No, i direttori del personale non sono più quelli di una volta. La loro evoluzione, insieme ai profondi cambiamenti economici, sociologici e tecnologici del lavoro, rappresenta una chiave di lettura importante nella complessità delle nuove dinamiche aziendali.
Le sfide delle risorse umane in Italia, gli strumenti da cogliere, la visione relazionale e olistica di questo percorso professionale sono al centro del nostro incontro con Elena Panzera, presidente per la Lombardia di Aidp (Associazione Italiana per la Direzione del Personale) e Senior HR Vice President Emea & Ap di SAS, che vanta una lunga esperienza nella gestione delle risorse umane, anche come psicologa e formatrice. All’interno di un tessuto territoriale, quello lombardo, tanto fiorente quanto complesso, significativo bacino di best practice che possono guidare il cambiamento.
Direttore del personale: mai ruolo è stato forse più difficile, ma al contempo affascinante, di quello vissuto oggi da chi si trova a vivere le transizioni umane e tecnologiche del lavoro. Come lo state affrontando?
Da un lato, occupiamo il posto perfetto perché al centro del cambiamento, dall’altro siamo perennemente scomodi. Un equilibrio instabile ma affascinante, dove il direttore HR rappresenta il fil rouge che interconnette le diverse anime aziendali. È quasi l’unica funzione a vantare una visione a ombrello, che racchiude tasselli di tutto ciò che accade nelle divisioni aziendali. Questa è una responsabilità, ma anche un punto di vista privilegiato e olistico sulla situazione.
Il momento è certamente difficile, anche perché ci vengono richieste attività e competenze esterne al mondo HR, alla nostra classica “cassetta degli attrezzi”. Oggi parliamo di sostenibilità sociale ed economica, di approccio delle persone con la tecnologia, di avere una funzione di governance che tenga insieme la persona, l’organizzazione e l’ecosistema di riferimento. Tante attività di un HR hanno poco a che fare con ciò che questa figura ha sempre fatto. Siamo di fronte a un ruolo multidisciplinare: essere un connettore delle funzioni aziendali implica anche mettere costantemente in discussione quanto appreso in passato.
In più occasioni ha ribadito l’importanza delle relazioni, sia nelle vesti di presidente Aidp Lombardia sia nella sua vita professionale. Quali valori accumunano le esperienze?
L’uomo vive di relazioni. Quando parliamo dell’impatto dell’intelligenza artificiale e di cosa possiamo fare, in quanto uomini, per essere pronti a gestire una rivoluzione di entità simile a quella industriale, mi piace fare riferimento a un concetto espresso di recente dal filosofo Luciano Floridi. Ovvero, la possibilità di soffermarci su una cosa che appartiene esclusivamente a noi umani: la ricchezza delle relazioni. Nonché l’arricchimento della nostra identità tramite la ricchezza delle relazioni.
Ciò non significa, banalmente, conoscere persone e frequentarle. Vuol dire crescere in un’ottica multidisciplinare, sapere chi ci può aiutare su un determinato progetto e perché. Costruire una rete che, mentre intorno a noi diventa impossibile avere le competenze necessarie per gestire un processo nella sua totalità, ci garantisca il ricorso alla multivisione. Inoltre, quando le relazioni ci fanno sentire bene, professionalmente e personalmente, si ottiene un importante livello di resilienza che consente di fronteggiare le incertezze.
Attenzione, tengo a sottolineare che il networking è una competenza, e come tale va conosciuta e coltivata in maniera “scientifica” fin dall’inizio della propria carriera, già in ambito universitario. Solo così ogni singolo nodo creerà valore, tra ciò che può essere preso e donato, all’interno di una rete strategicamente mappata.
Nuovi modelli di leadership, nuove esigenze dei lavoratori: come coniugare queste sfere e integrarle all’evoluzione complessiva dei processi aziendali?
Anche il leader in sé è molto diverso rispetto al passato. A maggior ragione dopo la pandemia, è la persona che si prende cura del team a 360 gradi. Questo perché si sono smarcati una serie di confini detenuti dal capo, in ottica di comando e controllo, esclusivamente inerenti alla sfera lavorativa. Oggi, le persone vogliono essere viste e prese in carico in quanto persone, nella loro interezza, non solo come lavoratrici e lavoratori.
