Lo smart working è finito?

Ha ancora senso parlarne o possiamo includerlo in un più ampio concetto di flessibilità? Non esiste un’unica risposta, ma sappiamo che sostenibilità e benessere sul lavoro contano più di prima, e che ripensare modalità di svolgimento e spazi organizzativi è una priorità per tutti

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Osservatorio smart working 2024

di Maria Cecilia Chiappani | Il fenomeno che più di tutti ha cambiato il lavoro in Italia, dal punto di vista organizzativo, normativo e tecnologico: lo smart working.

Un sentiero con salite e discese, con milestone fondamentali che negli ultimi dieci anni hanno stabilito punti fermi ormai insindacabili, e che si trova oggi, ancora una volta, in cerca di identità. Dalla Legge 81 sul lavoro agile del 2017 alla crescita che, nel 2019, vedeva in Italia 570mila smart worker e un 10% di aziende già impegnate nell’offerta di questi modelli. Numeri esigui, letti con il senno di oggi, ma significativi. Poi, il cigno nero del covid, che ha trasformato la fisiologica evoluzione nel boom che conosciamo.

Lo smart working è diventato lo strumento per continuare a lavorare tutelando al contempo la salute pubblica. “Una crescita forzata, non strutturale e sistematica, forse non sostenibile sul lungo periodo”, spiega Mariano Corso, responsabile scientifico Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, in occasione del convegno di presentazione della ricerca Tra Smart Working e Return-to-Office: orientarsi nel labirinto della flessibilità.

“Nella nuova normalità, fino al 2023, abbiamo vissuto due tensioni opposte”, continua. “Da un lato la tendenza alla normalizzazione verso i livelli pre-pandemici, dall’altro la spinta a istituzionalizzare queste dinamiche nelle imprese pubbliche e private. Nell’ultimo anno, in particolare, la fine di proroghe e obblighi ha sancito la completa libertà delle aziende nella scelta di quali modelli offrire. Questo non comporta la fine dello smart working, anche se molti grandi imprese, vedi Amazon, hanno annunciato il ritorno al 100% in presenza. Siamo entrati in un panorama inesplorato, che ci proponiamo di analizzare e comprendere. Un passaggio fondamentale per aiutare le aziende a soddisfare le esigenze delle persone e a rimanere competitive”.

Più che declino, evoluzione dello smart working

Dove siamo arrivati? i numeri del 2024 non sanciscono la fine dello smart working, ma pongono interessanti interrogativi. Nel complesso, in Italia ci sono 3.555.000 lavoratori da remoto, un -0,8% di sostanziale stabilità rispetto al 2023. Il 96% delle grandi imprese private consolida le proprie iniziative e registra un +1,6% di remote worker, arrivando a 1,91 milioni. Siamo vicino al picco massimo del periodo pandemico.

Non possiamo dire la stessa cosa, invece, per le Pmi, dove la fine degli obblighi normativi sta comportando una battuta di arresto circa un modello che, comunque, viene ancora visto come occasionale e non strutturale. Nell’ultimo anno, infatti, le iniziative nelle piccole e medie imprese scendono dal 56% al 53%, così come il numero di lavoratori da remoto torna a livelli di poco superiori a quelli del 2022. Quanto alle Pa, il lavoro agile risulta implementato nel 61% delle amministrazioni, con incidenza maggiore nelle più grandi. In termini numerici, si riscontra una leggera riduzione rispetto al 2023 con 500.000 lavoratori.

I modelli di lavoro da remoto, nella maggior parte dei casi omologati per tutti i lavoratori agili dell’organizzazione, spingono a un’ulteriore riflessione. Solo il 24% delle Pa e il 40% delle grandi imprese differenziano in base a tipologia di attività o inquadramento delle persone. Rispetto al numero di giornate in “smart”, si passa da 9 giorni al mese nelle grandi imprese a 7 nel settore pubblico, fino ai 6,6 giorni delle Pmi.

L’approccio dei manager conta

L’atteggiamento dei manager può influenzare notevolmente sia l’adozione dello smart working sia l’effettivo utilizzo da parte dei lavoratori. Secondo la survey dell’Osservatorio, il 54% delle grandi imprese ritiene i propri dirigenti dei validi promotori di tali iniziative. Le mettono in pratica, se possibile, e stimolano i propri collaboratori a farlo. Nel pubblico e nelle Pmi questa positività è meno diffusa e si riscontra rispettivamente nel 37% e nel 27% delle organizzazioni. Oltre un terzo delle Pmi vede i propri manager scettici rispetto allo smart working. Permettono alle persone di lavorare da remoto solo per particolari necessità e, addirittura, non ne incentivano l’applicazione.

Sintetizzando, le aziende pubbliche e private mostrano tre tipi di approccio: strategico, tattico ed estemporaneo. Al livello strategico troviamo organizzazioni con manager “evoluti”, che spingono per la flessibilità, e persone che hanno imparato a lavorare per obiettivi. Le imprese con approccio tattico, invece, praticano lo smart working in modo sistematico ma non hanno ancora compiuto la vera trasformazione della logica lavorativa. Infine, nel modello estemporaneo lo smart working è visto solo come strumento per fronteggiare esigenze puntuali. L’approccio strategico vale per il 33% delle persone grandi imprese, il 20% delle Pa e l’8% delle Pmi.

