problem-solving, gestione del tempo e comunicazione, fondamentali nel mondo del lavoro moderno. Non vi è dubbio, insomma, che le competenze digitali favoriscano l’inclusione sociale, permettendo a persone in situazioni di marginalità di partecipare attivamente alla vita economica e sociale. Per queste ragioni, promuovere le competenze digitali tra Neet e inoccupati è una strategia chiave per affrontare le sfide odierne.

Un altro tema chiave riguarda la parità di genere, quale risorsa sociale ed economica ancora tutta da sviluppare in Italia. Investire nella parità di genere non solo promuove l’equità e i diritti umani, ma genera anche significativi benefici economici e sociali. La riduzione delle disuguaglianze di genere porta a un aumento della forza lavoro, stimolando la crescita economica. Le donne che partecipano attivamente all’economia contribuiscono alla produttività e la loro inclusione in settori tradizionalmente maschili può portare innovazione. La diversità conduce a una maggiore creatività, che può tradursi in un vantaggio competitivo. Investire nell’educazione delle ragazze e delle donne migliora le opportunità di lavoro e riduce la povertà. In più, le madri in possesso dei titoli di studio tendono a investire anche nell’istruzione dei propri figli, contribuendo a un ciclo virtuoso di sviluppo umano. Promuovere la parità di genere è fondamentale anche per ridurre la violenza domestica e altre forme di aggressione. Le aziende che investono tendono, inoltre, a godere di una migliore reputazione. Le politiche di inclusione sono, infatti, sempre più apprezzate dai consumatori e dai lavoratori. Promuovere la parità di genere, insomma, non è solo una questione di giustizia sociale, ma è anche una strategia vincente per lo sviluppo economico e sociale del Paese.

Pensa che l’Italia abbia colto al meglio le potenzialità del Pnrr, al netto delle strutturali problematiche che tutti conosciamo, o si poteva fare di più?

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza rappresenta un’opportunità significativa per l’Italia, dopo la crisi provocata dalla pandemia. Il piano ha previsto ingenti investimenti in infrastrutture, dai trasporti alla digitalizzazione, per migliorare la connettività, in sostenibilità ambientale, con energia rinnovabile e mobilità sostenibile, per promuovere l’economia circolare. Soprattutto, mira a sostenere la digitalizzazione delle imprese, della pubblica amministrazione e del settore scolastico e formativo.

Inoltre, una parte del Pnrr è dedicata alle politiche attive del lavoro, alla formazione e all’inclusione sociale. Nonché al settore sanitario, per garantire un sistema pubblico più robusto, e al miglioramento della formazione nel suo complesso. Per garantire la corretta attuazione del Pnrr è stata istituita una governance con misure di monitoraggio e valutazione. È ancora presto per giudicare l’efficacia delle misure, in molti casi è servito tempo per destinare i finanziamenti alle misure previste. Soltanto da poco queste ultime sono state “messe a terra”. Occorrerà attendere il 2026 se non oltre per valutare appieno l’impatto delle politiche del Pnrr soprattutto in campo educativo, sociale ed economico.

In conclusione, vista la sua lunga presenza sul campo, cosa può ancora fare la politica, a livello locale e nazionale, per creare ponti “migliori” tra scuola e lavoro?

Dal mio punto di vista ci sono alcune azioni che possono facilitare questo processo. Innanzitutto, incentivare le aziende a offrire programmi di apprendistato e tirocini per studenti, integrandoli nel curriculum scolastico, promuovendo partnership tra istituzioni educative e aziende locali, così da sviluppare corsi che rispondano alle esigenze del mercato del lavoro.

Ancora più importante, implementare programmi di orientamento che aiutino gli studenti a comprendere le opportunità lavorative e le competenze richieste nei vari settori. Vanno poi previsti corsi di formazione continua per insegnanti e formatori, affinché rimangano aggiornati sulle nuove tendenze. Sarebbe opportuno fornire incentivi fiscali o finanziamenti alle imprese che collaborano con le scuole per sviluppare programmi di formazione per i giovani. Dal punto di vista scolastico occorre sviluppare un curriculum più flessibile, che includa competenze pratiche e soft skill, oltre alle conoscenze teoriche, per preparare meglio gli studenti al mondo del lavoro.

Organizzare più eventi di networking, fiere del lavoro e workshop dove gli studenti possano incontrare i potenziali datori di lavoro e scoprire le opportunità nel loro campo di interesse. Creando piattaforme online per interconnettere studenti, scuole e aziende, facilitando la ricerca di opportunità di lavoro e apprendistato. Infine, serve valorizzare le competenze trasversali e le esperienze pratiche degli studenti attraverso certificazioni riconosciute nel mercato del lavoro.

Queste azioni vanno previste con un approccio multidisciplinare e attraverso la già più volte citata collaborazione tra istituzioni scolastiche, regioni, aziende e Agenzie per il Lavoro. Per costruire un sistema educativo che prepari i giovani alle sfide del futuro professionale. Il paradigma “prima lo studio e poi il lavoro”, che ha caratterizzato il ’900, non funziona più. Solo la circolarità e la contestualità delle opportunità orizzontali e verticali permettono oggi di formare lavoratori al passo con i tempi. Ed è in questa direzione che occorre muoversi.

Valentina Aprea, esperta di politiche della formazione e del lavoroChi è Valentina Aprea

Valentina Aprea è nata a Bari nel 1956. Dopo la laurea in Pedagogia, è divenuta dirigente pubblico nel settore dell’istruzione a soli 27 anni. Eletta alla Camera dei Deputati nella XII Legislatura (1994-1996), si è sempre occupata educazione e formazione. Rieletta nella XIII e XIV Legislatura, ha ricoperto dal 2001 al 2006 l’incarico di Sottosegretario di Stato del Ministero dell’Istruzione. Nella XV Legislatura è stata Segretario di Presidenza della Camera dei Deputati e membro della Commissione Cultura nel gruppo di Forza Italia. Nella XVI Legislatura è stata rieletta con il Popolo delle Libertà e ha ricoperto l’incarico di Presidente della VII Commissione Cultura, Scienza e Istruzione.

Nel 2012 è entrata in Regione Lombardia come assessore all’Istruzione, Formazione e Cultura. A marzo 2018 è tornata alla Camera dei Deputati, nella Commissione Cultura, Scienza, Istruzione in qualità di capogruppo di Forza Italia. Responsabile nazionale del Dipartimento Istruzione del partito, ha contribuito a varare molteplici riforme. Ha raccolto le sue proposte politiche in diverse pubblicazioni.

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