Questo include la famiglia, lo stile di vita, il tempo libero, la salute, i valori. Un’area del tutto nuova e difficile da affrontare per alcuni manager. Da qui, l’importanza del reskilling dei dirigenti, che devono essere attrezzati per sostenere un carico più emotivo che professionale. Ritengo strategico dedicare tempo e formazione a questi leader. Come HR gli stiamo chiedendo tanto: se non dedichiamo loro un pacchetto formativo adeguato, anche in termini di coaching e mentoring, miniamo il loro benessere lavorativo. Si tratta, infatti, di aiutarli a riconoscere il cambiamento del proprio ruolo. Di fornire una serie di strumenti che, una volta, potevano essere appannaggio dei “leader illuminati”, mentre oggi devono appartenere a tutti.
Oltre all’importanza di dimostrare che, dati alla mano, se non si esercita una leadership orientata al benessere delle persone il fatturato ne risente. Non ragioniamo in questo modo perché siamo persone di buon cuore. Dobbiamo andare verso questi modelli di leadership perché è scientificamente provato che le persone, quando si sentono bene, lavorano altrettanto bene e liberano le proprie abilità. A beneficio dell’azienda nella sua totalità e di una crescita sostenibile nel tempo.
In che modo l’associazione supporta, sia nazionalmente sia territorialmente, queste sfide?
Diciamo spesso, come volontà e come mantra, che vogliamo essere “la casa degli HR”. Spiego perché: il responsabile delle risorse umane, per definizione, non è un mestiere corale. Spesso queste figure si sentono sole, devono dare molte risposte ma hanno pochi riferimenti a cui porgere domande. Aidp Lombardia vuole e può rappresentare un contenitore che aggrega questi manager. Anzi, una casa dove si sta bene, dove arricchire il proprio bagaglio culturale e professionale con competenze nuove. Per poi tornare nelle aziende, grandi o piccole che siano, con strumenti e idee validati dalle best practice di altri colleghi incontrati in associazione o dall’esito di progetti condivisi.
Un altro mantra che vorrei sottolineare è “pochi eventi, molti progetti”. Alla base, teniamo molto alla possibilità di sperimentare e portare sul territorio le buone pratiche, anche in collaborazione con altre associazioni. Per esempio, abbiamo attivato progetti di mentoring e coaching per i giovani, così come ricerchiamo la sinergia con le istituzioni. È questo il caso del protocollo d’intesa siglato con Regione Lombardia per promuovere lo sviluppo del programma “Luoghi di lavoro che promuovono salute – Rete WHP Lombardia”.
A proposito di Lombardia: una regione tanto fiorente, dal punto di vista imprenditoriale, quanto complessa per le sfide del mismatch e della gestione dei talenti. Ce ne racconta le peculiarità?
Confermo le grandi potenzialità del nostro territorio. Aidp Lombardia conta circa 1.150 soci, tante esperienze che abbiamo la fortuna di conoscere e di intrecciare alle sfide che ci competono. La prima è che il territorio lombardo ospita sia “big” sia “piccoli”, da rappresentare con una politica HR che tenga conto della varietà di esigenze. Per noi è fondamentale capire come supportare in ottica people sia la grandissima azienda multinazionale sia la microimpresa padronale con meno di cinque dipendenti.
Un’altra sfida è nella distribuzione territoriale. Milano catalizza la maggior parte delle aziende ma c’è tutto un mondo di realtà interne, nelle provincie lombarde, che accedono allo stesso tipo di competenze, allo stesso tipo di sviluppo e alla mobilità dei talenti. Terzo aspetto, la forte competitività con l’estero: una volta si veniva in Lombardia per trovare lavoro, oggi da qui si espatria. La tendenza tocca anche i professionisti delle risorse umane, poiché i percorsi accademici di riferimento per questi profili hanno sede soprattutto nella nostra regione. Molti giovani, una volta terminati gli studi, scelgono altre strade. Mancanza di appeal nelle aziende? Problema sistemico tutto italiano? Difficile identificare un’unica causa, ma la tendenza va rilevata.
Menzione particolare, infine, per le Pmi, dato che il tessuto imprenditoriale lombardo è praticamente sorretto dalle piccole e medie imprese. In Aidp abbiamo creato un gruppo dedicato alla realizzazione di un modello di ufficio HR replicabile nelle peculiarità e nelle problematiche tipiche di queste aziende. La sfida è creare dei laboratori, dei veri e propri think tank nei quali aiutare gli imprenditori e i direttori del personale a sviluppare il giusto mindset per far crescere l’azienda occupandosi delle persone.
IA e competenze umane possono coesistere? Quanto conta spingere sulla formazione continua?
Non solo possono coesistere, devono farlo! Spostiamo il focus: non dovremmo temere che l’intelligenza artificiale ci rubi il lavoro, perché il lavoro se lo prenderà chi la sa utilizzare meglio di noi. L’AI potenzia i processi umani, ma sempre in modo mediato. L’uomo non dovrebbe mai prendere decisioni all’interno di un processo che non vede alcun apporto della componente umana.