Se nelle “big” c’è un forte allineamento tra il comportamento dei manager e quello dei collaboratori, nel 24% delle Pmi e nel 19% delle Pa si vedono divergenze. In alcuni casi le persone hanno cambiato modo di lavorare senza un reale commitment da parte dei responsabili. Ecco perché diventa importante monitorare il rischio di frustrazione dei lavoratori che non vedono riconosciuti i propri risultati. Ma succede anche che, in presenza di manager che incoraggiano l’adozione, le persone utilizzino poco o per nulla lo smart working. Qui, bisognerebbe approfondire le motivazioni e risolvere le criticità.

Spazi a misura di flessibilità

L’evoluzione delle modalità di lavoro accende i riflettori anche sul tema degli spazi. Sia come luoghi di trasmissione dell’identità organizzativa, sia come veicolo per affrontare le sfide delle organizzazioni. In primis, c’è il miglioramento del benessere sul lavoro: il 56% delle grandi imprese e il 28% di Pmi e Pa dedicano spazi a relax e socializzazione. Meno diffuse le soluzioni per il benessere fisico come gli standing desk.

Seconda priorità, rispondere efficacemente alle esigenze delle persone, per esempio permettendo loro di scegliere dove lavorare secondo il principio dell’Activity-Based Working. Le grandi imprese sono già operative: il 78% ha, almeno in alcune sedi, spazi flessibili, riconfigurabili, differenziati e integrati con tecnologie di collaborazione adeguate. Diversa la situazione di Pa e Pmi, dove gli spazi smart si limitano rispettivamente al 49% e 34%. Ripensare gli spazi non è solo un modo per rispondere ai bisogni di una forza lavoro sempre più eterogenea, ma anche un’opportunità per affrontare questioni inderogabili.

Bisognerà infatti concentrarsi maggiormente sull’impatto ambientale delle strutture. Gli interventi attuali, presenti nel 63% delle grandi imprese, nel 54% delle Pmi e nel 56% delle Pa, si concentrano principalmente sulla segmentazione degli spazi per evitare sprechi di riscaldamento e raffrescamento. Meno adottati, invece, gli arredi fatti di materiali green (40% grandi imprese, 15% Pmi e 12% Pa). C’è infine l’inclusività degli spazi di lavoro. Solo il 26% delle grandi aziende, il 13% delle Pmi e il 21% delle Pa possiede elementi che rendono gli spazi accessibili a persone con esigenze non standard. Quali, per esempio, percorsi tattili e scelte cromatiche. Meno di 1 azienda su 10 offre invece spazi adeguati a persone con neuro diversità o luoghi di preghiera per diverse fedi religiose.

Nuovi modelli di smart working

La flessibilità si conferma rilevante per attrarre e trattenere talenti. Per questo le organizzazioni stanno sperimentando anche nuovi modelli di organizzazione come la settimana corta, sebbene attualmente adottata da meno di 1 azienda su 10. Per il resto, le iniziative vanno dalla settimana compressa ai venerdì brevi, talvolta applicati solo in determinati periodi. Oppure si prova la rimodulazione dell’orario lavorativo per alcune categorie di lavoratori.

Gli analisti si soffermano infine sul fenomeno dell’International Smart Working, presente soprattutto nelle grandi imprese, nel 29% delle realtà, e ancora contenuto nelle Pmi, con il 4% delle aziende. Diventa comunque interessante monitorarne l’evoluzione poiché rappresenta una valida “leva” di attrazione di talenti e di ampliamento del bacino geografico di appartenenza. Per le piccole e medie imprese, l’International Smart Working potrebbe supportare i progetti di internazionalizzazione.

A limitare la diffusione della pratica, attualmente, gli aspetti della gestione fiscale e previdenziale, segnalati da circa la metà delle organizzazioni con progetti avviati. I principali rischi dichiarati dalle grandi imprese sono la perdita di senso di appartenenza e la riduzione dell’engagement (57%), mentre per il 46% delle Pmi la sicurezza dei dati.

La spinta serve soprattutto alle Pmi

Se lo smart working non è finito, cosa aspettarci nel futuro? Le aziende esprimono una previsione di aumento del 5,2%. La maggior parte di chi già lo ha adottato manterrà il proprio modello invariato. A far evolvere le iniziative, in termini di persone coinvolte o di policy, saranno soprattutto le grandi imprese (35%), seguite dalle PA (23%) e dal 9% delle Pmi. Quanto alle stime sul numero di lavoratori coinvolti, il 35% delle grandi imprese e il 43% delle pubbliche amministrazioni punta a incrementare. Nelle Pmi, invece, la direzione è opposta: solo l’8% ipotizza un aumento.

“Lo smart working è apprezzato e affermato, ma non consolidato”, conclude Mariano Corso. “Nel 2024 ci troviamo davanti a scelte importanti: problemi irrisolti di spazi e modelli organizzativi, patologie come l’overworking e opposte tensioni al ritorno forzato in presenza. Si parla di aumentare la flessibilità con settimana corta e globalizzazione del mercato lavoro. Ma anche di nuove generazioni da attrarre e di engagement per quelle mature, oltre all’impatto delle nuove tecnologie sulle modalità di lavoro”.

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