Per usare consapevolmente ed eticamente l’intelligenza artificiale, generativa e non, la formazione continua non è solamente necessaria. È la condizione fondamentale per la sopravvivenza e la competitività delle imprese e per l’occupabilità delle persone. Ancora prima di formazione, dunque, parlerei di consapevolezza. Perché manca la consapevolezza di cosa possa fare o meno l’intelligenza artificiale nei processi lavorativi e nella vita quotidiana. Questa non conoscenza genere ansia, paura, bias e altre dinamiche.
Lancio una provocazione: ci vorrebbe un programma nazionale di sensibilizzazione dei cittadini su cosa significhi usare l’AI. Noi, giustamente, pensiamo alla formazione aziendale, che renderei obbligatoria anche in tema di AI, ma il tema ha una portata più ampia. C’è in palio una modalità fondamentale per vivere nelle organizzazioni e nella società.
Altra sfida, per i team HR, il ricambio e l’integrazione multigenerazionale, con l’ingresso della Gen Z. Può riportarci delle best practice in merito?
Su questo tema sono un po’ disruptive… la mia best practice è smetterla di parlare di generazioni! Quando parliamo di differenze generazionali, o di cinque generazioni nei posti di lavoro, creiamo immediatamente una logica di conflitto. Se, invece, parlassimo di persone nella loro unicità e delle loro caratteristiche, tra le quali certamente annoverare quella demografica, allora inizieremmo a ragionare di nuovo in un’ottica di multidisciplinarità e di collaborazione, che permette di apprezzare le differenze individuali a beneficio del team.
Nella mia esperienza, vedo più discrepanze ormai negli stili decisionali e di leadership, così come nell’approccio all’apprendimento continuo, piuttosto che nell’appartenenza a una generazione o a un’altra. Abbiamo Baby Boomer appassionati di tecnologia, più aggiornati di alcuni Gen Z, così come giovani che nella capacità di analisi hanno qualcosa da imparare dai senior. Insomma, guarderei la persona più in ottica di stili di comportamento che di generazione di provenienza, per arrivare alla cooperazione e non al conflitto generazionale.
Quanto alla stereotipizzazione di determinati fenomeni, da psicologa posso notare che la mente umana è molto facilitata quando lavora per categorie. Dunque, incasellare il mondo lo semplifica agli occhi umani e rende tutto più “notiziabile”. Quando, invece, si introducono concetti di complessità e di unicità, l’idea di guardare la persona attraverso un altro tipo di lente, il percorso diventa più difficile da raccontare ma più vicino alla realtà.
Ritengo altrettanto interessante notare che, se continuiamo a descrivere le generazioni attraverso 3 o 4 tratti distintivi, come possiamo promuovere l’attuale tendenza alla iper-personalizzazione dell’offerta? Non ci troviamo davanti a un cluster o a una generazione, bensì a una persona nella sua più assoluta individualità e in relazione al suo contesto professionale, familiare, di approccio tecnologico. Se noi rappresentanti del mondo HR riuscissimo a ragionare maggiormente in questo modo, riusciremmo ad andare ben oltre le azioni o le descrizioni che ogni giorno leggiamo sull’evoluzione del lavoro.
Chi è Elena PanzeraPsicologa del Lavoro e delle Organizzazioni si laurea all’Università Cattolica di Milano, inizia la sua carriera in McKinsey. Passa poi in KPMG Advisory Service come Training & Internal Communication Manager, per poi cogliere l’opportunità offertale da SAS di seguire l’area di Professional Development per la sede italiana. Dal 2009 HR Director per l’Italia fino all’attuale ruolo di Senior HR Vice President Emea & AP, dove coordina le attività HR di 45 Paesi. Membro dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia, ha un master in coaching e una certificazione internazionale in Change Management. Dal 2020 è presidente dell’Associazione Italiana Direzione del Personale per la Lombardia e responsabile dell’area Innovazione e Futuro del Lavoro dell’Associazione. È professore a contratto di Human Resources Information Systems all’Università degli Studi di Milano. |
Condivido pienamente la ricchezza di prospettive e di problematiche che attualmente gli HR possono o devono affrontare. Ciascuna meriterebbe un approfondimento teorico- pratico. Mi auguro che AIDP possa farlo nei suoi gruppi. Suggerisco anche il tema della sicurezza lavorativa e quello della psicologia della sicurezza, oltre quello del talent management e dei suoi processi meno stereotipizzante